Jasminko, Adnan, Pero, Amir. Quattro persone, quattro storie nelle quali tenacia e determinazione contribuiscono a superare il tragico passato della Bosnia Erzegovina
A fine gennaio di quest’anno è stato aperto a Sarajevo il “Muzej ratnog djetinjstva ” (il Museo dell’infanzia di guerra). È un miracolo in un paese come la Bosnia dove, per sette anni, sono state chiuse, per mancanza di soldi, le più importanti istituzioni culturali, compreso il Museo Nazionale.
La nuova struttura è un caso eccezionale anche perché si è assicurato il finanziamento (da parte di donatori internazionali e tramite il crowdfunding) ancora prima dell’apertura. E poi il fatto straordinario è che questo museo è più conosciuto e più sostenuto all’estero che nella città dove ha sede.
L’apertura del Museo dell’infanzia di guerra è il risultato della straordinaria forza del ventottenne Jasminko Halilović, laureato in economia. “Sei anni fa, quando ho iniziato a lavorare per la realizzazione di questo museo, sapevo che non sarebbe stata una passeggiata e che avrei trovato molti ostacoli”, dice Jasminko. Malgrado ciò lui stesso è rimasto sorpreso dal fatto che i principali ostacoli e la completa mancanza di sostegno li abbia incontrati proprio a casa propria, a Sarajevo.
Halilović ha riunito intorno a sé una squadra energica ed entusiasta di quindici persone. Sei anni fa non avevano né soldi né una sede. Hanno superato ostacoli, trovato soluzioni alternative, e hanno dimostrato che si può raggiungere qualcosa anche senza il sostegno dello stato.
Pochi giorni prima dell’apertura del Museo, il ministero federale per la Cultura e lo Sport ha negato un simbolico finanziamento, che avrebbe potuto “salvare la faccia” e assicurare un posto tra gli altri partecipanti e sostenitori di questo progetto. La giustificazione ufficiale è stata che “il Museo dell’infanzia di guerra non merita sostegno.”
Nello stesso tempo l’esperto museale Franklin Vagnone ha citato il Museo dell’infanzia di guerra come “un esempio di moderna istituzione museale”.
“Dopo le guerre, di solito, sentiamo o leggiamo le testimonianze dei politici, dei generali, dei militari… comunque sia degli adulti. Anche i bambini hanno il diritto di far conoscere le loro storie”, dice Halilović.
Nella sola Sarajevo, durante la guerra, sono stati uccisi 1600 bambini, e in Bosnia Erzegovina c’è un’intera generazione che è cresciuta durante la guerra. Questa esperienza ha segnato per sempre la loro vita. Lo stesso Halilović aveva quattro anni all’inizio del conflitto e sa benissimo cosa significhi vivere e crescere sotto le bombe e senza le cose essenziali.
Il Museo ha una duplice missione: da un lato raccogliere oggetti che hanno avuto un significato particolare per quei bambini che hanno vissuto la guerra, e dall’altra far capire cosa significhi crescere in guerra e fare in modo che esperienze simili non capitino più.
Il Museo dispone già di più di 4000 reperti che illustrano l’esperienza di crescere in guerra.
Ogni oggetto ha un suo significato e una sua storia. Ci sono delle bamboline fatte a mano, unico giocattolo di una ragazzina, piccole figure in vetro, un piccolo forno fatto di gronda, i primi occhiali da vista di un bambino, delle scarpette da ballo, video di saggi di danza, il giornalino di una scuola, un vecchio cappello con un buco che un ragazzino indossava nel momento in cui è esplosa una granata, l’altalena di una bambina costretta a dondolarsi in cantina anziché all’aperto e che il nonno le aveva costruito.
Ci sono anche numerose testimonianze audio e video di quei bambini che ricordano la guerra solo come una successione di giornate fatte di paura e terrore, di suoni di bombardamenti, di urla e pianti, e talvolta di ricordi grotteschi come quelli di una bambina che, ogni volta che riceveva il permesso di andare a giocare sotto il palazzo, si sentiva ammonire da sua madre: “Se ti fai uccidere, ti picchio!”.
Tra i reperti c’è una grandissima collezione di confezioni di generi di aiuti umanitari che arrivavano ai sarajevesi durante la guerra. L’ha fatta Filip Andronik, oggi noto fumettista bosniaco e comico: durante la guerra era anche lui un bambino e viveva nel quartiere di Dobrinja. Nel 1996 la sua collezione è stata inserita nel libro dei Guinness dei primati.
Il museo è destinato a crescere e a viaggiare, attraverso conferenze e mostre temporanee all’estero. Attraverso le sue attività di ricerca, cercherà di aiutare i bambini durante e dopo il conflitto, identificando le loro esigenze e proponendo soluzioni ai loro problemi.
Adnan
Adnan è riuscito a fare quello che tutti i politici, la comunità internazionale e le autorità religiose messi insieme non sono stati in grado di fare: avvicinare due comunità ostili e opposte, e farle lavorare insieme.
In una piccola città della Bosnia centrale, a Prozor, i cattolici e i musulmani si sono scontrati durante la guerra: “Il sangue è caduto tra di loro”. A guerra finita, i cattolici e i musulmani rimasti non si frequentavano più, non si parlavano, e la cittadina si è divisa nettamente sulla linea dell’odio. Da una parte della strada passavano gli uni, gli altri camminavano dall’altra parte; in un bar entravano gli uni, gli altri bevevano in un posto diverso; i bambini frequentavano scuole separate e, se non c’era modo di dividere un edificio scolastico, vigeva la regola “due scuole sotto uno stesso tetto”, cioè gli uni a scuola di mattina, gli altri di pomeriggio.
Adnan era uno studente d’ingegneria, un giovane qualsiasi – come probabilmente lo avrebbero definito in molti - comunque senza alcun titolo pubblico. Gentile ed educato, parlava a bassa voce, si esprimeva con parole chiare, presentava le sue idee in modo inconfondibile. Non c’era nulla di aggressivo in lui, l’unica forza era la sua tenacia.
Adnan ha voluto sfidare quello che per gli altri pareva impossibile. Egli ignorava la regola numero uno che vigeva in città dopo la guerra: prima di intraprendere qualsiasi azione assicurarsi che si tratti dei “nostri” e non far nulla per “gli altri”.
Adnan salutava, proponeva, organizzava, invitava tutti senza badare se erano o non erano “nostri”. Ha cominciato con una piattaforma internet, dove pubblicava le notizie locali che riguardavano l’intera comunità. Poi organizzava eventi e invitava tutti indistintamente.
All’inizio i concittadini lo guardavano e ascoltavano con sospetto. Poi, incuriositi, si sono avvicinati a lui, hanno accettato le sue idee e proposte, hanno preso parte alle azioni comuni e hanno lavorato insieme.
Si trattava di azioni e piccole iniziative, normali per una società sana. Ma per Prozor, dove prima di Adnan la gente s’incontrava senza guardarsi, i vicini non si salutavano, i bambini crescevano non gli uni accanto agli altri, ma gli uni contro gli altri, ogni cosa fatta insieme, pareva un piccolo miracolo.
In Bosnia abbiamo un vecchio detto per le persone come Adnan: “Tiha voda, brdo valja”, cioè l’acqua calma sposta la montagna. Mite e persistente Adnan davvero era in grado di abbattere barriere, forse più solide di quelle fisiche, spostava montagne fatte di mentalità, di pregiudizi e ostilità.
Un giorno, mentre giocava a pallacanestro con gli amici, Adnan è stato stroncato da un infarto. Aveva solo 28 anni. La sua morte ha colpito l’intera comunità. Tutti insieme hanno fatto onore ad Adnan con una partita di calcio: una squadra composta da preti e imam, e l’altra dai giovani.
“In questo gioco siamo tutti noi vincitori, compreso il pubblico nello stadio”, ha detto il frate Tomislav Brković. “Giocando insieme abbiamo inviato il messaggio comune che possiamo vivere insieme. Noi francescani bosniaci siamo di questo parere. Da oltre sette secoli operiamo in Bosnia Erzegovina, la nostra storia è la prova che si può vivere insieme. E questo è il nostro grazie al giovane Adnan che ci ha incoraggiato a stare insieme, come facevano i nostri antenati”.
Pero
Più di cinquantamila persone avevano acclamato nel centro di Sarajevo il signor Pero Gudelj, durante i festeggiamenti per il trofeo europeo vinto dalla nazionale di basket under 16 nel 2015. Per gratitudine e stima.
La squadra nazionale, infatti, aveva rischiato di non partecipare al torneo, mancavano i soldi, quelli promessi dal governo non erano mai arrivati, e i molti politici e tycoon che di solito hanno la bocca piena di patria e di patriottismo, non si erano fatti vivi. Il signor Pero sborsò la somma necessaria. Come in molte occasioni, prima e dopo.
Pero Gudelj non è un politico, né un capo religioso, né uno sportivo, e neanche un personaggio del mondo dello spettacolo. Ma è tra i personaggi più amati in Bosnia. Gli vogliono bene in molti, a prescindere se serbi, croati o bosniaci.
Il che non è scontato in “Assurdistan”, come i bosniaci ironicamente chiamano la Bosnia Erzegovina, il paese degli assurdi. Perché là, prima di fare qualsiasi cosa, si calcolano i globuli bianchi e rossi di ciascuno per decidere se è “nostro” o “loro”.
Eccezionalmente quando uno menziona “il nostro Pero” sappiamo bene che non può essere nessun altro che Pero Gudelj.
In due decenni, dopo la guerra, Pero Gudelj ha costruito un’impresa di tremila impiegati, ed è divento uno tra i più ricchi in Bosnia.
Non è la ricchezza ad avergli procurato la simpatia e la stima della gente. È stato tra i primi a dare lavoro a chiunque ne avesse bisogno e voglia, senza badare chi fosse. Altrove una cosa scontata, ma in Bosnia Erzegovina, dove la nazionalità e la religione contano più dell’umanità, ancora oggi è cosa rara.
Pero proviene da una povera famiglia di un paesino della Bosnia centrale, vicino alla cittadina di Vitez. Un tempo posto di passaggio lungo la strada, oggi è un grande centro commerciale, prosperoso grazie anche a Pero Gudelj che vi ha costruito la sua azienda.
Egli si ricorda e parla dei tempi quando non aveva abbastanza da mangiare. Aveva fatto vari lavori nella sua vita e, per guadagnare, suonava anche la fisarmonica nelle trattorie e nelle feste paesane.
La musica è il suo grande amore ancora oggi. Non a caso il nome FIS della sua azienda viene dalle prime tre lettere dalla parola fisarmonica. Pero è rimasto un uomo semplice, cordiale, un buon vicino. Spesso si ferma, e con i suoi lavoratori e concittadini suona, canta, si diverte.
Quest’uomo fisicamente robusto, abile imprenditore, benestante, amato e stimato, soffre però di cuore romantico. Per amore, nel 2015, ha tentato il suicidio, sparandosi in testa.
L’intero paese era sotto shock e, con il fiato sospeso, tutti attendevano di sapere se Pero ce l’avrebbe fatta. I media, i social network erano bollenti di messaggi di auguri di pronta guarigione. I credenti pregavano per lui, tutti erano preoccupati per “il nostro Pero” e si radunavano sotto l’ospedale dove Pero era ricoverato e al quale lui stesso, anni prima, aveva fatto un’importante donazione.
Tutto poi è finito nel migliore dei modi. Pero Gudelj è sopravvissuto, si è ristabilito, “non so cosa mi sia preso”, risponde quando gli chiedono il motivo del suo gesto.
Di recente tutti hanno tirato un sospiro di sollievo nel sapere che il “nostro Pero” ha trovato un nuovo amore.
Amir
Vendicarsi o perdonare? Nel 1992 Amir Reko, come ufficiale dell’esercito bosniaco, si trovò proprio davanti a questo dilemma. Eseguire l’ordine di attaccare il villaggio di Bučje, considerato un punto strategico per la difesa della città di Goražde, oppure procedere diversamente?
Nel villaggio di Bučje, nella Bosnia orientale, abitavano i serbi bosniaci, all’epoca i nemici. Il posto, secondo l’ordine militare, doveva essere “neutralizzato”. Il che voleva dire eliminare quasi tutti i civili che vi abitavano.
Per Amir, quell’ordine poteva essere l’opportunità di vendicarsi per quello che era successo pochi giorni prima. Le milizie serbe avevano ucciso i musulmani del villaggio di Gudelj. Tra i civili bruciati vivi nelle loro case c’era la madre di Amir, suo nonno e altri cinque famigliari.
Il dilemma che Amir si trovava davanti era di difficile soluzione: disobbedire all’ordine e rischiare di essere processato dal commando militare? All’inizio, già per il solo fatto di esitare ad attaccare fu accusato da alcuni suoi soldati di essere debole e non “sufficientemente patriottico”. Inoltre anche altri suoi soldati avevano perso i propri cari per mano dei serbi e non aspettavano altro che vendicarsi.
Amir riuscì a superare questi ostacoli esterni e a vincere la battaglia più difficile, quella con se stesso. Riuscì a trattenere il dolore e la rabbia per la crudele uccisione della madre e degli altri famigliari.
Aveva deciso non di vendicarsi, ma di agire con coscienza e onore, di negoziare con i serbi del villaggio di Bučje.
“Stavo davanti a una ventina di contadini serbi, ben armati. Sapevo che tra di loro c’erano i responsabili dei crimini di Gudelj. Ho detto loro di quello che era successo a Gudelj, che avevo perso la mia famiglia. Gli ho detto che non volevo vendicarmi, ma aiutarli. Li ho invitati a deporre le armi e ad arrendersi, io stesso gli garantivo la vita. Sono sopravvissuti tutti”, racconta Amir Reko.
Dopo, a guerra finita, Amir e i serbi di Bučje si sono incontrati ogni anno in primavera, per festeggiare la vita. Uno dei sopravvissuti del villaggio di Bučje è Milo Čarapić. “Grazie a Dio e ad Amir, oggi sono vivo e felice. Ho due figlie, e tutte e due conoscono questa storia. Ho insegnato loro che la cosa più importante è essere umani e che la religione e la nazione vengono dopo. Oggi il migliore amico di mia figlia è un musulmano, l’ha accompagnata al ballo della maturità e ne vado fiero”.