Violenti scontri tra tifosi a Banja Luka a margine della partita tra gli ospiti del Borac e il Željo di Sarajevo. Pochi giorni dopo, a Mostar, gli ultras hanno invaso il terreno di gioco per assalire i giocatori dopo il derby tra Velež e Zrinjski. La disperazione targata generazione 1990
La partita dello scorso sabato 24 settembre era particolarmente attesa per il suo valore sportivo: Željezničar e Borac sono due tra le squadre più forti del campionato di calcio bosniaco-erzegovese. Il “Željo”, storica squadra sarajevese, profondamente radicata nel quartiere di Grbavica, dove si allena, sfidava il Borac di Banja Luka, primo nel suo girone.
A sostegno dei “plavi” alcune decine di tifosi si erano mosse da Sarajevo già nella giornata di venerdì. In serata una rissa in un bar in un sobborgo di Banja Luka, con l’arresto di quattro tifosi del Željo, due dei quali minorenni. Una delle tante che ogni fine settimana portano in ospedale troppi giovani, non di rado con ferite da arma da taglio e da fuoco.
Gol del Željo: inizia l'assalto
L'indomani il match è all'inizio caratterizzato dal gioco rapido e incisivo di entrambe le squadre. Nonostante la posta in gioco, grande fair play in campo, nemmeno un cartellino giallo. Gol del Željo al ventottesimo minuto. Pochi secondi dopo i cori di incitamento tacciono e parte l’invasione di campo di un nutrito gruppo di ultras del Borac che puntano agli spalti della tifoseria ospite iniziando un lancio di sassi e fumogeni. Lo speaker interrompe la telecronaca per raccontare i disordini: “L’arbitro è fuggito... i giocatori del Željo si rifugiano negli spogliatoi... la polizia speciale rincorre i tifosi per il terreno di gioco... i colleghi cameraman resistono sotto il tiro dei sassi e, immersi nel fumo, mantengono le posizioni difendendo l’attrezzatura...”
Al trentatreesimo minuto la notizia ufficiale: la partita è sospesa per ragioni di sicurezza. Mentre a Banja Luka la polizia cerca di arginare gli scontri e fa evacuare tifosi e giocatori del Željo, lo scontro si propaga sui forum e sui social network. Con lo stesso livello di violenza, e lì non c’è nessuno a fare cordone.
La vicenda sembra una barzelletta di cattivo gusto: una partita che si gioca tra una squadra di Sarajevo, capitale della Bosnia Erzegovina nonché sede del governo della Federazione di Bosnia Erzegovina (51% del territorio dello Stato) e una squadra di Banja Luka, capitale della Republika Srpska (49% del territorio della BiH). Secondo i cliché, tipici delle barzellette e delle analisi degli “internazionali”, si tratta dell’imperdibile match tra una squadra e una tifoseria a maggioranza “bosgnacca” (Željo) e una squadra e una tifoseria “serba” (Borac). L’arbitro con nome “croato” per non fare torto a nessuno. Non può che finire a botte.
La barzelletta, però, non fa ridere e a nulla serve chiacchierare di riconciliazione se poi si sentono riecheggiare negli stadi slogan come “ubij turke” (uccidi i turchi). I turchi, nel linguaggio fascista e neo-medievale degli ultras del Borac sarebbero i “musulmani” del Željo.
Il derby di Mostar
Mercoledì 28 settembre era previsto invece l’incontro tra Velež e Zrinjski, le due squadre di Mostar o, per qualcuno, le squadre delle due Mostar (est e ovest). Materiale per un’altra brutta barzelletta e altri inutili report di organismi internazionali di monitoraggio. Partendo dalla considerazione che il derby nella città del ponte vecchio è sempre un momento critico, i rappresentanti dei due club hanno inviato un appello congiunto alla distensione: “[...] Il tempo del primitivismo è finito... oggi con tali comportamenti potete solo portare danno alle vostre squadre, sia in termini economici che di partite a porte chiuse”. Non bastasse questo monito, alla vigilia dell’incontro i capitani di entrambe le squadre si sono rivolti direttamente ai tifosi per chiedere distensione sugli spalti: “Siate fiduciosi del fatto che tra i giocatori in campo è sempre tutta una questione di sport e così deve essere... tifate il vostro club, siate il dodicesimo giocatore, ma del primitivismo non abbiamo bisogno... vincerà il migliore, vincerà il più fortunato... ci saranno altre partite...”, e altre parole belle, tutt’altro che scontate. Messaggi di sport.
La partita ha inizio senza incidenti. Tutto regolare fin quasi alla fine, quando in risposta al gol del Velež parte l’invasione di campo degli ultras dello Zrinjski. A differenza di Banja Luka, qui vengono presi di mira anche i giocatori della squadra avversaria, rincorsi per il campo. Rifugiatisi negli spogliatoi vengono scortati dalla polizia nella “parte est” di Mostar, dove li attendono i loro sostenitori per festeggiare la vittoria. Ma il gusto è amaro, come dichiara il capitano. Dall’analisi dei filmati e dai racconti dei presenti risulta che un giocatore del Velež è stato “salvato” da alcuni colleghi dello Zrinjski, che prima l’hanno difeso dai tifosi, poi l’hanno vestito con la maglia della loro squadra perché potesse allontanarsi incolume. Contemporaneamente, in un altro angolo del campo, un giocatore dello Zrinjski tentava di sgambettare un collega avversario in fuga, il tutto sotto l’inquadratura delle telecamere. Se il fatto sarà accertato, Mile Pehar (classe 1991) sarà escluso dalla nazionale.
Fuggiti i giocatori, gli ultras hanno sfogato la loro rabbia per le vie della città blindate dalla polizia, che comunque non è riuscita a evitare gli scontri. E’ provvisorio il bilancio di otto arrestati.
Bosnia, generazione 1990
Si potrebbe concludere che l’esito delle ultime due partite del campionato bosniaco-erzegovese sia in linea con gli standard europei di violenza calcistica, ma ha senso analizzare i fatti un po’ più in profondità, pur senza “balcanizzare” la notizia. Ricordiamo tutti le immagini di Dinamo-Zvezda a Zagabria, il 13 maggio del 1990, ricordiamo tutti ciò che accadde ai Balcani nei dieci anni successivi. Non è il caso di evocare sempre gli spiriti del passato per cercare di leggere il presente, è sufficiente averli a mente.
Il calcio, in Bosnia come altrove, sa dare spazio alle espressioni più triviali di una società, sia questa in transizione, in via di sviluppo o ricca e panciuta. A volte rende evidenti malesseri diversamente nascosti, segnali da cogliere.
La guerra silenziosa che affolla le corsie dei pronto soccorso di giovani e giovanissimi ogni settimana non origina esclusivamente dalla rivalità calcistica, affonda le sue radici in un disagio profondo, rabbia di una generazione nata negli anni '90, condizionata dal conflitto ('92-'95) in un modo sconosciuto ai reduci, ai sopravvissuti e a chi pretende di studiarne i comportamenti.
Questi giovani non solo non hanno ricordi diretti della guerra, non hanno ricordi diretti del prima. Cresciuti in un dopoguerra di cui è difficile riconoscere i confini temporali, sono il prodotto di una società che non ha fatto i conti con il passato recente, di un sistema e una classe politica che ancora devono la propria sopravvivenza alle categorie di nazionalità e appartenenza religiosa. Categorie riesumate dopo la morte di Tito, cucinate sul fuoco vivo di quattro anni di assedi, stupri, massacri e spostamenti di popolazione, riscaldate e servite a scuola secondo i diversi programmi di istruzione in vigore dopo gli accordi di Dayton. A completare il quadro una situazione di crisi economica perenne, questa senza distinzione di appartenenza.
La recente liberalizzazione dei visti turistici per l'area Schengen ha portato un po' di equità nelle possibilità di movimento, prima chi non disponeva di un passaporto della Serbia o della Croazia era costretto a interminabili e umilianti code presso le ambasciate per richiedere un semplice visto turistico. La magnanima concessione dei grandi d'Europa si è però rivelata troppo presto un privilegio per pochi. Senza soldi non si può andare da nessuna parte. Così molti giovani continuano vivere un mondo confinato al proprio quartiere, alla propria città, alla propria entità. Difficile in queste condizioni relativizzare, difficile anche solo immaginare che altrove, non troppo lontano, la questione della convivenza non è fra Mujo, Milan e Mario ma, come minimo, fra Hans, Muhamed e Chung-Yong.
La morte di Vedran Puljić
Fra non molto ricorrerà l’anniversario della morte di Vedran Puljić tifoso del Sarajevo a cui spararono fuori dallo stadio di Široki Brijeg due anni fa. Non basta ricordare Vedran e chiedere verità sulla sua morte, non basta pensare a come rendere sicure le prossime partite, non basta arrestare i tifosi. E’ ora di interrogarsi su come rispondere alla frustrazione dei ragazzini sbarbati che ogni giorno vanno a sbattere contro una tribuna avversaria. E al futuro di un Paese intero che è anche nelle loro mani.