(© NATNN/Shutterstock)

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La naja ai tempi della Jugoslavia, gli amici e gli escamotage per imboscarsi. E poi le canzoni new wave trasmesse dalle frequenze di una radio italiana. Un ricordo di 35 anni fa che si irradia nel drammatico presente

08/04/2020 -  Ahmed Burić Sarajevo

Mentre ascoltiamo le notizie su come l’Italia sta combattendo l’epidemia, leggiamo sulla drammatica situazione a Brescia, ma anche del caso dell’ospedale Cotugno [di Napoli] dove non c’è nessun contagiato tra il personale sanitario, mi torna in mente un’esperienza simile. Trentacinque anni fa, da giovane soldato dell’Esercito popolare jugoslavo (JNA), avevo vissuto un periodo di quarantena. Le immagini tornano da sole, i nomi sono ormai svaniti.

Chissà su che cosa stavamo vigilando lì, in quel posto sperduto, nei pressi del villaggio di Podgrad, vicino all’odierno confine tra Croazia e Slovenia. Facevamo parte della guarnigione di Ilirska Bistrica, sistemata in due caserme, una del periodo austro-ungarico e l’altra del periodo socialista, in mezzo al nulla, dove erano capitati quelli che volevano in qualche modo togliersi dalle spalle il peso del servizio militare obbligatorio, per evitare di finire in carcere.

Guardando la nostra brigata – composta per l’80% da albanesi, mentre il resto erano ragazzi provenienti dalle grandi città, soprattutto da Belgrado e Novi Sad – un osservatore acuto avrebbe subito capito che quello scaglione sarebbe stato il primo ad essere sacrificato in caso di un’eventuale aggressione da parte di un nemico esterno, che tutti temevamo. Senza rendersi conto che il nemico interno era molto più forte e pericoloso.

Era l’anno prima del Campionato mondiale di calcio in Messico. Una volta terminato il periodo di addestramento e arrivato l’inverno, con i suoi giorni troppo corti e le sue notti troppo lunghe, si cercavano volontari per svolgere il servizio di sentinella in un posto di guardia distaccato, situato a una ventina di chilometri dalla caserma, nei pressi del villaggio di Podgrad, dove c’erano alcuni magazzini pieni di casse di mine. “È il posto migliore, rimani per due settimane, a volte anche di più. Non devi nemmeno stare di guardia, e quando arriva il controllo li vedi avvicinarsi lungo la strada. Lì ci sono sempre solo un cuoco e un conduttore cinofilo, gli altri vanno e vengono”.

Capii subito che era l’occasione giusta per me. Niente addestramento né ordini, e avrei avuto il tempo per leggere: le biblioteche delle caserme della JNA erano ben fornite. Quindi, non c’era nessun motivo per non provare a ottenere quell’incarico. E non era nemmeno tanto difficile: a dicembre la guarnigione si era svuotata, e noi che eravamo rimasti – due unità composte da circa dieci soldati ognuna – inevitabilmente eravamo finiti in quel posto. Un’area recintata, dal diametro di circa 300 metri, e all’interno una casa con una capanna a fianco, e alcuni box per cani. E un magazzino dove “voi non potete andare, ci sono gli ispettori che ogni tanto vengono per verificare se tutto è a posto”. In quei magazzini c’erano delle mine.

Quindi, stavamo sorvegliando quel seme del male che solo sette anni più tardi sarebbe stato sparso in tutta la Bosnia Erzegovina, piantato nella terra, e che avrebbe ucciso persone o le avrebbe trasformate in invalidi. Uno dei paradossi di quella catastrofe risiede nel fatto che i principali fautori del male hanno arrecato a loro stessi il male più grande. Ma probabilmente dovranno passare altri trentacinque anni affinché la gente se ne renda conto.

Quel magazzino era una sorta di metafora della Jugoslavia. Un magazzino dal contenuto piuttosto misterioso, recintato con un filo di ferro sottile, “sorvegliato” da adolescenti in uniforme militare pieni di spermatozoi, che non vedevano l’ora che tutto finisse al più presto. I nomi di quei luoghi riecheggiano ancora come il suono di un’orchestra militare stonata: Zabiče, Rupa, Jelšane, Lipa, Klana… Non facevamo assolutamente nulla in quel posto, tranne giocare a carte, dormire e fantasticare. E “suonare” un po’.

Zoran, il mio migliore amico conosciuto durante il servizio militare, un ragazzo di Vukovar innamorato pazzo dei Rolling Stones, era riuscito a portare dentro di nascosto una chitarra acustica. Così suonavamo quei pochi accordi che conoscevamo, di solito dopo aver bevuto del vino comprato nel villaggio vicino: alcune canzoni New wave e qualche ballata che faceva parte della nostra modesta esperienza delle kafane, maturata prima del servizio militare. Branislav, soprannominato Brens, un tizio cool di Banja Luka, dagli occhi trasparenti come un lago, cantava le ballate meglio di tutti. La sua vellutata voce baritonale faceva presagire che sarebbe diventato uno di quei bohémien che passano le serate nei locali fino all’alba.

Tuttavia, la nostra principale fonte di intrattenimento era una piccola emittente radiofonica che aveva una programmazione strana: un susseguirsi di set di canzoni, ognuno della durata di due ore, poi una pausa di qualche ora, e poi la sera veniva riproposto il programma trasmesso durante il giorno.

Il più birichino di tutti, quindi il più intelligente, era un ragazzo di Belgrado, Dragan, uno šmeker [un figo, ndr] come dicono i belgradesi (nel gergo sarajevese il termine šmeker ha un significato diverso, indicando una talpa, un informatore della polizia), un bravo ragazzo che giocava a calcio molto bene e già in caserma aveva capito che non avrebbe sopportato a lungo la musica che veniva trasmessa dagli altoparlanti, come la canzone “Okreće se kolo sreće” [La ruota della fortuna sta girando] di Kemal Malovčićc e “Zar za mene nema sreće?” [Non c’è fortuna per me?] di Šemsa Suljaković. Avendo capito in fretta che questo tipo di musica novokompovana avrebbe potuto danneggiare il suo udito, Dragan aveva installato un’antenna in modo da poter ricevere il segnale di una delle radio italiane che emettevano nelle vicinanze. Un giorno, dal suo piccolo ufficio – Dragan era addetto alle registrazioni – si sentì, come per magia, il suono di una radio, che trasmetteva canzoni che in quegli anni occupavano i primi posti nelle classifiche. Ogni tanto la musica veniva interrotta da un jingle in cui una voce maschile diceva: Radio Retorte.

Non ho mai saputo nulla di quella radio: come ha ottenuto quel nome? Il termine retorta indica un recipiente di vetro a forma conica usato nei laboratori chimici, soprattutto per riscaldare liquidi. Chi era il proprietario di quella radio?  Non trasmetteva musica italiana, solo canzoni in inglese, che per la maggior parte ricordo ancora: Alive and kicking (Simple Minds), Running up the hill (Kate Bush), Captain of my heart (Double), Broken Wings, Mr. Mister, poi Like a Virgin di Madonna, Dancing in the street cantata da David Bowie e Mike Jagger, Everybody wants to rule the world (Tears for Fears). Ogni pomeriggio, per due ore, venivano trasmesse le stesse canzoni, poi il segnale scompariva, per poi ritornare la sera, riproponendo fino alla mattina tutte le canzoni trasmesse durante il giorno, più una ventina di canzoni nuove.

Abbiamo copiato l’invenzione di Dragan mentre eravamo in quarantena, in quella postazione di guardia, e nella prima metà del 1986 Radio Retorte è stata la nostra principale fonte di gioia.

Qualche giorno fa, quando il cantautore sloveno Vlado Kreslin, nell’ambito dell’iniziativa #ostanidoma [resta a casa], è uscito sul balcone della sua casa, indossando una camicia nera con il colletto alzato, e ha suonato la canzone “Il ragazzo della via Gluck” di Adriano Celentano, mi è subito venuta in mente la notizia che lo scorso 25 marzo l’Ambasciata d’Italia a Sarajevo e Radio Sarajevo hanno lanciato un nuovo programma intitolato “Radio Italia”, che comprenderà musica e altri contenuti per tutti gli amanti della lingua e della cultura italiana.

Forse questa è un’occasione per imparare la lingua del paese più colpito dalla pandemia da coronavirus, un paese che è sempre stato al nostro fianco, ci ha sempre appoggiato. Ricordo ancora la voce di Dan Peterson, che in quello spot pubblicitario per Lipton Ice Tea diceva “migliore” e “giocatore” con quel suo duro accento americano, che ricordiamo da alcune serie televisive, come “Dallas”.

Già, ricordiamo certi dettagli, solo apparentemente banali, che ci aiutano a superare situazioni difficili. Così anche un mio amico, Benjamin, si è ricordato di una canzone. Qualche mese fa, tornando a casa di notte, siamo saliti su un taxi – non usciamo più così spesso, ormai abbiamo una certa età – e dalla radio proveniva la voce di Toto Cutugno. E il mio amico Benjamin ha cantato ogni verso della canzone “Lasciatemi cantare”. In quel momento ho avvertito quella sensazione di equilibrio che ci porta a pensare che, da qualche parte nell’universo, esista qualcosa che ci appartiene, qualcuno che ci assomiglia, anche se non lo abbiamo mai conosciuto. Una sensazione che ci unisce tutti.

Buongiorno, Radio Italia.