Un selfie di Srđan Puhalo assieme ad uno dei 126 salafiti intervistati

Un selfie di Srđan Puhalo assieme ad uno dei 126 salafiti intervistati

Chi sono? Cosa pensano? E cosa pensano gli altri di loro? Srđan Puhalo è autore di uno degli studi recenti più innovativi in merito all'Islam balcanico, dedicato ai salafiti bosniaci. Lo abbiamo incontrato

15/02/2017 -  Alfredo Sasso

“Quando mi è venuta l’idea di fare questa ricerca, molti mi hanno detto che sarebbe stato impossibile, altri erano terrorizzati, altri mi hanno raccomandato di cercare consiglio da uno psichiatra”. Così scrive Srđan Puhalo nell’introduzione del suo “Selefije u BiH” (“Salafiti in Bosnia Erzegovina”, Proeduca, Banja Luka; 224 p.), indubbiamente uno degli studi recenti più innovativi nell’ambito dell’Islam balcanico.

Chi (non) sono, cosa (non) sono

Il nucleo della ricerca è composto dalle interviste a 126 salafiti su tutto il territorio bosniaco. È un lavoro pionieristico: molto raramente si è offerta “l’opportunità ai salafiti di dirci chi sono e cosa sono”. Soprattutto, è un lavoro in controtendenza con la visione mediatica tradizionale, che si limita ad associare le comunità salafite al radicalismo militante, al terrorismo internazionale e a interessi eterodiretti.

L’autore ha visitato, tra le altre, le località di Gornja Maoča, Ošve e Bočinja, comunità salafite più volte salite alla ribalta della cronaca regionale e internazionale per i presunti rapporti con l’ISIS. “Ma devo deludervi: non ho incontrato nessun terrorista”, scrive Puhalo, che sottolinea le profonde differenze riscontrate tra i salafiti incontrati per comportamenti, costumi ed esperienze di vita precedente, e sostiene che “nessuno di loro è stato costretto a diventare ciò che è stato”, smontando così l’immagine di una comunità omogenea, strutturata e militante.

Nell’introduzione, Puhalo si affretta a precisare che il libro “non è sul salafismo, ma sulle persone che vengono chiamate salafiti o wahabiti”. Il focus è infatti sulle percezioni reciproche tra i salafiti e i cittadini bosniaci, su come gli uni vedono gli altri, se stessi in relazione agli altri e viceversa. Oltre alle suddette interviste, la ricerca ha compreso un database di 1044 articoli pubblicati sulla stampa bosniaca e un sondaggio condotto con 1004 cittadini bosniaci. Tra la cittadinanza, domina la percezione che il salafismo sia una “pratica religiosa che proviene da fuori”, con giudizi negativi verso i praticanti - i più in voga: “non amano gli altri”, “litigiosi”, “freddi”, “ignoranti” - che causano sentimenti di “indifferenza”, “preoccupazione”, “paura” e “rabbia” verso di loro.

Considerazioni sugli aspetti dottrinali e politici restano volutamente fuori dal testo, ad eccezione del primo capitolo, scritto dal sociologo sarajevese Dino Abazović. Qui, tra le altre cose, si illustrano i due principali approcci terminologici al salafismo. Uno, più usato nella letteratura specializzata e dai salafiti stessi, li definisce una corrente purista, che predica il ritorno alle origini dell’Islam sunnita (talvolta si usa “wahabismo” come sinonimo, da molti considerato però improprio). Un altro, più usato nei media, considera invece il salafismo come una corrente politico-militare che persegue la difesa armata dei popoli musulmani nel mondo. Ed è da quest'ultimo che scaturiscono paure e stereotipi collettivi.

Capri espiatori

La tesi di fondo del libro è che in Bosnia Erzegovina esista un corto circuito tra salafiti, istituzioni, società e media. A questi ultimi Puhalo attribuisce le responsabilità principali. Il loro repertorio di sensazionalismo, stereotipi, notizie non verificate o infondate, viene scrupolosamente analizzato con statistiche ed esempi concreti.

Emergono topoi come il combattente dormiente, la metamorfosi improvvisa dell’aspetto (la barba, i pantaloni accorciati) e la grande disponibilità di denaro. Secondo la stampa, tutti questi aspetti sarebbero causati meccanicamente da cellule organizzate o stati stranieri.

L’allarme mediatico spinge le comunità salafite, già auto-isolate dalla società, a un’ulteriore diffidenza verso l’esterno. E genera, a sua volta, sfiducia e pressione verso le istituzioni, presentate come impotenti o persino infiltrate, e indotte a rispondere con azioni repressive che rischiano di rivelarsi prive di fondamento legale. Pur non dimenticando gli episodi di violenza islamista, Puhalo avverte sul rischio che i salafiti diventino “capri espiatori di tutto ciò che avviene in Bosnia Erzegovina”, che implicherebbe conseguenze gravi sullo stato di diritto e sull’inclusione sociale, e un pericolo per tutti i cittadini.

Abbiamo rivolto alcune domande all’autore Srđan Puhalo, psicologo di formazione e analista politico che collabora con diverse testate. Residente a Banja Luka, di origine serbo-bosniaca, Puhalo è noto nel paese per il suo attivismo sui social network con uno stile pungente e provocatorio, critico con le élite nazionaliste del paese e con l’esclusivismo conservatore e clericale. Il suo profilo tipicamente civico si è posto come obiettivo lo spogliarsi dai pregiudizi incontrando o ascoltando le vite di queste persone delle quali, scrive al termine dell’introduzione, “difenderò sempre il diritto di praticare l’Islam come vogliono, finché è una loro scelta personale e finché non limitano il mio diritto di credere in qualcos’altro, o in nulla. Se mai arrivasse quel momento, in me avranno il loro peggiore nemico. Questo l’ho detto anche a loro”.

Quali reazioni ha incontrato dopo la pubblicazione del libro?

Sono soddisfatto dell'attenzione ricevuta e penso che gli stessi salafiti non siano dispiaciuti del mio lavoro. La ricerca è diretta a tutti quelli che vogliono, con obiettività e senza grandi risvolti emotivi, sapere qualcosa sui salafiti. Penso che la ricerca abbia scioccato molti, non tanto per i risultati emersi, ma perché i salafiti vengono osservati per una sola particolarità: il loro modo di vivere l’Islam.

Alla presentazione del libro a Sarajevo erano presenti professori universitari, studenti, ambasciatori, funzionari delle organizzazioni internazionali, giornalisti, agenti della SIPA [le forze speciali di polizia, ndA] e salafiti. Questo è uno dei grandi successi di questo lavoro: riunire, in un luogo pubblico, un gruppo così variegato di persone che ti ascoltano attentamente e ti rivolgono domande razionali in modo pertinente.

La Comunità Islamica [organo religioso ufficiale dei musulmani bosniaci, ndA] è stata invitata, ma non sono sicuro che qualcuno di loro sia venuto. Nessun politico si è presentato. Mi sembra che l’interesse sia stato maggiore presso la comunità internazionale, piuttosto che presso i politici locali.

Banja Luka e la Republika Srpska mi hanno invece ignorato. Non so perché. È la prima ricerca di questo tipo nei Balcani, ma quasi nessuno è venuto alla presentazione. Sappiamo bene che sui salafiti si parla e si scrive tanto, da noi e nel mondo. Ma penso che le istituzioni della RS non abbiano avuto né il coraggio, né la voglia di affrontare i fatti che non corrispondono a quelli che vorebbero. Certo, può essere che i media, gli accademici o il pubblico non abbiano stima del mio lavoro o di me, come persona e ricercatore. Ma per loro sarebbe stata un’opportunità unica di dimostrarlo sul posto.

Il libro mostra il salafismo come scelta personale o familiare, non come una dimensione politica o militante. Conferma questa interpretazione?

Nella ricerca mi sono occupato dell’individuo, non del terrorismo, dell’ISIS o di quale interpretazione dell’Islam sia la più corretta. Inoltre ho accettato i salafiti così come sono, senza alcun desiderio di rieducarli o portarli sulla retta via.

Nelle conversazioni con loro, ho avuto l’impressione che il salafismo fosse una loro scelta. E questa deve essere rispettata, da me come ricercatore, ma anche dalla società in cui i salafiti vivono. Nei contatti con loro, ci si accorge che sono un gruppo abbastanza eterogeneo, con diverse storie di vita e ampie differenze reciproche.

La ricerca si basa su un campione selezionato, e forse alcuni dei salafiti in Bosnia Erzegovina non hanno voluto partecipare. Ma è importante sottolineare che tra gli intervistati c’erano sia frequentatori delle paradžemati [“moschee non ufficiali”, ndA], sia coloro che si riconoscono come membri della Comunità Islamica ufficiale. Mi sembra che la maggior parte di loro non abbia ricevuto benefici materiali per aver aderito al salafismo, ma solo problemi.

Il rapporto tra Comunità Islamica ufficiale, comunità salafite e “moschee non ufficiali” è un elemento importante nella percezione pubblica. La stampa ne evidenzia, di volta in volta, aspetti di cooperazione, cooptazione e contrasto. Uno dei dati più interessanti della vostra ricerca è che la grande maggioranza dei salafiti considera la Comunità ufficiale “propria” (90%) e ne è formalmente iscritto (67%). Che idea si è fatto di questa relazione?

Penso che questo rapporto sia particolarmente complicato e stratificato. Ci sono diverse correnti e linee di pensiero sui salafiti all’interno della Comunità islamica, e viceversa. Non ho trovato informazioni che possano portare a conclusioni significative a riguardo.

Uno dei risultati più degni di nota della ricerca è che i salafiti appaiono più soddisfatti della propria vita, sia in ambito emozionale, sia materiale (salute, assistenza sociale, etc.), rispetto ai cittadini bosniaci. Questa soddisfazione è uno stimolo ulteriore per l’adesione al salafismo?

Qui è importante sottolineare alcuni aspetti. Primo, si tratta di loro valutazioni soggettive. Secondo, queste non c’entrano con la ricchezza materiale. Terzo, i salafiti si trovano ai margini della società, presentati come potenziali terroristi e assassini. E nonostante tutto questo, sono contenti della propria vita. Quanta influenza nella loro felicità abbiano altri fattori come la religione, l’età e la loro vita precedente, è difficile dirlo e se ne occuperanno altre ricerche.

Per la ricerca sono stati intervistati sia uomini che donne salafite, queste ultime però in proporzione più ridotta, 27 su un totale di 126 intervistati. La partecipazione minore delle donne è condizionata dal loro ruolo sociale? Oppure, semplicemente, ci sono molte meno donne salafite che uomini salafiti? Oppure influiscono altri fattori?

Sono molto soddisfatto che un quinto degli intervistati siano state donne. Non sappiamo quanti siano i salafiti uomini e quante le donne, quindi è difficile dire se il campione è rappresentativo. Tenendo presente che è una delle rare ricerche sui salafiti, che loro nutrono una certa sfiducia verso ricercatori e giornalisti e che esiste un rapporto specifico della donna verso gli uomini al di fuori della famiglia, c’era da aspettarsi che avremmo avuto meno voci femminili. Alcune donne hanno rifiutato di partecipare al sondaggio nonostante i loro mariti, fratelli e genitori insistessero affinché riempissero il questionario. Loro hanno rifiutato, i mariti hanno rispettato questa scelta.

Una delle tesi fondanti del vostro lavoro è il “corto circuito” tra allarmismo dei media, autoisolamento dei salafiti e sfiducia verso le istituzioni. Il libro si concentra sulla responsabilità dei media. Qual è, a suo avviso, quella delle istituzioni?

È chiaro che i media devono parlare dei salafiti. Ma la loro copertura deve rispettare gli standard professionali, cosa che in Bosnia Erzegovina non avviene, come ho dimostrato nella mia ricerca. I media creano un’immagine in gran parte non veritiera. Questo alimenta la paura dei cittadini e la pressione sulle istituzioni ad agire in modo radicale, anche senza fondamento giuridico. Ma non si possono arrestare i salafiti a prescindere da questo, piaccia o no. Non si può vietare ai salafiti il diritto di riunirsi se non violano la legge. Non si può vietare alle persone il diritto di essere salafiti se è una loro scelta individuale.

Le istituzioni devono fare il loro lavoro, con professionalità e responsabilità. Ma questo vuol dire che chiunque violi la legge deve risponderne, che sia salafita o no. Obiettività, imparzialità e professionalità sono una garanzia di sicurezza per i cittadini, e anche per i salafiti. Naturalmente, ci si aspetta un comportamento responsabile dai salafiti, perché essi stessi dovrebbero essere i più motivati per difendere se stessi e gli altri da qualunque violenza e comportamento estremo.