La crisi di ottobre è stata il risveglio dall'illusione di camminare verso la normalità. Voci da una Sarajevo cosmopolita, che guarda con sconcerto e paura al clima nazionalista riemerso nel paese

20/02/2008 -  Mauro Cereghini

"Perché andate a Sarajevo? - ci chiede gentile eppure ferma una giovane salita sul nostro autobus a Zagabria - Io sono di Banja Luka, lì è molto meglio. A Sarajevo manca la vita". Già, perché andiamo a Sarajevo? Abbiamo dei compiti, certo, degli incontri da fare. Ma forse pesa l'immaginario che fa di Sarajevo il cuore della Bosnia Erzegovina. Se non la vedi non capisci i Balcani, dicono.

Sarajevo però è anche una città, col suo carattere urbano che la differenzia dal resto del paese. "Qui è ancora possibile vivere qualche amicizia libera dall'ossessione dell'identità - ci racconta Valentina, italiana con marito bosniaco e due bimbi bilingui - dove l'appartenenza non è un fattore discriminante". Figli della Jugoslavia laica e cosmopolita, matrimoni misti o semplici persone che non vogliono darsi un'etnia. Ma la crisi di ottobre è stata uno shock per tutti, ha aperto gli occhi sulla realtà di un paese fermo all'immediato dopoguerra. Il ritorno seppur breve alle parole di guerra, i supermercati mezzi vuoti, la paura di non capire cosa stesse succedendo hanno avuto l'effetto di una doccia gelata. "La crisi è stata un momento di rottura - continua Valentina - una sorta di risveglio dall'illusione di camminare verso la normalità. E la presa di coscienza che il paese è e resta etnicamente diviso, quasi mancasse la speranza di futuro".

In effetti fallimento e disillusione sono le sensazioni che respiriamo di più nei nostri incontri. Forte è la sorpresa per essersi accorti all'improvviso della situazione in cui si era immersi, e per aver realizzato quanto sia diffusa l'assuefazione. "Ormai sembra normale mandare i propri figli in scuole diverse - si indigna, ma solo un poco, Mirela - e un'intera generazione è cresciuta introiettando il virus della separazione. I giovani nemmeno immaginano un altro modello di vita, mentre la generazione di mezzo, che ha conosciuto la Bosnia prima delle guerre, è assente, si è ritirata dalla vita pubblica". Lost in transition, è stata definita con una punta di immancabile humour.

Così le istituzioni sono in mano a gente senza scrupoli né ideali. "I politici di questo paese stanno mostrando il peggio dal dopoguerra ad oggi - riflette un altro amico, anche lui matrimonio italo-bosniaco - Dodik e Silajdzic, primi ministri delle due entità, hanno capito che il radicalismo nazionalista li rafforza a vicenda. Perciò lo usano per coprire i propri interessi privati". Business e bandiere si muovono a braccetto, potremmo dire. "Ma la corruzione non è un fenomeno solo bosniaco - precisa lui - l'Italia lo conosce altrettanto...".

Fatto sta che le riforme indispensabili non avanzano, né si fa il nuovo censimento che darebbe un po' di certezza ai numeri e alla presenza sul territorio di ciascun gruppo nazionale. "Mostrerebbe che la guerra ha vinto - è il commento amaro di Valentina - e che la Bosnia Erzegovina è divisa lungo invisibili ma precise linee identitarie. Però almeno toglierebbe ai partiti nazionalisti un'arma per la loro propaganda etnica". E potremmo aggiungere che toglierebbe alla comunità internazionale l'alibi dei rientri avvenuti, perché la maggior parte si è indirizzata nelle zone di maggioranza etnica oppure è registrata solo sulla carta.

Ecco, la comunità internazionale è un altro tema che ricorre spesso nei nostri dialoghi. Il suo fallimento più che decennale, seppure giudicato con asprezze diverse. "Quando è arrivato Christian Schwarz-Schilling - ricorda Mirela - c'era la speranza che finalmente si muovesse qualcosa. Presentarsi come l'ultimo Alto Rappresentante è sembrato un fatto positivo, che seguiva le richieste di responsabilizzare di più i bosniaci fatte dagli stessi intellettuali locali. Ma è finito in un disastro". Oggi quella stessa scelta di ritiro graduale e di utilizzo limitato dei propri poteri gli è rinfacciata come una colpa. Probabilmente non del tutto a torto, visto che l'ha mantenuta anche davanti ai segni sempre più inequivocabili del rinfocolarsi nazionalista.

Con uguale scetticismo viene visto il suo sostituto, Miroslav Lajcak. "Abbaia ma non morde", commenta un altro dei nostri interlocutori. "Sta usando sì più energia, però ha difficoltà a farsi prendere sul serio. E poi l'Europa non vuole imbarcarsi in un ulteriore protettorato indefinito, quando sta per avviare quello già complesso in Kossovo". Meglio trattare con la leadership che c'è, per quanto indecente, e puntare ad un'integrazione rapida nell'Unione appena il paese raggiunga un minimo di presentabilità.

Discorsi cinici forse, ma ormai qui molti sono abituati a sentirne. Ritorna così il disincanto, o l'apatia. Si arrabbia Valentina: "Sembra di vivere tra cittadini in affitto. C'è un perenne senso di provvisorietà, di incertezza, di disimpegno. Spesso manca la curiosità, l'azione, anche il gesto provocatorio o ironico. Tutti pensano che non cambierà mai nulla". Una stabile precarietà, potremmo dire. Fatta di vite parallele, nelle scuole, nei negozi, nei quartieri etnicamente divisi. "I giovani di Lukavica non vengono a Sarajevo centro perché non la sentono loro città. Sono poche fermate di tram, ma preferiscono restare tra quelle vie, o magari spostarsi a Banja Luka o Belgrado". Ecco cosa ha prodotto la guerra. E cosa dodici anni di intervento internazionale non hanno saputo scalfire.

Torna alla mente la giovane incontrata sull'autobus. "Perché andate a Sarajevo?" Già, perché?