Un commento di Claudio Bazzocchi alla recente e rumorosa critica del centro di ricerca ESI sull'operato dell'Alto Rappresentante per la Bosnia- Erzegovina.
Nell'ambiente accademico e dei cosiddetti think-tank il dopo-Salonicco è stato caratterizzato dall'affondo del direttore e del segretario generale del centro di ricerca tedesco ESI - Gerald Knaus e Felix Martin - contro l'ufficio dell'Alto Rappresentante per la Bosnia-Erzegovina (OHR), mediante un articolo pubblicato il 7 luglio scorso sul Journal of Democracy, dal titolo Travails of the European Raj
Un governatore coloniale
L'attacco è di quelli diretti, senza giri di parole. L'istituzione internazionale, che sovrintende all'implementazione degli accordi di Dayton, viene definita alla stregua di "un potere imperiale sui propri possedimenti coloniali". Tale definizione viene suffragata da una serie di esempi, che dimostrano come il potere dell'Alto Rappresentante - attualmente l'inglese Lord Paddy Ashdown - sia praticamente assoluto, svincolato da qualsiasi tipo di controllo e al di sopra della sovranità politica della Bosnia-Erzegovina.
L'Alto Rappresentate può infatti rimuovere a proprio piacimento - senza fornire alcuna prova - qualsiasi funzionario pubblico, compresi i politici democraticamente eletti, in qualsiasi posizione essi si trovino. Per fare questo all'Ufficio dell'Alto Rappresentante basta il solo sospetto di disonestà o corruzione, o l'accusa non provata di intralciare l'applicazione degli accordi di Dayton.
Nell'articolo sono significative ed esemplificative di un modello di governo di tipo coloniale le citazioni dal discorso tenuto il 17 dicembre 2002 da Lord Ashdown alla Camera dei Rappresentanti a Sarajevo. Possiamo allora leggere che il problema per i deputati bosniaci non è se riformare, ma quanto velocemente, puntualmente farlo e, soprattutto, chi dirigerà il processo di riforma - voi o io? Io non ho il monopolio della consapevolezza di ciò che è giusto o sbagliato per questo paese. Ci sarà sempre spazio per i compromessi fra noi se il parlamento procederà con soluzioni concrete e fattibili che spingano in avanti il processo di riforma.
Inoltre Ashdown nello stesso intervento ammonisce i deputati bosniaci - nel loro parlamento, luogo principe dell'attività politica! - che la Bosnia-Erzegovina non ha bisogno di politica, ma di riforme, in particolare quelle economiche. Raccomanda infatti ai politici bosniaci di porsi le seguenti domande, piuttosto che pensare a riunirsi in partiti politici: "Cosa posso fare affinché la Bosnia-Erzegovina diventi un posto migliore per fare business?". Per Ashdown ci sono un milione di cose da fare e il non farle significherebbe solo ostruzione al processo di riforma o mancanza di volontà. In entrambi i casi - aggiunge Ashdown - OHR dovrà imporre le riforme anche rimuovendo quei politici che resisteranno ad esse: "Più voi riformerete e meno io dovrò farlo. Meno voi riformerete e più io dovrò farlo".
Knaus e Martin commentano queste affermazioni paragonando Lord Ashdown ad un vero e proprio governatore coloniale che, al pari dei funzionari della Compagnia delle Indie orientali e dei filosofi utilitaristi dell'Ottocento, sosterrebbe un quasi evangelico credo nel progresso imposto dall'alto:
Charles Trevelyan, che lavorò nel segretariato della Compagnia di Calcutta fu uno di tali credenti: "la sua mente è piena di schemi di miglioramento politico e morale. I suoi punti principali erano la navigazione a vapore, l'educazione dei nativi, la perequazione delle tasse sullo zucchero, la sostituzione dell'alfabeto arabo con quello latino nelle lingue orientali". Al posto dei punti precedenti mettete società civile, sviluppo della piccola e media impresa, rappresentanza per le minoranze, riforma dei curricula e diviene chiaro come molto tempo dopo i Trevelyan sono al lavoro in Bosnia anche oggi. A Sarajevo all'inizio del XXI secolo, come a Calcutta nel XIX secolo, gli stranieri recitano la parte dei despoti benevoli.
Non è solo lo stile del protettorato bosniaco che riflette l'imperialismo liberale del passato, anche i suoi filosofi offrono molte similitudini. Come membro del parlamento britannico dal 1863 al 1868 e come filosofo della politica, John Stuart Mill si batté per la limitazione del potere dello stato e stabilire il primato dell'auto-governo democratico. Ma in qualità di ispettore-capo della Compagnia delle Indie orientali, comunque, notava che certi popoli non sono in grado di sostenere la democrazia all'inizio, e potrebbero aver bisogno di un governo i cui fili vengono tirati dall'alto", per aiutare loro a raggiungere "un più alto grado di miglioramento", per il conseguimento dell'autogoverno. "La dominazione degli stranieri - aggiunge Mill - potrebbe essere migliore di tutte quelle dei più bravi politici nativi per togliere di mezzo gli ostacoli al miglioramento".
La citazione esprime al meglio la visione che la comunità internazionale ha degli interventi di ricostruzione e democratizzazione nei Balcani e non solo. Come altre volte abbiamo ricordato in questa sede, per le potenze occidentali gli stati nelle aree instabili del pianeta non vengono più considerati "sovrani", ma corpi sociali all'interno dei quali riformare mentalità e comportamenti per ottenere un ambiente stabile caratterizzato dai valori occidentali di democrazia, tolleranza e libero mercato. L'instabilità e la violenza non sono quindi visti dall'Occidente come il risultato di precisi progetti politici da parte degli attori sociali in campo, ma come l'effetto di valori inadeguati, crudeltà di pochi e riconosciuti dittatori, mentalità inadatte a vivere nel nuovo mondo post-guerra fredda.
Ci convince allora molto il richiamo all'epoca coloniale inglese da parte di Knaus e Martin. Vogliamo però sottolineare alcuni limiti nella loro analisi.
Ossimori e democrazia
I due, per definire questo nuovo colonialismo, parlano di imperialismo liberale. Prima di tutto vogliamo dire che gli ossimori non ci piacciono in politica, sono solamente un espediente ideologico per mascherare la realtà. L'imperialismo è imperialismo e niente altro. Non vogliamo però sollevare solo un problema ideologico. Nelle conclusioni del loro articolo Knaus e Martin, rifacendosi al famoso Machiavelli dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, ammettono la possibilità di stabilire uno stato di eccezione in cui il potere possa risiedere nelle mani di una sola persona per il bene della repubblica. Ciò che conta sarebbe quindi stabilire quali tipi di minacce possano giustificare lo stato di eccezione e costruire adeguati meccanismi di controllo che possano decretare la fine dello stato di eccezione. Così nella Bosnia-Erzegovina post-guerra uno stato di eccezione che dura otto anni - a fronte di una situazione diversa e molto migliore di quella del 1996 - configura il governo assoluto dell'Alto Rappresentante come ingiustificato e insostenibile. Inoltre, non vi sono in Bosnia-Erzegovina contrappesi costituzionali che possano limitare il potere dell'OHR, tanto che, per esempio, tutte le decisioni di dismissione dei pubblici funzionari - politici o tecnici - possono essere prese dall'Alto Rappresentante senza un regolare processo e sono inappellabili. In questi casi Tribunali, Corte Costituzionale e Parlamento sono a sovranità zero.
È ovvia la contraddizione - sottolineata anche in una lettera aperta successiva all'articolo in questione e indirizzata a Lord Ashdown a firma dello stesso Knaus e di Marcus Cox, senior editor di ESI - fra gli scopi di una missione che ha come obiettivo la democratizzazione della Bosnia-Erzegovina e il suo agire come potere assoluto:
Se l'Alto rappresentante può mettere da parte la costituzione e il processo democratico per far avanzare una particolare agenda politica, perché non dovrebbero farlo anche i politici bosniaci, qualora ne avessero la possibilità? Se l'Alto Rappresentante può essere allo stesso tempo accusatore e giudice dei pubblici funzionari, senza un giusto processo o il diritto di appello, allora perché i bosniaci dovrebbero credere nel sistema giudiziario?
Certamente gli studiosi dell'ESI sono molto convincenti nel loro argomentare ed hanno ragione quando lamentano che il potere dell'Alto Rappresentante è insostenibile.
Non siamo convinti però del ragionamento sullo stato d'eccezione, per il quale comunque poteri eccezionali come quelli dell'OHR sarebbero necessari e legittimi, seppure per un breve periodo, in casi come quello bosniaco. Riteniamo infatti che così come non esiste un imperialismo buono ed uno cattivo, così non può darsi uno stato d'eccezione antidemocratico per costruire una democrazia.
Insomma ci sono troppi ossimori nella politica internazionale dell'Occidente a partire da quello della "guerra umanitaria".
A nostro avviso il problema della Bosnia-Erzegovina e della sua ricostruzione ha la sua radice proprio all'inizio dell'intervento della comunità internazionale, quando anche secondo ESI sarebbe giustificato uno stato di eccezione antidemocratico. Vogliamo dire che non si può pensare che la ricostruzione democratica di uno stato possa avvenire con la sospensione - seppure temporanea - delle dinamiche politiche e democratiche. Il limite degli studiosi dell'ESI sta nel condividere l'assunto, tipico del sistema umanitario occidentale, che uno stato si ricostruisce, stabilizza e democratizza con la ricostruzione materiale, la costruzione di nuove istituzioni e con le riforme economiche imposte dall'alto.
In Bosnia-Erzegovina, proprio nel periodo iniziale della ricostruzione, a partire dal 1996, bisognava puntare al massimo sulle dinamiche democratiche con il coinvolgimento dei cittadini e delle cittadine del paese nelle scelte della ricostruzione materiale.
La ricostruzione di una città può infatti rappresentare l'occasione per progetti di urbanistica partecipata, così come ricostruire ospedali può significare coinvolgere la cittadinanza sulle scelte di politica sanitaria. La ricostruzione delle scuole può essere il modo per mobilitare gli studenti, gli insegnanti e gli intellettuali sulla politica scolastica e culturale del paese.
Allo stesso modo possiamo dire che anche le scelte di politica economica dovrebbero riguardare da subito la popolazione. Perché i cittadini bosniaci non hanno potuto decidere subito sui tempi e i modi del processo di privatizzazione, o sull'istituzione o meno del currency board e sulle conseguenti politiche deflazionistiche? Perché non hanno potuto decidere sulla privatizzazione o meno dei servizi sociali? Infine, siamo sicuri che un popolo che si trova la costituzione scritta da un manipolo di esperti di paesi stranieri abbia buone possibilità di costruire uno stato forte, caratterizzato da valori universali e condivisi?
La ripresa dei nazionalismi in Bosnia, ma potremmo dire la stessa cosa per tutta l'area - compresa la Croazia in cui l'HDZ si sta rafforzando giorno per giorno - pone in modo forte una questione irrisolta: su quali basi creare un'identità condivisa per uno stato giovane quale può essere la Bosnia-Erzegovina o altri dell'area balcanica? Le strade sono essenzialmente due: una fondata sull'identità etnica dei miti nazionalistici, l'altra basata su un progetto condiviso di società laica, in cui l'identità sia data dal processo di iniziative sociali e politiche per arrivare a tale società, e dai diritti sociali universali che la dovrebbero caratterizzare.
La prima strada, quella del nazionalismo, sarà sempre vincente se si opporrà ad essa la sterile e generica retorica dei diritti umani, del libero mercato e dello state-building che il sistema occidentale dell'aiuto umanitario ha proposto in questi anni per la ricostruzione del tessuto sociale e civile dei paesi balcanici.
Ci sembra che a suo tempo nessuno di quelli che oggi hanno scoperto che in Bosnia-Erzegovina c'è un potere coloniale assoluto si sia posto questi problemi (1) , perché comunque quasi tutti in Occidente - sia fra i think tank sia nel sistema umanitario - ritengono che i popoli che vivono nelle aree instabili del pianeta abbiano bisogno di essere riformati nei comportamenti e nei valori, tramite una serie di task tecnici, più o meno simili ad ogni latitudine: libero mercato, diritti umani, società civile e institution building.
Noi riteniamo invece che la violenza, l'instabilità e le guerre non siano il risultato di mentalità e valori inadeguati, ma progetti politici che, tramite le nuove guerre, creano nuovi assetti statali, sociali ed economici per vivere ai margini del mercato globale. Ha scritto bene Mark Duffield trasformando l'espressione "complex political emergency", che tutti gli attori del sistema dell'aiuto umanitario occidentale utilizzano per designare le nuove guerre, in "emerging political complexes", per significare sistemi politici complessi che si instaurano ai margini del capitalismo della globalizzazione e si stabilizzano come vere e proprie realtà politiche di lungo periodo al di là delle guerre:
I complessi politici emergenti sfruttano il potenziale e la flessibilità delle economie non-formali. Essi forniscono i nodi della legittimità della ridistribuzione e i diritti alla ricchezza in tali economie. In relazione alle nuove guerre sono questi complessi politici che hanno l'autorità e l'abilità di mobilitare le risorse legate alle reti dell'economia-ombra. Da questo punto di vista, mentre abitualmente si intersecano le istituzioni di stati riconosciuti, i complessi emergenti implicano progetti politici che ora si muovono oltre le forme tradizionali dell'autorità territoriale, burocratica o giuridica. La loro legittimità non deriva più dalla creazione e dal mantenimento della competenza dello stato-nazione entro confini definiti. Infatti molti cosiddetti stati deboli sono in grado di fare a meno completamente delle burocrazie degli stati-nazione convenzionali e abbandonare tutto il welfare pubblico ad agenzie esterne. Da questo punto di vista possiamo dire che essi hanno dissolto le distinzioni tradizionali fra popolazione civile, esercito e governo. Tali progetti politici, comunque, non sono né devianti, né irrazionali. Nella loro risposta alla globalizzazione e alle opportunità che essa ha creato, essi si sono integrati all'interno del sistema-mondo liberale con l'amplificazione e l'estensione delle relazioni usuali e delle strutture dell'attuale sviluppo.
Poiché le competenze dello stato-nazione sono declinate, il vuoto di welfare che si è venuto a creare è stato riempito principalmente dall'espansione di network transfrontalieri dell'economia-ombra. La globalizzazione ha causato un processo complesso, che coinvolge la destrutturazione del potere e dell'autorità degli stati-nazione. La crescente influenza di attori esterni è uno degli aspetti di questo processo. Allo stesso tempo la decentralizzazione è stata anche interna. Mediante una rafforzata abilità a creare collegamenti fra locale e globale, la liberalizzazione dei mercati ha accresciuto la facilità con la quale nuovi centri di autorità sono stati capaci di emergere (2).
Conclusioni
Allora il problema non è quello della durata dello stato di eccezione, ma di cominciare a capire che l'instabilità e la violenza non sono l'effetto di mentalità inadeguate, ma progetti politici che vanno contrastati con la politica e la partecipazione democratica. Sarebbe allora più opportuno ragionare sulle esperienze dei paesi europei occidentali nel secondo dopoguerra, con le loro lotte popolari, il protagonismo dei sindacati e dei partiti di massa e la costruzione di un sistema universale di garanzie e diritti sociali, piuttosto che dissertare su Machiavelli e Tito Livio.
Vedi anche:
Bosnia: l'Alto rappresentante, un viceré imperiale?
Note
(1) Vi è un documento molto chiaro di ESI del 2000 che incoraggia fortemente OHR a proseguire nella sua opera di state building, all'indomani dell'incontro annuale del Peace Implementation Council - l'organismo composto da 55 membri fra governi e agenzie internazionali da cui dipende l'Ufficio dell'Alto Rappresentante - tenutosi a Bruxelles il 23-24 maggio 2000.
(2) M. DUFFIELD, Global Governance and the New Wars, New York 2001, pagg. 163-164.