Venti anni fa, con l'inizio della fine della Jugoslavia, nasce in Italia uno straordinario movimento di solidarietà fatto di convogli umanitari, ospitalità ai profughi e relazioni che continuano ancora oggi. La testimonianza di uno dei protagonisti di quella stagione, segnata dalla strage dei volontari italiani a Gornj Vakuf il 29 maggio 1993, per il nostro dossier “Mi ricordo”
Sono a casa di amici, comodamente seduto, stiamo guardando la televisione, è l’agosto del 1992. Le immagini che vedo sono quelle del campo di concentramento di Omarska documentate da Ed Vulliamy, giornalista del Guardian, e dall'equipe televisiva dell'ITN.
Sono immagini tremende di uomini smagriti, di persone ammucchiate, di volti e di sguardi senza speranza, annichiliti dalla paura, provati dalla fame. Di mani aggrappate al filo spinato, di corpi consumati dalle torture.
Mi tornano alla mente le parole di Primo Levi, “voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case… considerate se questo è un uomo”. Sono le stesse immagini registrate dalle truppe sovietiche il 27 gennaio del ’45 ad Auschwitz, cambia il colore.
Non sono le prime immagini di una guerra che non sono riuscito a capire, di una guerra così vicina da non lasciarci indifferenti. A poche centinaia di chilometri da casa mia, di là del mare, da oltre un anno una bestia feroce divora corpi.
Davanti a quelle immagini, la discussione verte sulla necessità di un intervento armato da parte dell’ONU, “bisogna bombardare i serbi responsabili di queste atrocità”, tutti i miei amici concordano. Io dubito.
Davanti al dolore degli altri credo ci sia una sola cosa da fare: pensare.
Pensare, cercare di capire, eseguire uno spostamento cercando di percepire la guerra con i sensi, entrare nel conflitto, non semplicemente indignarsi ma avere il coraggio di mettersi in gioco. Tentare nuove strade, diverse da quelle potentemente nefaste delle armi contro le armi.
Della guerra non abbiamo visto ancora nulla
Finalmente siamo arrivati, in circa 500 persone siamo riusciti ad entrare a Sarajevo, è l’11 dicembre 1992. Il progetto "Solidarietà di pace a Sarajevo", promosso dall'associazione "Beati i costruttori di pace”, registra il suo momento più emozionante. Mi vedo mentre abbraccio una donna anziana a uno dei tristemente famosi crocevia di questa città. Deposita due borse di alimenti recuperati con grande fatica e mi abbraccia. Piangendo ci dice che a Sarajevo la guerra non risparmia nessuno, le hanno ucciso un nipote qualche giorno prima, non ha più la casa, i suoi vicini sono scappati, è sola, non pensava di dover vivere l’esperienza di un’altra guerra. Ci chiede aiuto e se ne va, ringraziandoci per essere lì, con lei, nel cuore del conflitto. Dalle colline di Sarajevo nessuno spara, camminiamo per le vie del centro abbracciando persone, abbiamo tutti gli occhi lucidi. Mi guardo intorno, sono in una delle più belle città d’Europa, di bello non vedo nulla, solo i volti dei suoi
cittadini meravigliati nel vedere che c’è una umanità che si interessa di loro; ci chiedono di non lasciarli soli. Poche ore di tregua poi il rumore della guerra prende il sopravvento. Stiamo uscendo da Sarajevo, siamo 13 pullman, all’aeroporto veniamo fermati per controlli. Spio dai finestrini e vedo soldati serbo-bosniaci che ci circondano. Un brivido mi percorre il corpo, in realtà della guerra non abbiamo visto ancora nulla!
Sterco di vacca
Sono alla guida di un furgone bianco, stiamo tornando da Zavidovići (BiH) è l’aprile del 1993. Con me sul mezzo ci sono Guido Puletti, giornalista italiano di origine argentina, Walter Saresini, del comitato bresciano di solidarietà, e una donna di Zavidovići malata di leucemia. Siamo partiti alle 5 del mattino, con noi c’era anche un giovane ragazzo bosniaco che tentava la diserzione. I soldati dell’Armija al check point di Zenica l’hanno fermato, arruolato sul posto. Desolati continuiamo il viaggio di ritorno, sulla strada che costeggia i laghi di Prozor-Rama. All’ennesimo check point accettiamo di dare un passaggio ad un uomo che parla italiano. Conversiamo svogliatamente, scopriamo che è un nazionalista croato, un ustascia, ci mostra la sua pistola senza la quale non potrebbe viaggiare sicuro. La presenza è inquietante, non ci piace, scendiamo verso Livno, la strada è affiancata da un piccolo torrente, una donna musulmana sta lavando i panni con le caviglie immerse nell’acqua. Il personaggio, a quel punto, indicando la donna, ci dice: “Vedete quella donna? E’ meno di uno sterco di vacca”. Non riusciamo a dire nulla, temiamo per la povera donna malata che è con noi, anch’essa musulmana. Lasciamo l’ustascia in un bar di Livno.
Sterco di vacca, per questo le donne sono state tra le vittime maggiori della guerra. Abbiamo incontrato nelle parole dell’ustascia la ragione del nazionalismo: vedere nell’altro non una persona, ma un “nulla” da annientare. Lo stupro di massa, il genocidio, armi maledette.
Sentirò la stessa espressione “sterco di vacca” qualche anno dopo da parte dell’europarlamentare della Lega Nord Borghezio, riferita agli immigrati.
Paesaggi
Colline punteggiate da piccoli villaggi, fitti boschi di prezioso legno, mille torrenti pescosi e copiosi di vitale acqua, una natura che ti accoglie offrendo il meglio.
Minareti, chiese ortodosse e cattoliche, sinagoghe testimoniano la presenza e la pratica multi religiosa diffusa che ha affascinato il turista, viaggiatore per le strade della Bosnia Erzegovina.
La guerra avanza inesorabile, raggiunge ogni luogo, città, villaggio, case sperdute nei boschi. Come una grande macchia nera trasforma ogni cosa, la incenerisce, ne toglie bellezza e vitalità.
Nulla rimane come prima, nell’aria solo odore di morte, odore di guerra. Nessun legame tra la terra e il cielo, tutti i ponti sono saltati, per sempre rivali, per sempre nemici dove la guerra spinge gli uomini.
Della natura ho timore ancora oggi, soprattutto quando è luna piena e le ombre degli alberi coprono la strada. Ho camminato di notte con le orecchie assordate dal rumore secco dei colpi assassini dell’AK 47, non mi hanno ferito, sono entrati nei corpi indifesi di Guido, Sergio e Fabio il 29 maggio del 1993 nei pressi di Gornj Vakuf.
La guerra in casa
All’oratorio di Rovato, in provincia di Brescia, siamo in tanti ad aspettare in un pomeriggio di settembre del 1994. Qualche giorno prima, il 21, era nato il mio secondo figlio Alessandro. Non ero pronto a questa nascita, fagocitato da un’attività di solidarietà frenetica tesa a dare ragione della mia salvezza e giustizia agli amici uccisi.
Finalmente arriva il pullman con le donne di Zavidovići che aspettavano da quel terribile 29 maggio di essere ospitate nelle nostre case. Ricordo i sorrisi, le lacrime, i festeggiamenti, i lunghi abbracci. Donne vedove di guerra, sole a riparare le ferite del lutto e ad accudire i figli che hanno capito ormai da tempo che la guerra non era un gioco rumoroso.
Altre famiglie, più fortunate, avevano deciso di aprire le porte della loro casa, di allargare la loro famiglia per dare spazio all’incontro, all’ascolto, alla narrazione diretta della tragedia che bussava alle porte.
A Brescia, a Cremona, ad Alba, ad Abbasanta in Sardegna, a Massa Carrara, in tanti altri paesi sono state dignitosamente accolte queste persone, profughe loro malgrado. Una Italia ospitale, per nulla intimorita da questo dovere di solidarietà tra uomini, ma fiera di poter rispondere come poteva a un disperato bisogno di salvezza da parte di uomini, donne e bambini vittime di un sanguinoso conflitto.
Dal basso veniva una spinta sincera, genuina che voleva risarcire gli errori che altri, potenti e arroganti, sadicamente e colpevolmente stavano compiendo, politici e diplomatici a rimbalzarsi responsabilità, attori e spettatori del massacro, fino alla fine, fino all’agosto del ’95, passando per Srebrenica.
Prima della pioggia
Mi vedo da lontano mentre scrivo tutto questo, piovono bombe che sono già cadute. Il tempo infinito che attendo prima che la bomba esploda vicino, lontano o dentro di me, azzera ogni senso alla mia vita, ogni ragione perché l’uomo si senta degno di questo mondo.