Esce oggi l'ultimo disco dei Dubioza Kolektiv, band di Sarajevo. Intervista con il bassista, Vedran Mujagić
Di cosa parla Happy Machine?
Il tema principale, che riassume tutti gli altri, è quello della libertà. Libertà di movimento, libertà di parola, libertà digitale. L'ispirazione viene dai diversi eventi che hanno attraversato gli ultimi due, tre anni. Le proteste di Gezi Park ad esempio, o l'arresto dei fondatori di Pirate Bay.
Perché Happy Machine?
È il soprannome della macchina che si usa nei Balcani per distillare la rakija, la grappa. Nei villaggi ce n'è una praticamente in ogni casa, ognuno produce il proprio brandy. Con l'ingresso nell'Unione Europea, in alcuni paesi questa prassi è diventata illegale. Tornando al tema della libertà, pensiamo che sia ridicolo criminalizzare tradizioni che hanno alle spalle centinaia di anni di esperienza.
La rakija è anche il soggetto di una vostra canzone con milioni di contatti su Youtube, No escape from Balkan . Perché non c'è scampo dai Balcani?
È una canzone sugli stereotipi, su come i Balcani e i balcanici vengono percepiti in altri paesi europei. Quando chiedi a chiunque in Italia cosa sappia dei Balcani ti risponderà la guerra, Goran Bregović e Emir Kusturica. Le immagini terribili dei telegiornali degli anni '90 si mescolano agli stereotipi cinematografici e a un'unica musica, trombe e ottoni. Abbiamo giocato con questi stereotipi per raccontare la situazione di una persona dei Balcani che vive all'estero, le difficoltà che deve affrontare per combattere le immagini stereotipate che lo riguardano.
Che riguardano anche voi?
Sì, di solito chi viene ai nostri concerti si stupisce molto, si aspettano l'ennesima band balcanica che suonerà degli standard con un gruppo di ottoni. Invece noi cerchiamo di mescolare diverse tradizioni, quella balcanica con il rock, l'elettronica e l'hip hop.
Avete sempre seguito con attenzione i movimenti politici e sociali in questo paese. Cos'è cambiato in Bosnia dopo le grandi proteste di due anni fa?
Se le cose sono cambiate, sono cambiate in peggio. Le ragioni per cui le persone hanno manifestato ci sono ancora tutte. È solo questione di tempo prima che le proteste riprendano, e riprenderanno dove si sono interrotte quelle precedenti. Le élite politiche che guidano questo paese non hanno fatto nulla, se non acquistare armi e equipaggiamenti più sofisticati per le forze di polizia, sono segnali davvero negativi.
Perché nessuna forza politica è stata in grado di raccogliere l'eredità del movimento dei Plenum?
Il vero problema è che qui non c'è nessuna opposizione. Proprio per questo ci sono stati i Plenum. I partiti che in teoria dovrebbero essere i più vicini ai movimenti non hanno reagito, due anni fa, hanno solo osservato il processo senza un vero coinvolgimento. Nessuno del resto pensava che i Plenum avrebbero potuto risolvere la situazione in Bosnia. Molti però volevano sperimentare la democrazia diretta, e alcuni documenti prodotti dai Plenum sono davvero importanti, ad esempio quello sulla cultura. È stato scritto da un gruppo di film makers, attori, scrittori, registi teatrali. È una strategia per la promozione e lo sviluppo della cultura in questo Paese che qualsiasi ministro potrebbe adottare, già pronta. Ma non ha trovato alcuna risposta.
Nella Bosnia di Dayton c'è spazio per partiti politici che non abbiano riferimenti etnici?
Gli Accordi di Pace di Dayton bloccano un processo di questo tipo. Sono stati previsti come soluzione temporanea, per fermare la guerra. Poi però la comunità internazionale ha perso interesse nella Bosnia Erzegovina, e infine è cambiata la situazione politica in Europa, è cambiata la posizione della Russia. Ora è tutto è bloccato. Il problema è che Dayton non può essere cambiato dall'interno, l'impulso deve venire dall'esterno.
Continui ad aver fiducia nel ruolo dei movimenti politici e sociali in Bosnia Erzegovina?
È l'unica forza positiva. Sono movimenti giovani, così come lo è la democrazia in questo paese, che è iniziata nella maniera peggiore possibile. Dopo le elezioni multipartitiche del 1990 c'è stata la guerra, e questo trauma ha modellato il dopoguerra. Siamo ancora in un percorso di apprendimento. I movimenti crescono lentamente. Molti di quelli che hanno preso parte ai movimenti hanno poi scelto di lavorare nelle organizzazioni non governative. È una posizione comoda, perché ci sono finanziamenti internazionali che permettono a queste organizzazioni di lavorare, danno la sensazione di fare qualcosa, ma alla fine i risultati sono minimi. Solo i movimenti di base hanno la possibilità di riempire il vuoto della politica, di produrre un cambiamento.
Sarajevo era un tempo considerata uno dei principali centri di produzione culturale in tutto lo spazio jugoslavo. Qual è la situazione oggi?
La visione di Sarajevo come centro culturale per tutta l'area jugoslava è molto romantica, non del tutto realistica. In realtà Sarajevo ha acquisito importanza soprattutto negli anni '80. Belgrado e Zagabria hanno sempre avuto una forza particolare, maggiori possibilità per gli artisti anche a livello economico. Oggi, la scena culturale di Sarajevo condivide gli stessi problemi che ha il resto della società. Le istituzioni sono del tutto incapaci, per non dire contrarie a sostenere la produzione creativa. Non abbiamo un ministero per la Cultura a livello statale, ma solo a livello locale, con pochi fondi e scarsa volontà di investire. Tutte le produzioni recenti che il pubblico europeo conosce e riconduce alla Bosnia sono in realtà il risultato del lavoro e dell'entusiasmo di singoli artisti, come Jasmila Žbanić o Danis Tanović, sostenuti da finanziamenti stranieri. Anche i Dubioza, che in un certo senso possono essere considerati come un successo della Bosnia, sono in realtà il prodotto dell'iniziativa di un gruppo di persone particolarmente testarde che hanno lavorato per una decina d'anni prima di riuscire a farsi conoscere da un pubblico europeo. Per avere una scena culturale davvero forte, dovrebbe avvenire un cambiamento nella società.
Adesso nel gruppo ci sono musicisti che vengono da diversi paesi dell'ex Jugoslavia, inclusi Serbia e Slovenia. Non siete più una band solo bosniaca?
Ci fa veramente piacere il fatto che la gente ci percepisca come una band della regione, non solo bosniaca. Per noi questo è motivo di orgoglio. Ci sentiamo a casa nostra non solo a Sarajevo, ma anche a Zagabria, a Belgrado, a Lubiana. Le nostre storie e le nostre canzoni non parlano solo a un pubblico bosniaco. Mentre la destra, nei vari paesi della regione, fa di tutto per separarci, in realtà esiste ancora uno spazio culturale comune. C'è un'abitudine che non è facile distruggere, la gente ascolta le band dei diversi paesi come ha sempre fatto, band che cantano con una lingua che, più o meno, è la stessa, band che vengono sentite come proprie, non come straniere.
In questo ultimo disco avete collaborato con musicisti di fama internazionale, come siete entrati in contatto con loro?
È successo tutto in maniera molto spontanea. Manu Chao l'abbiamo conosciuto qui a Sarajevo dodici anni fa, poi l'abbiamo incrociato tante volte in tour, le cose sono venute da sé. Lo stesso è successo con Roy Paci o con La Pegatina, ci siamo incontrati e nel tempo sono nate le canzoni. Incontri spontanei, e credo che questa spontaneità sia uno degli elementi di forza di questo album.