Edo Numankadić

Edo Numankadić

“Alhemija 1970-2010". Questo il titolo della grande esposizione personale di Edo Numankadić chiusa a metà giugno a Sarajevo. Una dichiarazione di autonomia dell’arte: 370 opere tra tele, carte e installazioni, 40 anni di attività in mostra. I racconti di una vita in questa intervista con l'artista sarajevese. Riceviamo e volentieri pubblichiamo

22/07/2010 -  Piero Del Giudice

Edo Numankadić è sempre stato un pittore non-figurativo. Le sue prime presenze nelle esposizioni nazionali - fine anni Settanta, primi anni Ottanta – (esisteva allora la Jugoslavia) segnalano all’Europa un giovane artista di grande talento: neoinformale e neonaturalista. La sua tela, sin dagli esordi, appartiene all’area del neoespressionismo astratto e la figurazione, quando emerge, è molto compromessa, molto impastata dalla materia. Questo pittore esalta oggi, generosamente, l’influenza nella sua formazione di alcuni “piccoli maestri” sarajevesi - Behaudin Selmanović, Mica Todorović, Afan Ramić, Boro Aleksić, Ljekar Franjo - la prima generazione modernista in Bosnia Erzegovina.

Ma è molto chiara, sin dall’inizio, la sua adesione alle correnti di pittura nordoccidentali, europee ed americane. Adesione che si consolida in modo decisivo con il viaggio a Parigi del 1971.

Fu quello il luogo del passaggio, il valico, dell’imprinting artistico, della intuizione felice e della consapevolezza. Il destino gliene ha riservato un altro, altrettanto decisivo, ma di opposta infelicità: l’esperienza dell’assedio di Sarajevo, vissuta con gli artisti della sua generazione e i sarajevesi rimasti nella città chiusa dai nazionalisti serbi (aprile 1992-febbraio 1996). Nelle opere esposte alla Medresa e alla Hanikah le ferite di quegli anni sono chiare e irredimibili.

Furono gli anni della resistenza, della verifica di sé e della coerenza. Così parlava il pittore nel 1995, nel tempo della “blokada”: «Il mio studio è stato bombardato. La mia casa è stata attraversata dalla granata di un carro armato. A Sarajevo vivevamo prima in un mondo molto felice... in questo senso la delusione è terribile. Ma è molto importante che io non abbia fatto male a nessuno e che io non sia qualcuno che sta dando la caccia a un altro, braccandolo o sparandogli. E’ molto importante che io stia dalla parte delle vittime e che io condivida il destino dei miei concittadini assediati da tre anni.»

Numankadić lavora per grandi cicli. Memorabile quello delle Tracce o Tracce di guerra, negli anni dell’assedio di Sarajevo. Acquarelli su carta, con fondali di proverbiale bellezza pittorica – la sua pittura è di alta qualità, esteticamente felice – dove fluttuavano e si ancoravano tracce, segni, ideogrammi, alfabeti iniziatici, mantra. Tracce umane nel deserto di relazioni della guerra, segni dell’esistenza, comunicazioni contro l’orrore e l’immiserimento della città assediata. Poi ancora, sino ad oggi, il tema delle Tracce. Soprassalti della memoria, oggetti che sollecitano relazioni, ricordi, frammenti di un tempo dissolto, di un’età perduta della innocenza. Ci sono altri cicli come quello sui bohumili (i “cari a dio”), il movimento eretico medievalista che mise radici in Bosnia e ne caratterizzò l’aristocrazia e gli strati sociali bassi, prima dell’incontro con l’Islam. Un ciclo sulle proprie origini culturali e la propria eresia: grandi tele bituminose, molto materiche, con figure ancestrali, immagini dei remoti lari.

Tavola imbandita di guerra

Tavola imbandita di guerra

Negli anni dell’assedio e della fine della Jugoslavia Numankadić opera uno scarto doloroso rispetto alle proprie modalità espressive. Da pittore con grande capacità di movimento sulla tela e sapiente nell’uso delle materie cromatiche (giusto allora il titolo Alhemija), con la sua celebre installazione Tavola di guerra, sembra dichiarare la fine della pittura, la morte dell’arte e la messa in scena delle nude cose. Il desco piccolo e di legno con la fiasca dell’acqua, la lampada a petrolio, il tozzo del pane duro e avaro - il “pane di guerra” che il governo passa nell’assedio - la tavolozza del pittore sullo sfondo. Il pasto nudo della città assediata, le nude cose ostinate della resistenza della città multiculturale.

Da quella tavola imbandita di indigenza vengono le “scatole” della memoria, i raccoglitori di frammenti del passato e di una quotidianità scomparsa. Scrigni che assemblano oggetti sparsi e dimenticati (nelle soffitte, nelle cantine, nei vecchi armadi) e sigillano quelle emersioni della memoria con frasi, motti, sentenze di saggezza della umanità - estrapolazioni dal pensiero e dagli scritti di saggi, scrittori, filosofi, testimoni della specie. Bricolages a forte carica evocativa, combinazioni di oggetti che creano un campo magnetico di relazioni: fotografie, strumentazioni quotidiane, coltelli, seghetti, termometri, strumenti di misura, lenti, un vecchio passaporto attraversato da una scheggia di granata e materie come sabbie, strati di nocciole, mandorle, un obice vicino a dei gigli, tubetti di colore spremuti, fondali di una memoria dove affondare i sensi.

Tutto ha senso, niente si astrae, niente è casuale: si tratta di casse, scrigni della memoria, specchi dell’esistenza, oggetti ansiosi della nostra sfera sensoriale, sentimentale o intellettuale, materie, strati del nostro passato, madaleines che percuotono e fanno sussultare il nostro ricordo.

Su tutto, sulla vanità delle cose del mondo, presiedono le sentenze di saggezza, le ammonizioni scritte sui coperchi di vetro: “lo spirito è la cosa che non si distrugge” (Bergson), “Non mi occupo di successi, solo dei fallimenti” (Becket), “Il tempo è verità” (Ibn Arabi) e così via.

Carte dipinte e scatole

Carte dipinte e scatole

Dopo le scatole e insieme alle scatole, le scritture. Tele, carte, ricche di pigmento, o in bassorilievo con colori acrilici, attraversate da segni parole non decifrabili, da comunicazioni sullo spazio del quadro. “Segni astratti” dice Numankadić, non frasi compiute: tracce sulla lavagna del quadro, segni che il braccio traccia sulla tela per costruire e affermare una grammatica interiore espressa in cifra, dunque intima, sommessa, (segreta?).

Di fronte a questi quadri emerge la tradizione della pittura ornamentale araba che è afigurativa (solo dio può creare l’immagine e all’uomo – all’artista – non resta che l'elaborazione grafica di versetti in lode a dio). Quella tradizione conta. Numankadić riceve cultura musulmana da una città che ne è imbevuta, ma lui è un laico coerente, non devoto a nessuna chiesa e a nessuna comunità etnica. Cosa sono allora queste scritture? Questi segni di una narrazione, di una predicazione?

Sono l’espansione grafica di quei memento, di quelle citazioni, di quei grumi di saggezza scritta, che segnano - come tatuaggi in corpore vivo - la serie dei contenitori, le scatole, gli scrigni, i piccoli bauli della memoria, messi sulla scena artistica negli ultimi anni. Gigantesca, ripetuta grammatica dello spirito e della coscienza, predicazione a difesa della propria integrità e della pluralità culturale della sua città (“quella Sarajevo felice”), muri con scritte di saggezza che si contrappongono agli orrori, ai reperti, alle memorie, alle tracce, della città distrutta, della Jugoslavia mandata in pezzi, del paradiso perduto della esperienza ugualitaria.

Quando ha cominciato i quadri di scrittura?

Quando è cominciata la guerra ho cominciato a rileggere Kafka, a leggere i filosofi greci antichi, Musil, Benjamin, tutti quelli che avevano sperimentato a fondo la vita e gli aspetti tragici dell'esistenza. Ho cominciato a trascrivere qualche frase che mi colpiva e coincideva con il mio stato d’animo.

Per esempio, mia madre stava morendo nel 1996 e leggo la frase di Eraclito - “Quello che da svegli vediamo è la morte, quello che vediamo nel sogno è la vita” - che mi spiega ciò che vedo in quel momento. Oppure, di fronte all’orrore, adotto l’affermazione di Walter Benjamin - “il significato delle cose lo comprendiamo nella misura in cui è presente la morte e la dissoluzione”. Frasi in cui mi identificavo.

Capivo bene ciò che il “tocco” della morte provoca. Emerge una paura atavica ma riesci a vedere più a fondo le cose di quanto normalmente si può. E’ stato un fenomeno terribile per tutta la durata della guerra, guardare una persona negli occhi e nella sua paura, nel suo sguardo, in un unico sguardo, riuscire a vedere tutta la vita.

Leggo una frase di Danilo Kiš “quello che non è scritto si distrugge” e allora comincio a raccogliere queste frasi su pezzetti di carta. La guerra finisce e quelle frasi rimangono la mia esperienza più forte; mi hanno aiutato a salvaguardare la mia morale intellettuale ed estetica, la mia integrità. Mi sono detto “comprerò tanta carta e comincerò a scrivere quelle frasi”. Nel Trattato sulla pittura di Leonardo da Vinci c’è: “Se vuoi sviluppare la tua immaginazione, guarda i vecchi muri”.

Era davvero importante che ci fossero nella città assediata persone che scrivevano, artisti operavano...

Per me la cosa ancora più importante è stata quando è arrivata la professoressa Raza Lagumdžija e mi ha detto: “Edo dovrai essere tu il presidente dell’associazione umanitaria I nostri figli. Andrai a lavorare con i bambini negli ospedali, nelle scuole, organizzerai mostre, concerti”.

I bambini erano la parte della popolazione più in pericolo e sono più orgoglioso di avere fatte alcune di queste cose concrete che i quadri. Vale molto esserci seduti con i bambini, avergli dato una tavoletta di cioccolata, avere disegnato con loro...

Quando rompe con la pittura?

Il tavolo, la mensa dell’assedio, è stato il primo lavoro con gli oggetti. E’ dell’ottobre-novembre 1992. Eravamo da me in cucina e dico “Ecco, questo tavolo”, il tavolo dove tutte le piccole cose della mia vita durante la guerra e sullo sfondo anche il cavalletto con le cose che facevo.

Da una parte la carta o la tela e dall’altra le installazioni...

C’è una terza componente, le foto. Volevo prendere nota delle cose che mi colpivano. Tutti facevano fotografie degli orrori, delle distruzioni – quello era il tempo – ma di fronte alle mie fotografie un amico ha detto “guarda la bellezza della distruzione”.

Mi alzavo alle sei di mattina prima che cominciassero a sparare, partivo da Grbavica sino al centro città con la macchina fotografica e registravo quello che mi attraeva e commuoveva. Piccole cose, dettagli, ciò che la maggior parte della gente non notava in quel drammatico caos generale - il biciclo di un bambino abbandonato, un palo della luce con i buchi, una porta di calcio tracciata dai ragazzi su un muro e centrata in pieno da una granata - ricordi preziosi, ricordi di una testimonianza e di una scelta.

Stavo a Grbavica vicino allo stadio, passavo da Čengić Vila, ero in prima linea ogni giorno. Durante la guerra nel dicembre del 1992, ho scritto la frase “Qui la vita è arte. L’arte qui è la vita”. La realtà, in determinati momenti, è più affascinante di una qualsiasi immaginazione o creatività.

Torniamo ai bricolages delle scatole. Sono memoria anche degli anni della guerra...

Scatola con la foto di Edo, Dunja e Kusturica

Scatola con la foto di Edo, Dunja e Kusturica

La creatività qui è anche gioco, humour, ironia. Riesci a mediare sulla tragedia, a “rilassare” questa tragedia, a tradurla in una quotidianità. In questi bricolages si arriva poi a un punto di incomprensione. Vado avanti alla cieca, assemblo cose senza capire bene. E’ un processo molto intuitivo, ciò che conta è l’emozione contenuta in queste cose. Io sono solo un medium tra gli oggetti e il pubblico.

Da una parte c’è il quadro, una esperienza visiva, ma muta. Dall’altra l’oggetto che parla, che è testimone della realtà. E’ una combinazione che funziona. Vado al mercato delle pulci, ci sono mille cose, c’è di tutto - dalle automobili ai giocattoli, ai resti di bambole -, vado a cercare quello che si lega con la mia esperienza. Scelgo cosa e perché non lo so, non è una scelta logica.

Parliamo dei Numankadić di Sarajevo. E’ possibile?

Sono nato a Sarajevo nel 1948. La famiglia di mia madre, i Kasumagići, vive a Sarajevo da più di trecento anni. Una famiglia musulmana molto tradizionale, molto conservatrice e molto normale. La famiglia di mio padre è della regione Donji Vakuf-Bugojno. Una famiglia di cultura molto più liberal.

La madre patriarcale, il padre liberale. C’è sempre stata questa divisione e contrapposizione. Sceglievo sempre la parte liberal. Mio padre – che era rappresentante della Philips per la Bosnia Erzegovina - voleva che io diventassi un ingegnere elettrotecnico. E’ riuscito a farmi avere una borsa di studio e per due anni sono stato alla facoltà di ingegneria elettrotecnica. Tutta la famiglia vedeva che ero lì a dipingere mentre frequentavo la facoltà.

Sua sorella Dunja – che vive in Italia - racconta del suo rapporto particolare con il nonno paterno. A lui poi si devono le risorse che hanno permesso il famoso viaggio a Parigi del 1971. Parliamo del nonno?

1974 Pocitelj - Edo (da sin.) Numankadić, Zuko Džumhur, Ivo Andrić

1974 Pocitelj - Edo (da sin.) Numankadić, Zuko Džumhur, Ivo Andrić

Hakija Numankadić, nonno meraviglioso, straordinario. Voglio ricordare solo un episodio tra i tanti che la dice lunga sul suo atteggiamento ironico e divertito verso la vita. Era uomo pio sì, andava alla moschea il venerdì, ma qualche volta non ci andava. Allora noi subito a chiedergli: “Nonno, ma perché non sei andato alla moschea?” e lui “Ragazzo devi sapere che ad insistere anche Dio si annoia”.

Questo nonno mi adorava. Ero per lui il migliore di tutto e di tutti, il più bravo. I primi libri, i primi dischi, le prime uscite per andare a teatro, ai concerti, le debbo a lui. Lui mi dava i soldi. Dei Numankadić ero l’unico piccolo maschio, in famiglia eravamo solo Dunja ed io. Probabilmente questo è il motivo, ero l’unico erede, godevo di questo privilegio.

Nel 1952 ha comperato la villa Fisher, una architettura austroungarica e lì abbiamo abitato. Nel 1968 non riusciva più a tenerla, era fatiscente, costava molto la manutenzione, allora l’ha venduta e tutti abbiamo avuto gli appartamenti a Hrasno. Nella occasione rivolto a me dice: “Adesso ho i soldi perché ho venduto la villa, tu cosa desideri?” gli rispondo “Voglio andare a Parigi” e lui “Ecco vai, questi sono i soldi”. A Dunja non dà un soldo.

Per dire il tipo, il giorno dopo gli chiedo una moneta per fare una telefonata dalla cabina alla mia ragazza e lui “Non è che tutti i giorni mi scopino i Rockfeller!”. Ah dedo Hakija! Che personaggio! Il giorno prima mi dà un mare di soldi per Parigi e il giorno dopo mi nega un dinaro per telefonare.

Una volta lo hanno ricoverato all’ospedale Koševo per operarsi alla cataratta. Tutti i dottori del reparto di oftalmologia, tutti gli infermieri quando è stato dimesso lo hanno accompagnato all’uscita. Gli hanno fatto una specie di festa di addio. Era una persona che tutti adoravano.

Lei è primo cugino del regista Emir Kusturica. Per quali legami familiari?

La madre di Emir, Senka, è una Numankadić, sorella di mio padre, figlia di Hakija. Sposa un Kusturica. Un grande personaggio la zia Senka. Meriterebbe un capitolo a parte.

Perché la famiglia del padre si sposta a Sarajevo?

Mio nonno Hakija, viveva a Bugojno ed era il presidente della provincia. Nella Prima guerra mondiale era stato in Galizia nell’esercito austro-ungarico e aveva dei comportamenti che forse venivano da quella formazione. Per esempio era sempre puntualissimo, non è mai arrivato in ritardo, e questo ci impressionava.

appunti

Appunti, olio su tela

Erano gli anni della Seconda guerra mondiale, un giorno gli vengono a dire che gli ustaša lo vogliono uccidere come musulmano e impiegato statale. Lui scappa con la famiglia a Sarajevo. Prende quello che può e scappa. A Sarajevo suo figlio Akif, mio futuro padre, conosce la mia futura madre Habiba Kasumagići. Si sposano nel 1946, nel ’48 nasco io.

Dopo qualche anno mio padre ha un grave incidente con l’auto, il matrimonio non dura e i genitori a un certo punto si dividono. Mia madre è ammalata di cuore, tutti i beni dei Kasumagići nel frattempo erano stati nazionalizzati, lei rimasta sola, senza mezzi e senza marito.

E’ il nonno Hakija che viene in soccorso. Prende in casa la nuora con i figli. La gente non capisce e dice “Tuo figlio divorzia e tu la prendi in casa?”. Una situazione drammatica, di serie difficoltà. Poi Habiba – che era una donna di proverbiale bellezza - riesce a frequentare l’accademia per insegnanti e insegnerà tedesco per anni.

Senka, mia zia, la sorella di mio padre e madre di Emir, è quella che mi ha fatto studiare, mi ha portato dal dentista, mi ha dato sberle quando le meritavo.

Tutto questo va bene, ma non ha ancora detto perché lei si mette a dipingere?

Volevo fare il calciatore, mi ero iscritto a una associazione sportiva che si chiamava “Bosna”. Se ti volevi esprimere individualmente, le chance degli anni Sessanta erano: sportivo o artista. Due possibili strade. Dunque mi prendono in questa associazione, vado dal nonno tutto felice e dico “Ah, nonno, mi hanno preso. Gioco in squadra!” e il nonno “Vuoi prenderti un malanno giocando? Vuoi farti male?” prende una scopa e si mette a picchiarmi: “Non andrai a giocare!”. Così non rimaneva che l’arte.

Il suo primo maestro?

Behaudin Selmanović. All’accademia di Zagabria era studente di Tartaglia, ai tempi di Mestrović. Ho visto una personale di Selmanović nel ’69 e per me era un miracolo. C’era qualcosa di Matisse nel colore e nella stilizzazione della forma, e si richiamava un po’ anche alla miniatura persiana. Ho cercato di conoscerlo.

Suo fratello e mio nonno erano amici e allora mio nonno gli dice “Il mio ragazzo lì, insomma fa dei disegni, vorrebbe parlarti un po’”. Posso allora andare a casa sua. Selmanović era una persona un po’ strana, non si è mai sposato, era di una grande famiglia del Sangiaccato, nobili discendenti da Smail-aga Čengić, molto fieri, orgogliosi. Non lasciava entrare nessuno nel suo atelier e se qualcuno entrava lui girava i quadri.

Avevo 22 anni e lui mi riceve “Vieni, siedi, prendi il caffè”. Poi comincia a girare i quadri, a farmeli vedere, a discutere addirittura con me. Era un grande privilegio e ero l’unico ad averlo. Nikola Kovač – il critico letterario e d’arte - doveva scrivere un saggio su Selmanović e quello non voleva riceverlo, non voleva parlarci! Tutti venivano da me a chiedere di farmi intermediario, anche Kovač.

Ne parlo a Selmanović e lui lo riceve, gli dice “si sieda” e poi non gli parla più, gli fa vedere i quadri ma senza parlare. Comunque Kovač finisce per scrivere un bellissimo saggio. Poco dopo, nel 1972 Selmanović muore, ma il rapporto con lui è stato decisivo.

Ma lei guarda già alla pittura americana e nord europea. Ed è determinante il viaggio a Parigi, no?

Numankadić

Numankadić - A.Leibovitz

Sono arrivato a Parigi, nel maggio del '71, con un volo da Dubrovnik. Non sapevo una parola di francese. Non avevo un indirizzo dove andare. Sono sceso dall’autobus, ho comperato una carta della città, ho cercato la stanza meno costosa - un sottotetto al quinto piano dove si moriva di caldo - ho comperato un litro di latte, una baguette e mi sono messo a girare tutte le gallerie di Parigi.

Assorbivo ogni cosa come una spugna. E lì ho visto per la prima volta i quadri di Rotcho, il pittore a cui debbo di più. Lì davanti alle sue tele mi dicevo “Cosa è questo? Cosa è? Sarà ben qualcosa”. Con la logica non riuscivo ad accettarlo, ma era uno choc visivo. Lo stessa cosa davanti al quadro La casa dell’impiccato di Cézanne. Il colore a fianco del colore, senza sfumature, senza modulazioni, a struttura, come nella letteratura la parola a fianco della parola.

Mi ha sempre interessato ciò che è muto nel quadro, l’essenza della materia. E a Parigi ho visto finalmente dal vivo Pollock, de Kooning, Tapies, artisti che già conoscevo nelle riproduzioni. Ma è Rotcho il mio punto di riferimento.