Salvò migliaia di bambini dai campi del regime ustascia ma il suo nome rimase ai margini della memoria della Jugoslavia socialista per una biografia "non adeguata". La storia di Diana Obexer Budisavljević
Le gesta di Diana Obexer Budisavljević sono forse paragonabili a ciò che fece il ben più noto Oskar Schindler, ed è difficile spiegare come un atto di umanità di questa portata sia stato nascosto all’opinione pubblica per quasi 60 anni.
Per uno come me, cresciuto ed istruito nel sistema scolastico socialista, molto attento a tenere viva la memoria degli atti di coraggio antifascista, il nome, le origini e l’opera di questa donna fino a pochi anni fa erano completamente sconosciuti.
Oggi appare chiaro perché, sulla sua identità e sulla straordinaria azione da lei intrapresa, per lunghissimi anni non si sia saputo nulla.
Diana Obexer nacque a Innsbruck, in Austria, il 15 gennaio del 1891. Si trasferì a Zagabria nel 1919, sposata con un chirurgo dal quale acquisì il cognome, Budisavljević. Di lui sappiamo che fu un medico apprezzato e appartenente alla comunità religiosa ortodossa, fatto che non gli impedì di dichiararsi croato e di passare miracolosamente illeso attraverso gli anni del cosiddetto “Stato indipendente Croato” governato dagli ustascia collaborazionisti di fascismo e nazismo.
Nel periodo buio, i primi anni quaranta del secolo scorso, Diana Budisavljević scoprì molto presto l’agghiacciante verità dei campi di concentramento non molto distanti dalla capitale croata. Le sofferenze delle donne serbe, rom ed ebree insieme ai loro figli nella vicina Lobograd, uno dei campi di detenzione, furono il suo primo contatto con l’inferno messo in atto a pochi passi da lei, e segnarono ufficialmente l’inizio dell’"Azione di Diana Budisavljević", come lei stessa la ribattezzò.
Durante questa azione - inizialmente pensata come fornitura di prodotti di prima necessità alle donne e ai minorenni detenuti nei diversi campi di concentramento, con l’aiuto del Comune Ebraico di Zagabria - furono salvati 12.000 bambini.
Provenienti per lo più dal monte Kozara in Bosnia Erzegovina e da Kordun, zona montuosa della Croazia, questi bambini, per i quali la morte sarebbe altrimenti stata l’unica speranza di veder concluse le proprie sofferenze, furono salvati proprio grazie alla decisione di Diana Budisavljević di dare il via ad una vera e propria evacuazione dei minorenni da campi di concentramento come quelli di Stara Gradiska, Mlaka, Jasenovac, Gornja Rijeka e Jablanac.
Un’operazione che fu portata a termine non solo con l’obiettivo di salvare le vite di quei ragazzini innocenti, ma anche mettendo in piedi un archivio con tutta la documentazione indispensabile a tenere traccia dei loro genitori biologici con la finalità di poterli ricongiungere alla rispettive famiglie al termine della guerra.
Il diario personale
Solo nel 2003 si sono potuti ricostruire i dettagli di questa grande iniziativa di impegno civico, grazie ai documenti conservati nell’Archivio Statale della Repubblica di Croazia e all’iniziativa della nipote di Diana Budisavljević. Silvia Szabo, nipote di Diana Budisavljević, ha infatti deciso nel 1983 di renderne pubblico il diario personale che ricostruisce il periodo che va dal 1941 al 1947. Nella raccolta sono contenuti 80 documenti originali che permettono di ricostruire i nominativi di tutte le persone che aiutarono la Budisavljević a realizzare l’evacuazione dei minori dai campi: una rete segreta che fornì supporto logistico, nella produzione di documenti falsi e nell’assicurare ospitalità ai piccoli una volta che questi venivano messi in salvo.
Una memoria scomoda
Perché siano passati altri 20 anni da quando la nipote decise di aprire il diario della nonna e il momento della pubblicazione dello stesso, nel 2003, è questione che fa riferimento alla rimozione della memoria. La pubblicazione nel 2003 potrebbe essere dovuta, tra le altre cose, al termine dei 20 anni del governo dell’HDZ, il partito di Franjo Tudjman, e alla vittoria dei partiti della sinistra croata.
Il primo fatto storico che ci fa capire come e perché questa eroina finì nel dimenticatoio è il sequestro di tutta la documentazione, un archivio immenso contenente le identità di tutti i bambini salvati, da parte degli ufficiali dell’OZNA (Reparto per la Protezione del Popolo) nel maggio del 1945, subito dopo la fine della guerra sul territorio ormai della nuova Jugoslavia. Fortunatamente il diario si salvò dalla confisca ed è divenuto la base per una ricostruzione storica firmata dalla professoressa Marina Ajduković, che definisce l’iniziativa di Diana Budisavljević come la “prima opera umanitaria in Croazia” e come l’inizio della prassi di assistenza sociale e tutela delle categorie deboli e minacciate.
Si può oggi comprendere senza troppi sforzi perché la biografia di questa donna risultasse tanto scomoda per il regime comunista instauratosi dopo la guerra. È facile capirlo se si pensa che ci troviamo davanti alla storia di una donna austriaca, cattolica praticante, originaria di una famiglia dell’alta borghesia e per di più sposata con un chirurgo di religione ortodossa. Si comprende ancora meglio come la nuova classe dirigente dell’epoca, impegnata in uno sforzo notevole di indottrinamento, si sentisse impotente e disarmata di fronte al fatto che fu proprio il marito, il dottor Julije Budisavljević, misteriosamente sopravvissuto al regime ustascia, ad aiutare la propria moglie mettendola in contatto con le persone che in quell'epoca decidevano la vita o la morte, facendo in modo che il suo cognome le aprisse tante porte in quanto garanzia di discrezione e fiducia.
A complicare il quadro, la documentazione testimonia inoltre che sin dall’inizio, a sostenere l’iniziativa umanitaria di Diana Budisavljević, furono i vertici della Caritas di Zagabria, un soggetto ritenuto tra i “traditori” nell’immediato dopoguerra, in virtù della stretta associazione con la Chiesa cattolica. Una messa al bando che si fondava in parte sui gravi episodi di collaborazionismo con il regime nazifascista da parte delle gerarchie ecclesiastiche, ma che viene in parte stemperato proprio dai fatti raccolti nel diario della Budisavljević: tra le pagine si trova infatti addirittura il nome del Cardinale Alojzije Stepinac, che fu personalmente coinvolto (con il notevole ritardo di due anni come lamentato dall'autrice) nel salvataggio di alcuni dei bambini dai boia del regime ustascia. Lo stesso Stepinac inoltre si sarebbe speso per la costruzione di una solida rete di famiglie croate cattoliche disposte ad ospitare i piccoli rifugiati in città come Zagabria, Sisak e Jastrebarsko.
Nel suo diario, Diana nomina anche Camillo Bròssler, uno degli alti funzionari del regime croato dell’epoca, a capo del ministero delle Politiche sociali. Bròssler fu il fondatore del Reparto per l’assistenza sociale dei bambini ed adolescenti, e rappresenta dunque un'altra figura di origini germaniche, persona di fiducia del regime, coinvolto nello sforzo di salvare un numero altissimo di bambini e adolescenti.
Tutti questi elementi rendono la storia personale di Diana Budisavljević difficilmente riconciliabile con la nuova storia che ci si proponeva di scrivere nel secondo dopoguerra.
La memoria dei giusti
Questi sei decenni di silenzio sono un errore imperdonabile della storia moderna. Un silenzio che forse fu anche uno dei motivi per i quali Diana decise di lasciare per sempre la Jugoslavia e di tornare a Innsbruck, la sua città natale, nella quale trascorrerà gli ultimi anni della sua vita straordinaria, dal 1972 fino alla sua morte il 20 agosto del 1978.
Diana Obexer Budisavljević, Donna Coraggio, fu la seconda madre di tutti i 12.000 bambini salvati da morte certa. La sua vicenda non coincideva con la versione della storia voluta dai comunisti jugoslavi, in quanto l’intera azione non era stata organizzata da loro. Nemmeno alla classe dirigente della Croazia indipendente nata dopo il 1990 andava bene la storia dei 12.000 bambini salvati, in quanto oggi come 20 anni fa, la classe politica è impegnata a sminuire le dimensioni dello sterminio di massa condotto nei campi di concentramento di cui il più conosciuto era quello di Jasenovac.
I riconoscimenti ufficiali, le vie e le piazze che da poco portano il suo nome, arrivati tanti anni dopo la sua morte, ci servano oggi per essere consapevoli di questa vicenda di umanità e altruismo. L’opera più recente sulla straordinaria impresa di Diana Obexer Budisavljević risale all’autunno del 2012, porta il titolo di “Dianin list” (La lista di Diana) ed è opera di Dana Budisavljević e Miljenka Cogelja. Spero renderà questa storia alla portata di tutti.
Mi piace concludere questo pensiero scritto ricordando l’ultima scena della maestosa opera cinematografica del 1993 del regista Steven Spielberg, intitolata “Schindler’s List” in cui ciascuno dei sopravvissuti appoggia un sasso sulla tomba della persona alla quale deve la propria vita. In quella scena, i sopravvissuti dopo la guerra erano 1.100. Cerco per qualche istante di immaginare una piccola collina fatta dai 12.000 sassi, in qualche cimitero a Innsbruck, appoggiati dalle mani dei, all’epoca, piccoli, indifesi, discriminati ma comunque alla fine fortunati esseri umani.