Un viaggio d'istruzione, dal Trentino alla Bosnia Erzegovina, accompagnati da Faris, una guida che in quest'intervista racconta la guerra e il paese oggi. Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Nell’aprile scorso Faris Fočak ha guidato attraverso la Bosnia Erzegovina tre quarte classi (E, F e C) del Liceo scientifico “Leonardo da Vinci” di Trento. Un viaggio, preparato, tappa per tappa, dall’Associazione Trentino con i Balcani onlus tra Mostar, Sarajevo e Srebrenica per conoscere e approfondire la storia di questo Paese, al centro di una sanguinosa guerra negli anni Novanta come altri territori dell’ex Jugoslavia e toccare con mano un presente complesso, non privo di contraddizioni e divisioni, dal futuro incerto dove però operano anche realtà che tentano, dal basso, di percorrere una strada comune.
Figlio di Kanita - architetto e interprete, sarajevese di origini dalmate, nonno veneziano, molto nota in città - Faris Fočak era bambino quando, ai primi di aprile del 1992, iniziò l’assedio della capitale da parte dei soldati serbo-bosniaci. Un assedio durato quasi quattro anni, il più lungo della storia contemporanea. “Avevo 3 anni, compiuti due settimane prima – ricorda Faris che rilascia questa intervista mentre in pullman ci dirigiamo da Sarajevo a Srebrenica – Andavo all’asilo. Ma ho in pratica smesso di frequentarlo perché le prime granate hanno colpito anche la mia scuola e, quindi, sono rimasto a casa con i genitori”.
Dove viveva con la sua famiglia?
Vivevo nella città vecchia, in una casa bosniaca tradizionale, proprio di fronte alla Biblioteca, dall’altra parte del fiume, la Miljacka. Era la casa della famiglia di mio padre. Vivevo lì con papà, mamma, mio fratello maggiore e la nonna, che è morta nei primi giorni di guerra. E subito la mia famiglia si è trovata di fronte ad un problema.
Quale?
Con i bombardamenti, dove avremmo potuto seppellire la nonna?
Cosa avete fatto?
Era il primo giorno di Bajram, la più grande festa per i musulmani. Mio padre, che morirà poche settimane dopo, lo era. La prima decisione fu quella di seppellire la nonna in giardino. Poi, invece, in un attimo di tregua, la mia famiglia è riuscita a portarla nel grande cimitero fuori città.
Ha detto che suo padre, Faruk, è morto da lì a poco. In quali circostanze?
Era il 10 maggio. Era a casa. Stava guardando il telegiornale, cercando di capire cosa stesse succedendo, quale fosse la situazione. “Arrivò” una granata, morì quattro giorni dopo, il 14 maggio, a causa delle ferite nonostante la corsa in ospedale e l’operazione a cui fu sottoposto. Venne seppellito in quel parco sulla collina che c’era di fronte all’albergo dove siete voi, il Saraj, dall’altra parte del fiume. Mio padre fu uno dei primi ad essere seppellito in quello che da allora non fu più un parco ma un cimitero.
Come passava le sue giornate?
Giocavo, ero piccolo. Non capivo la guerra, non la prendevo sul serio, non mi rendevo conto del pericolo. E poi c’era mio fratello maggiore, all’epoca aveva 16 anni, che cercava di distogliere la mia attenzione da quello che stava succedendo. Passavamo anche molto tempo nel seminterrato ma pure nella moschea, nonostante mia madre fosse cattolica, dove era stata istituita una piccola scuola coranica per i bambini organizzata dall’imam. C’erano tanti bambini, anche di coppie miste. Era un modo per stare insieme. Solo che, in inverno, faceva molto freddo e così mia madre si mise d’accordo con l’imam per trasferire la scuola a casa nostra.
Ricorda la fine dell’assedio?
Me ne sono reso conto quando un vicino di casa ha iniziato ad alzare di un piano casa sua. Ho detto a mia madre: “Guarda, la guerra è finita”.
Però, la guerra è continuata, anche se non combattuta con le armi, ma dentro la testa di molti. Adesso combattiamo un’altra “guerra”, per lo sviluppo di questo Paese, per il futuro dei giovani.
Quali sono le differenze tra la Sarajevo di prima della guerra e quella dopo, l’attuale?
E’ cambiata molto. Tanti sono morti, molti se ne sono andati, la struttura demografica è mutata. Ora il 90% degli abitanti è musulmana mentre prima anche altre religioni erano ben rappresentate. Sono musulmani moderati ma Sarajevo non è più una città multietnica e multireligiosa come in precedenza. Si è trasformato anche il modo di pensare. Come ha detto un imam, prima della guerra veniva meno gente in moschea ma c’era più solidarietà. Adesso in moschea ci vanno in tanti ma c’è più individualismo.
Che futuro vede per la Bosnia Erzegovina che ha chiesto di entrare nell’Unione europea?
E’ molto difficile dirlo. Me lo chiedo anch’io. Credo che il futuro sia nei giovani, quando si “risveglieranno”. Nonostante tutto sono ottimista, non abbandonerei mai il mio Paese ma vedo ancora tanto odio e questo mi preoccupa molto. Sarà poi importante che la Bosnia entri nella Nato, per garantirgli sicurezza e nell’Unione europea. A volte si scherza sul fatto che proprio mentre noi chiediamo di entrare nella Ue vengano tirati su muri. E lo dico con l’humor nero che spesso ci contraddistingue ma che è nei fatti. Auguriamoci che i muri e i recinti, tutti, vengano abbattuti e che si possa vivere dentro un’Unione europea senza confini.