Lo sguardo attonito di un fotografo italiano davanti al dolore degli altri. Mario Boccia racconta per il nostro dossier “Mi ricordo” la sua esperienza dei Balcani negli anni '90, a partire dai funerali dei 71 giovani uccisi a Tuzla da una granata il 25 maggio 1995
Mi succede, a volte, di vivere situazioni nelle quali fare il mio lavoro diventa intollerabile. E’ una sensazione forte, che nasce quando l’inganno della “condivisione” viene meno e ti ritrovi solo, a scattare foto, “davanti al dolore degli altri”.
Sono momenti nei quali l’adrenalina non è lì a drogare naturalmente il corpo, per aiutarti a tenere i nervi saldi, gli occhi spalancati e le mani ferme sulla camera. Davanti a te c’è un dolore profondo che puoi solo osservare, non “condividere”. Allora (per fortuna) le mani, a volte, si bloccano e non riesci a tenere alta la testa, nemmeno per guardare. Vorresti essere altrove.
Mi sentivo così quella mattina del 15 luglio 1995, mentre visitavo la radura del bosco, nel parco di Tuzla, dove erano stati seppelliti la maggior parte dei 71 ragazzi uccisi da una granata lanciata dalle posizioni dei nazionalisti serbo-bosniaci, il 25 maggio 1995.
Era un giorno speciale il 25 maggio. Pochi cronisti conoscevano il motivo di tanto affollamento di ventenni, in quella piazza, dove confluiscono tante piccole strade, nel centro storico di Tuzla. Ancora adesso, navigando su internet è possibile trovare le interpretazioni più fantasiose. C’è chi scrive di “una manifestazione in corso per festeggiare una tregua”, chi di “una protesta contro la guerra”, o altro. Ci sono anche errori sulle cifre dei morti e feriti, ma questo è “normale” perché nessuno si preoccupa di verificare più di tanto quello che scrive. Anche i lettori, purtroppo, spesso rinunciano ad esercitare il diritto al dubbio e alla comparazione delle fonti.
Il motivo di tanto affollamento era che quel giorno era la "Festa della gioventù" una festa “jugoslava” che non piaceva (non piace nemmeno oggi) ai nazionalisti. A Tuzla, invece, città dal DNA resistente all’egoismo che esclude dei nazionalisti, quella festa piaceva ancora, e tanti ragazzi scesero in piazza perché per loro quella era una serata speciale. Per questo quella granata è stata anche simbolica oltre che criminale e assassina. Nella piccola piazza affollata fu strage di ragazzi. Ascoltavano musica, parlavano e scherzavano, chi con un bicchiere in mano, chi no. E’ facile immaginarli così, mentre si abbracciavano, insieme e sorridenti, fino all’esplosione.
Anche la storia della loro sepoltura è stata poco raccontata, non so se più per ignoranza o malafede. Forse per entrambe le cose. Non ci vuole molto a immaginare che tra i morti c’erano soprattutto ragazzi musulmani, ma anche cristiani ortodossi e cattolici, e laici (dei quali non parla mai nessuno).
Ci provarono in molti a dividerli, anche dopo morti. Li volevano nei rispettivi cimiteri di appartenenza. Ma i genitori e gli amici dei morti, per primi, si opposero e ottennero l’appoggio del sindaco Selim Beslagić. La proposta era semplice: “I nostri ragazzi hanno sempre vissuto insieme e devono essere seppelliti insieme”. E così fu, per la maggioranza di loro. Solo le famiglie di quelli che vivevano a Tuzla da profughi, hanno preferito che i propri ragazzi fossero portati nei luoghi d’origine. Così nel cimitero nel parco oggi ci sono 51 tombe.
C’ero andato apposta, naturalmente, e avevo iniziato a scattare subito, come altre volte, in altri cimiteri, seguendo i riti del passaggio tra la vita e la morte, religiosi o laici che fossero. Ma quella volta avevo dovuto smettere. Era come se quel dolore fosse entrato in me, superando ogni difesa, fino a impedirmi di ragionare e quindi di scattare. Mi sentivo un intruso, uno che violava l’intimità sacra di quel posto, in quel momento.
Intorno a me decine di persone si muovevano attorno a quelle sepolture recenti e contemporanee o si fermavano. C’era chi sistemava le aiuole, chi lasciava biglietti, chi restava a guardarle, in piedi o accucciato accanto. Occhi asciutti. Si capiva che le lacrime erano finite, per tutti, da tempo. Come potevo non vergognarmi di non riuscire a frenare le mie? Cercai di nascondermi, come potevo. Fu allora che mi venne incontro una ragazzina, che parlava un buon inglese. Mi disse che c’era una signora che voleva conoscermi, poco più in là e, lentamente, ci avviammo.
Ad aspettarmi c’era una donna con uno sguardo che solo la madre di uno di quei ragazzi appena uccisi poteva avere. Voleva mostrarmi la tomba di suo figlio, che aveva vent’anni. La ragazza traduceva tutto, così lei mi spiegò che non dovevo vergognarmi di fare il mio lavoro e che lei, per quello che la riguardava, voleva che più persone possibili, nel mondo, sapessero quello che era successo a Tuzla. “Perché non si ripeta” - diceva, -“Perché la guerra si fermi”.
La foto venne fuori da sola, scattai mentre lei mi guardava dritto in macchina, con una mano appoggiata sulla lapide di legno con scritto il nome di suo figlio Alem. Sulla lapide era appeso anche un cuore rosso imbottito, con due mani bianche aperte che mimavano il gesto di allargarsi e al centro la scritta: “Ti voglio bene tanto così”. Un gadget da festa di San Valentino, un regalo tra coetanei adolescenti, forse fidanzati, forse non ancora.
La madre di Alem mi offrì una sigaretta e subito ne accese una per sé, dando una tirata profonda. “Devi seguitare a fare il tuo lavoro, non sei tu che devi vergognarti. Devi raccontare quello che hai visto a tutti”. Fu allora che prese quella che credevo fosse la sua sigaretta e la infilò tra i fiori, nella terra fresca che copriva la tomba. La sistemò bene, dalla parte del filtro, perché continuasse a bruciare lentamente, senza spegnersi. “A mio figlio piace fumare con gli amici”, mi disse.
* Mario Boccia è fotoreporter e giornalista professionista. Collabora con diverse testate e ha inoltre realizzato mostre fotografiche e pubblicazioni cartacee in collaborazione con soggetti della società civile e della cooperazione internazionale italiana