"Gli orologi nella stanza di mia madre" della scrittrice Tanja Stupar Trifunović è un romanzo poetico con una narrazione che si muove su diversi piani temporali, con continui flashback e flussi di coscienza frequenti. Ne abbiamo parlato con l'autrice
Gli orologi nella stanza di mia madre della scrittrice Tanja Stupar Trifunović è un romanzo poetico nel quale la voce narrante ci racconta la storia di Ana, donna di mezz’età e scrittrice in crisi, facendole intraprendere un viaggio intimo a ritroso nel tempo, in un continuo dialogo interiore con la madre scomparsa. Ana ripercorre la sua vita e rivive alcune dinamiche, rimaste irrisolte, legate al periodo della sua infanzia e adolescenza. Scrittrice alle prese con una nuova fatica letteraria, è contemporaneamente costretta ad affrontare non solo la crisi esistenziale ma anche una crisi creativa; in effetti, nel romanzo è costantemente impegnata nella lotta contro i fantasmi del passato, i quali sono talmente ingombranti che non le permettono di essere completamente libera nel suo lavoro di scrittura. Ana quindi decide di ritornare nella sua casa d'infanzia, sulla costa dalmata, cercando le risposte nelle stanze dove ancora ci sono i vecchi ricordi e le impronte dei genitori. Il suo incontro e scontro con il passato è potente, sia per lei che per il lettore. La struttura della trama ha una forte potenza lirica: tutta la narrazione si muove su diversi piani temporali, con continui flashback e flussi di coscienza frequenti, onirici, forse a tratti anche leggermente complessi per un lettore non abituato a questo tipo di prosa.
Il procedimento letterario in questo romanzo e il tema del processo della memoria e della sua relatività si oppongono ad una sua classificazione rigida e alle implicazioni che essa può avere. Il romanzo è ricco di metafore fantastiche, di espressioni poetiche; le immagini evocate dalle descrizioni sono quasi fotografiche, talvolta sfumate ed altre volte chiarissime, poi vi sono colori, rumori, ricordi veloci nelle descrizioni degli stati d'animo dei personaggi e delle forti emozioni nelle quali si intrecciano e si risolvono grandi tensioni. Abbiamo incontrato Tanja Stupar Trifunović.
Ana non è una sola, ce ne sono tante, in ogni luogo, ad ogni angolo. Attraverso questo personaggio hai dato voce a molte donne. Chi è la “tua” Ana e cosa cerca di dire al lettore?
Ana funziona come il riflesso oppure come un esteso personaggio fittizio della stessa protagonista che si congeda dalla madre e contemporaneamente scrive un romanzo sul personaggio di Ana attraverso il quale vuole fare proprio quello – sublimare l'esperienza femminile, perché le sembra che laddove lei fa concessioni e si nasconde, la sua protagonista Ana coraggiosamente si getta a capofitto nella vita. Quel coraggio ha il suo prezzo, ma anche i suoi doni. Entrambe sono consapevoli del fatto che la resa davanti alla vita le porta verso la depressione, proprio come è successo alla madre della protagonista. Seppure racconti la scomparsa della madre, la depressione, la perdita della propria patria e affronti altri temi per nulla leggeri, nel romanzo in realtà l'autrice celebra la vita e lo dedica alla danza vitale delle donne.
Dunque, il tema del romanzo è universale, benché la storia di Ana sia ambientata nella Dalmazia e nella Bosnia Erzegovina: il rapporto tra madri e figlie in generale, il bagaglio che ogni donna si porta appresso non smettendo forse mai di essere una figlia-bambina, nemmeno quando diventa madre. A volte questo carico sentimentale è troppo pesante e Ana troppo fragile per poter correre liberamente.
Sì, esatto, tutto quel groviglio intergenerazionale è stato messo a fuoco - è come se l'una ricevesse in eredità dall'altra un fardello pesante di cui spesso non si è sicure sul da farsi. A volte quel carico è troppo impegnativo, ma se lo elaboriamo bene, possiamo trovarci anche delle cose utili per la sopravvivenza. Questo grazie al fatto che purtroppo le nostre antenate - ognuna in un certo periodo della sua vita - ci hanno lasciato in eredità una parte della propria esistenza, ossia, ci hanno tramandato esperienze quali vita di stenti, scarsità, povertà e la nuda sopravvivenza. Si tratta, tuttavia, di esperienze che portano con sé una saggezza primordiale, la quale certamente non scaturisce da una vita facile. È importante conservare quell'aspetto empirico della lotta femminile e trasmetterlo alle ragazze che verranno dopo, poiché in ogni crisi sociale il mondo crudele dei diritti sottrae prima ai più vulnerabili e ai più fragili. E il percorso per appropiarsene nuovamente è lungo. Le donne devono avere la consapevolezza di tutto ciò.
In un certo senso quel bagaglio è anche prezioso, poiché da esso possiamo trarne insegnamento – a patto che riusciamo ad elaborarlo in modo adeguato. La libertà è la consapevolezza e l'introduzione di quest'ultima nei contenuti inconsci che spesso ci governano.
Ana appartiene ad una generazione, sua madre ad un'altra e la figlia ad un'altra ancora. Come vengono descritti questi passaggi generazionali e le incompatibilità causate sia dalla differenza d'età che dai cambiamenti che inesorabilmente accadono nelle vite delle protagoniste e nella società in cui emergono tutte le contraddizioni tra i valori di una cultura patriarcale ed una nuova che vede la donna decisa a liberarsi dai tabù, dalle richieste, anche implicite, dalle aspettative che le vengono imposte?
Le donne subiscono una duplice pressione: da un lato questa pressione viene esercitata dalla cultura ancora fortemente patriarcale, nella quale viviamo e che ha le sue aspettative nei confronti delle donne (anche nei confronti degli uomini, naturalmente, ma in un altro senso) e queste aspettative sottintendono il sacrificio delle loro personalità a favore del ruolo della madre e della moglie; dall'altro canto la pressione viene fatta anche da parte della società capitalista e da tutto un set di modelli auspicabili da scegliere per una donna, a partire dal suo impegno professionale, dall'aspetto e dal comportamento. Il capitalismo scanna tutto e adatta tutto a se stesso, siamo testimoni che anche il femminismo e la lotta delle donne sempre più spesso vengono impacchettati, venduti e soggiogati al mercato e alle sue esigenze. Oggigiorno la donna è, come d'altronde tutta l'umanità, in una posizione molto delicata, ed anche se in alcuni ambiti sembra che la situazione dei diritti delle donne sia migliore rispetto al passato, dall'altra parte il mondo intero si trova in un punto molto fragile in cui o impara qualcosa e trova soluzioni migliori o - e temo che sia più plausibile - si radicalizza e finisce nei conflitti fatali il cui prezzo sarebbe troppo alto per tutti.
Quanto il tuo amore verso la poesia e la tua inclinazione naturale ad esprimere in modo poetico ciò che senti e che desideri narrare ti ha aiutato oppure "ostacolato" nella stesura di questo romanzo?
Proprio così: mi ha aiutato e mi ha ostacolato allo stesso tempo. Quando ho iniziato a scrivere il romanzo, volevo mettere da parte quella mia vena poetica e occuparmi del racconto classico, chiamamolo così. E i miei tentativi andavano fallendo l'uno dietro l'altro. Il testo non mi piaceva, mi appariva noioso, poco persuasivo, non era vivo. Era spassionato. Poi un giorno ho abbandonato tutti i miei preconcetti dell'ex studentessa di lettere su come doveva essere scritto un romanzo e ho cominciato a scriverlo come sapevo e come sentivo. Così finalmente l'ho scritto. Probabilmente non era perfetto, ma era vivo. Il testo pulsava. Era il mio testo, e non „come dovrebbe essere un romanzo“ che immaginavo prima. Poi, era necessario domare un pochino quella bestia ardente del discorso poetico. Infine, mi sono seduta e con „il senno del poi“ ho lavorato di nuovo sul romanzo già scritto. Ho provato ad incastrare ed intrecciare queste due cose - il mio amore per la poesia e quello per la prosa - in un unico luogo.
Nel romanzo la protagonista affronta un altro problema: la crisi creativa nel processo di scrittura del libro. Quanto è, secondo te, importante che l’autore/l’autrice si trovi in difficoltà, in particolari circostanze della sua vita, sull’orlo della realtà, in un costante squilibrio tra presente e passato, affinché quel processo creativo possa svolgersi in modo più sincero, onesto e profondo possibile, facendo nascere così una valida opera letteraria?
Le crisi creative sono indispensabili perché lo scrittore possa scrivere qualcosa. Penso che sia sufficiente dire – crisi. Non dico che rappresentino qualcosa di piacevole, anzi, ma sono necessarie e inevitabili nel percorso di maturazione, è impossibile non entrare mai in crisi oppure forse è possibile sopprimerle, evitarle, fuggire da loro cercando salvezza nel lavoro, nelle droghe, in qualcosa che possa sottrarci da noi stessi; tuttavia senza le crisi non si può maturare e non si può diventare adulti. Naturalmente, una crisi non deve essere fine a se stessa, ma piuttosto capace di trasmetterci un messaggio su noi stessi e di insegnarci qualcosa. Al lettore interessano i protagonisti nei momenti di crisi, nei punti di rottura delle loro vite, di certe situazioni nelle quali sia i protagonisti sia gli eventi fanno una svolta decisiva, importante. Le storie si basano su quella dinamica di crisi e del suo superamento. Sarebbe difficile leggere un romanzo di duecento pagine che parla di una sola cosa che si ripete tutti i giorni: andare al lavoro, tornare dal lavoro, della minestra mangiata, delle conversazioni sull’attualità. L’intensità del romanzo sarebbe troppo faticosa per la vita, mentre la monotonia e la ripetizione delle stesse azioni quotidiane ucciderebbe la dinamica e la curiosità anche se fossero descritte dai migliori narratori.
È importante che l'autore lavori molto sul profilo psicologico dei suoi protagonisti, senza quella parte i libri sarebbero unidimensionali. Come conseguenza, quel lavoro potrebbe essere terapeutico, ma anche difficile e deprimente. Dipende da che cosa e da come l'autore elabora attraverso i suoi protagonisti, e da quanto riesce a creare una distanza necessaria da loro (e quella distanza a volte è necessaria). Non c'è una risposta universale, certamente ci saranno esperienze diverse anche nella vita di un solo scrittore con i diversi libri da lui stesso scritti. Quando ho scritto „Gli orologi nella stanza mia madre“, la cosa più difficile per me era proprio quello: mettere una distanza tra me e il testo, poiché il processo stesso di scrittura è stato impegnativo ed estenuante, ma dopo, quando l'ho finito, ho sentito un sollievo inaspettato.
Il titolo del romanzo è molto particolare. Che significato hanno gli orologi di cui parli, Tanja?
Gli orologi misurano il tempo in modo meccanico, non hanno alcun sentimento nei confronti di esso. Il tempo passa. Gli orologi misurano. Noi diamo i significati – alla lentezza, alla fretta, alla transitorietà. Quello che ci lega a essi, anche se i nostri movimenti e i nostri fini sono diversi, è il fatto che sia essi che noi abbiamo quel momento inaspettato ed imprevedibile dell’eterno arresto. Il tempo esprime la sua inesorabilità sia nei loro confronti che nei nostri. Sono stata attratta dalla doppia metafora degli orologi – come rumorosi apparecchi meccanici che la madre della protagonista colloca in modo ossessivo in tutte le stanze, suggerendo così il suo rapporto con la vita e, dall’altro lato, come un segno del tempo trascorso nella stanza della madre dopo la sua morte, quando la protagonista attraverso i ricordi e l’auto-analisi cerca di rivivere un rapporto con la propria madre più completo e più vero di quello che non avesse mai avuto. Questi orologi “interni” sono in realtà il filo tematico più importante del libro.