La crisi in Caucaso e i paralleli coi Balcani, l'ironia e il cinismo degli attori in campo, i timori della ripetizione degli errori del passato. Un editoriale del sarajevese Oslobodjenje, nostra traduzione

13/08/2008 -  Anonymous User

Di Svjetlana Salom, 12 agosto 2008 Oslobođenje (titolo orig. Balkan na Kavkazu)
Traduzione a cura della redazione di Osservatorio Balcani

Era illusorio aspettarsi che il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite prendesse, almeno dopo la quarta seduta in soli pochi giorni, una decisione sul conflitto nell'Ossezia del Sud. Le agenzie internazionali riportano di oltre duemila civili uccisi nella regione della Georgia, cosa che secondo i blandi standard della diplomazia internazionale non è stata sufficiente per accordarsi nemmeno su una prima risoluzione con la quale si potesse condannare l'azione bellica in quell'area. Ancora una volta è stata dimostrata tutta l'inefficacia di questa istituzione, la cui cronica immobilità richiama in modo irritante il ricordo dei suoi errori commessi in passato.

È interessante però che molti attori coinvolti nel conflitto abbiano comparato il ruolo odierno della comunità internazionale in Caucaso con quello avuto nei Balcani negli anni novanta, con il timore della possibile ripetizione della sua provata incapacità di muoversi da queste parti.

L'agile capo della diplomazia francese Bernard Kouchner, che è già stato in visita a Tbilisi, capitale della Georgia, ha definito per il quotidiano "Parisien" il conflitto tra la Georgia e la Russia riguardo l'Ossezia del Sud come un'inaccettabile escalation di violenza alle porte dell'Europa, che sempre più ricorda i conflitti nei Balcani. Quest'ultimo, che anche da noi un tempo è stato un partecipante attivo, oggi con autoconvinzione annuncia che l'Unione europea e l'OSCE devono assumere un ruolo preponderante nella soluzione del conflitto in Caucaso, e la sua ambizione di mediatore di pace tra Mosca e Tbilisi l'ha dimostrata anche con la sua veloce partenza per il Caucaso, facendo notare che gli Stati Uniti, in quanto alleato della Georgia, sono anch'essi parte del conflitto.

L'Europa, evidentemente, in questo conflitto sull'uscio di casa vede la possibilità di riconquistare credibilità sulla scena internazionale, quella credibilità che ha perso completamente nei Balcani degli anni novanta.

Tuttavia, a giudicare dalle reazioni di Washington e Mosca, le due principali potenze mondiali non permetteranno che qualcuno si immischi in un conflitto che riguarda la loro sfera di interessi.

L'America appoggia Tbilisi, addestra e rifornisce l'esercito georgiano, mentre la Russia con i carri armati per le strade di Tskhinvali, principale città dell'Ossezia del Sud, provincia autonoma della Georgia, ha avviato la realizzazione del piano politico secondo il quale a breve riconoscerà l'indipendenza dell'Ossezia del Sud e dell'Abkhazia, le quali desiderano unirsi alla Federazione russa. Uno scenario di questo tipo è previsto anche dal noto politologo moscovita Boris Smeljov, il quale non si è sottratto al parallelo coi Balcani. Anche se solo per una valutazione del tutto discutibile e negativa dell'azione di Tbilisi in Ossezia del Sud come l'"oluja georgiana". Ma in guerra e in amore tutto è lecito, quindi è lecito pure questo, e per le attuali necessità politiche quotidiane un'ulteriore e singolare falsificazione dei conflitti balcanici.

L'apice del cinismo in questi riferimenti alla nostra tragedia si trova però nelle dichiarazioni dell'ambasciatore russo presso il Consiglio di sicurezza dell'ONU, Vitalij Churkin, il quale motivando l'intervento dell'esercito russo in Ossezia e riferendosi agli occidentali ha detto: "Cosa si aspettavano? Che i nostri peacekeepers fuggissero come fecero a suo tempo i peacekeepers a Srebrenica?!".

Così i Balcani, nel vocabolario diplomatico in questi giorni, si sono trasferiti in Caucaso, come sinonimo di tragici errori dell'élite politica mondiale e dei giochi dietro le quinte che hanno accompagnato alla morte centinaia di migliaia di vite innocenti.

L'ironia, però, sta nel fatto che mentre i civili in Caucaso scompaiono sotto i colpi dell'artiglieria, che a dispetto delle promesse non sono ancora cessati, il giudizio su tutto questo viene dato dalle stesse persone che hanno assistito alle violenze negli anni novanta, e non alle porte dell'Europa ma bensì nel suo ventre.