Un libro di Svetlana Broz raccoglie testimonianze di gesti positivi compiuti durante la guerra bosniaca. Grandi e piccole resistenze alla logica della divisione. Per una memoria non solo etnica. Una recensione

21/10/2008 -  Mauro Cereghini

Novanta testimonianze dalla guerra in Bosnia Erzegovina. Persone diverse tra loro per provenienza, cultura, appartenenza nazionale. Persone normali, potremmo dire. Ma che nella loro normale esperienza di violenza dentro la guerra hanno potuto vivere e riconoscere anche gesti di solidarietà umana. Questo contiene "I giusti nel tempo del male", libro uscito per la prima volta nel 1999 a Banja Luka e ora appena tradotto e pubblicato in italiano dalla Edizioni Erickson.

Le sue quasi cinquecento pagine, frutto di sei anni di ricerche e interviste condotte da Svetlana Broz, sono un valido contributo alla memoria di quanto accaduto al di là dell'Adriatico nell'ultimo decennio del secolo scorso. Aggiungono un tassello - quello della resistenza quotidiana e spesso silenziosa alla barbarie - ai molti pezzi di narrazione che la guerra bosniaca continua a produrre.

Paiono il contraltare ad un altro ponderoso volume uscito di recente, il diario di Carla Del Ponte da procuratore capo del Tribunale penale internazionale. Lì si racconta dei cattivi, e della caccia lunga e difficile nei loro confronti. La Del Ponte parla in prima persona, ed è quasi sempre al centro della scena. Nel suo libro invece la Broz si concentra sulle vittime, e sui loro racconti spesso semplici. Per sé riserva appena nove pagine tra prologo ed epilogo, il resto va alla voce diretta degli intervistati. "Le generazioni future devono sapere ed essere coscienti che nel mondo sono esistite persone di questo genere" (p. 36).

I testimoni descrivono atti di coraggio estremo - "Prendetemi al posto suo. Impiccate me ma lui lasciatelo andare" (p. 312) - insieme a dettagli apparentemente minori, come il caffé ricevuto da un prigioniero dopo giorni di botte e maltrattamenti. Nella loro coralità esprimono il senso di smarrimento e incredulità verso le divisioni portate dai nazionalismi, e lo sforzo in prima persona di quanti si ostinano a considerare i vicini uomini e donne al proprio pari. Il valore di una comune appartenenza civica che rifiuta la logica etnicista, seppur declinandosi in vario modo: come cittadinanza sarajevese, bosniaca, jugoslava... "Non stai capendo niente, ah? Questi sono i Balcani!", dice ironico un autista croato al militare Onu di scorta che lo vede abbracciarsi al check point con un soldato serbo suo vecchio amico (p. 139).

L'autrice svolge l'indagine come un vero e proprio atto politico, sua personale resistenza alla logica di divisione imposta dalla guerra. Prima come medico e poi come intervistatrice incontra nel corso dei combattimenti e nell'immediato dopoguerra centinaia di persone, facendosi raccontare le esperienze positive da loro vissute. L'obiettivo non è negare il male, che anzi appare a volte nelle pagine in tutta la sua tragicità. Ma salvare anche gli sprazzi di generosità, pure esistiti e raramente ricordati. "Le persone che si sono distinte per il loro coraggio, per la loro bontà, riceveranno mai un riconoscimento?", si chiede nell'introduzione (p. 35).

Certo, a volte nelle storie raccolte ci sono molte più crudeltà che gesti positivi. Una mamma di Visoko, picchiata e violentata, racconta della salvezza grazie ad alcuni militari che la proteggono e insieme del tormento di ogni notte per le grida del figlio, sgozzato sotto ai suoi occhi. Un'anziana croata testimonia dei vicini serbi che l'aiutano, ma anche del giovane miliziano che la stupra per ore. Forse è proprio la linea sottile tra bene e male, la soggettività di ogni interpretazione degli eventi il dato che più emerge dal libro.

La Broz sceglie nel titolo un'impostazione netta, quella dei giusti che si contrappongono al male, ma poi nei racconti lascia emergere le molte sfaccettature dell'animo umano. Così ciò che colpisce - al di là di alcuni gesti eroici pure narrati - è la banale sottigliezza che in circostanze eccezionali separa bene e male, quella zona grigia da cui con un niente ci si può spostare nell'uno o nell'altro campo. E' quella signora in pelliccia che incrocia un amico, anche lui colto e distinto, costretto perché di un'altra etnia al lavoro obbligatorio come spazzino: "Ha abbassato la testa e a passo spedito ha tirato dritto. ... Dopo qualche istante è tornata indietro. Si è sfilata un guanto e mi ha dato la mano: - Perdonami, per un attimo mi è mancato il coraggio" (p. 393).

Dalle poche interviste che parlano anche della vita precedente alla guerra si può cogliere un'altra osservazione: l'attribuzione esterna della genesi del male. Prima si conviveva pacificamente, poi è arrivato un uragano a sconvolgere le vite di ognuno, "l'orrore che inaspettatamente ha invaso queste terre" (p. 392). E' una lettura storica in parte reale, con le bande di criminali mandate nei primi mesi di conflitto a seminare il terrore specie nei villaggi della Bosnia orientale. Ma essa tace o non sa vedere le responsabilità legate ai decenni passati, le debolezze di un'identità collettiva inculcata più che coltivata, i silenzi imposti dal regime sulle lacerazioni vissute tra gli slavi del sud, fonte di paure e rancori anziché della riconciliazione voluta. Il rischio perciò di idealizzare - implicitamente, dato che il libro si attiene ai fatti più recenti - l'unità e fratellanza jugoslava è sempre dietro l'angolo.

Il nome dell'autrice non aiuta perché Svetlana Broz è nipote di Josip, il maresciallo Tito. E questo rischia inevitabilmente di portare sul suo lavoro un pregiudizio immeritato. Non è però per suo intervento che alcune delle persone intervistate ricordano con nostalgia gli anni del socialismo: "Abbiamo vissuto bene durante il periodo di suo nonno" (p. 456), oppure "Vivevo nel più bel paese che c'era al mondo. Chi ha osato portarmelo via?" (p. 361).

E' un senso di nostalgia comprensibile, comune a molti abitanti odierni della Bosnia Erzegovina: nostalgia per la sicurezza, per la normalità, per la tutela sociale. C'è da augurarsi, tuttavia, che la memoria storica in costruzione riesca a preservare tanto gli elementi positivi del prima, quanto i limiti pure ascrivibili a quel tempo. Un tempo che è genesi e non vittima del male successivo.


Edizioni Erikson, Gardolo (TN), 2008
400 pp.