Il mito della fratellanza olimpica, che si celebra da oggi a Sochi, nasconde il racket dello sfruttamento dei lavoratori migranti. Le voci degli operai serbi e bosniaci rientrati dalla Russia

07/02/2014 -  Andrea De Noni Sarajevo

Lavoratori clandestini, costretti a spezzarsi la schiena per un tozzo di pane, tenuti in condizioni di semi-schiavitù. Sfruttati per costruire gli impianti grazie ai quali gli sportivi e gli appassionati di tutto il mondo potranno celebrare, a partire da oggi e per le prossime due settimane, il mito della fratellanza olimpica. È stata questa la sorte di 123 lavoratori, serbi e serbo bosniaci, che solo recentemente sono riusciti a ritornare a casa dopo aver lavorato nei cantieri edili di Sochi, la città russa dove oggi si aprono i giochi invernali.

A denunciare la situazione dei lavoratori migranti a Sochi ci aveva già pensato un rapporto di Human Rights Watch, pubblicato esattamente un anno fa sotto il titolo di "Corsa verso il basso". “Per preparare i giochi invernali del 2014”, si può leggere nel documento, “la Russia ha dovuto trasformare radicalmente Sochi, una città costiera sul Mar Nero, costruendo impianti sportivi, hotel di lusso, oltre che infrastrutture e sistemi di comunicazione modernissimi”. Per fare ciò, e concludere quest'opera faraonica con il minimo costo, la Russia ha fatto ricorso anche “a 16.000 immigrati provenienti dall'estero”, impiegati spesso in condizioni durissime: gli operai lavorano per “turni di dodici ore, senza aver diritto a giorni di riposo”, e dopo che “sono stati loro confiscati il passaporto e il permesso di lavoro, per fare sì che non si ribellino e per renderne impossibile la fuga”.

La storia di questo sfruttamento, che per HRW riguardava principalmente gli immigrati del Caucaso e dell'Asia centrale, è diventata anche la storia di questo centinaio di lavoratori serbi e bosniaci: attirati da ambigue agenzie di intermediari, o da società di costruzione che offrivano loro un lavoro in Russia; allettati dalla promessa di salari non faraonici ma certo cospicui, buoni a sistemarsi per parecchi mesi una volta rientrati a casa, in Serbia o Bosnia Erzegovina; e quindi caduti vittime di un vero e proprio racket di sfruttamento internazionale.

Volevamo i soldi, abbiamo avuto la prigione

Sochi (Foto Andrew Amerikov, Flickr)

Sochi (Foto Andrew Amerikov, Flickr)

“Abbiamo vissuto un'esperienza orrenda”, ha raccontato alla televisione BHRT Radovan Biserčić, uno dei serbo-bosniaci che hanno lavorato a Sochi. “Uno dei nostri colleghi è morto, uno è stato ucciso e un altro, che ha avuto un attacco di cuore, è sparito e non sappiamo tuttora che fine abbia fatto. I nostri ricordi degli ultimi tre mesi sono dolorosissimi”, continua Biserčić, “siamo andati in Russia perché volevamo i soldi, ma invece abbiamo avuto la prigione. Vivevamo in una casa che ci eravamo costruiti noi, con le nostre mani”, ricorda l'uomo. “Il pavimento era di cemento, non c'era spazio sufficiente per dormire, né per andare al bagno o per farsi la doccia”.

I lavoratori serbi e serbo bosniaci sono andati a Sochi convinti di poter sfuggire alla disoccupazione e guadagnare uno stipendio molto più alto di quello che in media viene loro corrisposto a casa.

Darko Glišić, di Višegrad, è arrivato in Russia grazie a un amico di Belgrado, Nikola, che un giorno gli ha presentato Raško Tankošić. Tankošić ha creato una propria agenzia che si occupa di inviare operai edili in Russia, e promette a Glišić un salario che va dai sei agli otto dollari all'ora.

La paga media, in Bosnia Erzegovina, è di 425 € al mese soltanto. La cifra promessa da Tankošić non è faraonica. Ma è una paga onesta, e tanto basta a convincere Darko a partire.

“Lavoravamo duro, ma ogni volta che si finiva un edificio, Raško ci dava al massimo cento euro”, ricorda Glišić a Radio Sarajevo. “Noi eravamo convinti che tutto sarebbe stato pagato alla fine. Le condizioni di vita lì erano orrende, disastrose, venti persone dormivano in un'unica stanza disadorna, senza potersi lavare, in letti senza materassi”.

Poi, un giorno, la polizia russa compie un controllo a sorpresa. Trenta lavoratori vengono arrestati, gli altri in qualche modo riescono a scappare. Ma sono senza documenti e con pochissimi soldi in tasca: “Io sono sfuggito alla prigione russa, per fortuna”, racconta sempre Glišić, “ma sono rimasto praticamente subito senza i pochi soldi che ero riuscito a guadagnare”.

Con lui c'è anche un altro fuggitivo, Milan Jeftić, venuto a Sochi con la promessa di quattromila euro per tre mesi di lavoro. “Per tre giorni”, ricorda Jeftić in un'intervista rilasciata a Radio Slobodna Evropa, “non abbiamo fatto altro che scappare dalla polizia”. Poi, finalmente, è arrivato l'aiuto delle autorità di Belgrado. Che sono riuscite ad organizzare il trasporto dei propri cittadini, così come di quelli bosniaci, con un volo il 23 gennaio scorso.

I mondiali di calcio nel 2018 e il precedente di SerbAz

Dopo la scoperta di questo sistema di sfruttamento, poco in realtà è stato fatto per punire i responsabili. Lo stesso 23 gennaio, la polizia serba ha arrestato Dušan Kukić, di Čačak (Serbia), a capo di una delle agenzie responsabili di aver procurato operai alla costruzione di Sochi. Ma secondo Saša Simić, presidente del sindacato serbo per gli operai edili, resta ancora moltissimo lavoro da fare. Questa potrebbe essere soltanto la punta dell'iceberg. “Ci potrebbero essere più di 40.000 serbi che lavorano in Russia oggi; il loro numero esatto purtroppo non è possibile saperlo”, ha dichiarato Simić a Radio Slobodna Evropa.

Secondo Simić, il fenomeno rischia di aggravarsi anche in vista dell'organizzazione della Coppa del mondo di calcio in Russia nel 2018: “I nostri lavoratori sono competenti, e tra i peggio pagati della regione”. Facile quindi pensare che in pochi saranno in grado di resistere alle proposte di partire per la Russia.

Nel caso specifico della Bosnia Erzegovina, invece, “il fenomeno non ha ancora assunto proporzioni così preoccupanti; ma certo, si parla di un trend che purtroppo rischia di aumentare nel prossimo futuro”, sottolinea per Osservatorio Balcani e Caucaso Ivana Kozina.

Da anni, Ivana si occupa di dare sostegno alle vittime del traffico di esseri umani, attraverso Caritas Bosnia Erzegovina.

“Questo fenomeno non è ancora molto diffuso, ma sfortunatamente alla base c'è una tendenza che probabilmente aumenterà in futuro, dal momento che in Bosnia Erzegovina esistono – e continueranno ad esistere – ampie sacche di povertà, un alto tasso di disoccupazione e forti tensioni sociali”.

Ivana Kozina da anni è a capo del progetto "Enhancing local capacities to stop trafficking in BiH" (potenziare le capacità locali per fermare il traffico di esseri umani in Bosnia Erzegovina), e rappresenta il proprio paese in un progetto antitrafficking euro-mediterraneo.

“Un caso molto simile a quello di Sochi, tuttavia, si è realizzato in passato e riguarda alcune centinaia di bosniaci spediti a lavorare in Azerbaijan come operai edili per un'impresa chiamata SerbAz. Quello che ora in Bosnia Erzegovina è noto come 'il caso azero'  ha avuto luogo nel 2009 ed è, attualmente, in attesa di giudizio di fronte alla Corte dei Diritti Umani di Strasburgo”.

Anche in quel caso, cittadini bosniaci erano stati attirati dalla promessa di un lavoro migliore, per trovarsi poi – di fatto – ridotti in condizione di schiavitù dai propri datori di lavoro locali.