(Foto Bea 2.0, Flickr)

Lo stupro come arma di guerra, strumento specifico di terrore nei conflitti degli anni '90 in Europa. In occasione della giornata mondiale contro la violenza sulle donne, pubblichiamo un contributo sul caso della Bosnia Erzegovina. La situazione di vittime e carnefici oggi

25/11/2009 -  Azra Nuhefendić

A 14 anni dalla fine della guerra in Bosnia Erzegovina, le donne vittime di stupro e di altre forme di violenza non hanno ancora ricevuto giustizia. Molte delle sopravvissute soffrono di gravi problemi fisici e psicologici. Amnesty International avverte nel suo ultimo rapporto che "alle sopravvissute viene oggi negato l'accesso alla giustizia", e accusa le autorità della Bosnia Erzegovina di aver ampiamente fallito nell'assicurare un'adeguata riparazione alle vittime della violenza sessuale.

Nei primi mesi dopo l'inizio della guerra in Bosnia non avevo nessuna notizia sulla sorte della mia amica e collega Maja. Lei abitava a Grbavica, il quartiere di Sarajevo occupato dai nazionalisti serbi. Quando ricevetti le prime notizie sulla sua sorte, ero sotto shock. Mi dicevano che era stata aggredita, derubata e violentata. Maja aveva allora settantadue anni.

Il fatto che fosse stata stuprata rendeva la sorte di Maja più drammatica, diversa da quella degli altri colleghi, amici, parenti. La metteva a parte, la segnava.

Di quelle che hanno subito violenza sessuale infatti non si parla, si sussurra. Spesso le vittime sono circondate da un'aura di qualcosa che sa di sporco, intoccabile, che è meglio non provocare, non sentire, non udire. Solo più tardi ho capito che Maja non era la sola ad aver subito questo destino, e che la violenza che aveva sofferto la accomunava a migliaia di ragazze e donne bosniache che avevano subito lo stupro.

Secondo l'Unione Europea sono circa ventimila le persone che sono state stuprate in Bosnia nel periodo 1992-1995. Si tratta sempre di stime, i dati si considerano come la punta di un iceberg perché si sa che molte vittime non parlano, e non sempre ammettono quello che è loro successo.

I numeri, anche se grandi, non ci commuovono tanto. La foto di una giovane donna bosniaca, una vittima con nome e cognome, impiccatasi dopo aver subito la violenza, ha invece orientato il dibattito nel Congresso Americano sugli stupri. L'indagine che ne è seguita, scavalcando le alchimie linguistiche del tipo "le parti coinvolte", ha fatto vedere che la giovane donna impiccata non era un militare, non era colpevole di nulla, non era esponente di presunti "odi secolari". Il suo atto disperato era la tipica reazione di qualcuno incapace di agire anche solo per autodifesa.

La violenza sessuale durante guerre e conflitti non è una novità. Dai tempi dell'antica Grecia ad oggi, le donne sono state vittime: imprigionate, torturate, violentate, usate come schiave. Per lungo tempo la violenza sessuale sulle donne fu vista e anche tollerata come uno degli inevitabili mali della guerra, come rubare o distruggere.

In Bosnia, però, durante la guerra, i nazionalisti serbi hanno perfezionato questo "crimine spontaneo", hanno trasformato lo stupro in una precisa strategia, pianificata e coordinata. Per la prima volta nella storia della guerra, in Bosnia Erzegovina gli stupri sono diventati parte di una strategia militare.

La giornalista croata Seada Vranić, autrice del libro "Breaking the Wall of Silence", fu tra le prime a capire che gli stupri di massa non erano casi sporadici, ma che invece si trattava di una politica precisa. Nel suo libro ha raccolto 300 testimonianze sugli stupri compiuti contro le donne in BiH.

Non era difficile raccogliere le testimonianze. Gli stessi stupratori, infatti, si vantavano delle loro azioni. Norman Cigar, nel suo libro "Genocide in Bosnia: The Policy of Ethnic Cleansing", scrive che "i paramilitari serbi della città di Gacko, in Erzegovina, si vantavano in pubblico di quello che facevano alle donne bosniache. Cantavano: Muslimanka sva u krvi, srbin joj je bio prvi, cioè la donna musulmana tutta insanguinata, il serbo è stato il primo per lei. Lo stesso gruppo si vantava di aver stuprato in gruppo una ragazza musulmana di tredici anni, di averla attaccata su di un carro armato e poi di aver circolato per la città finché della ragazza non era rimasto niente più che uno scheletro".

Il giornalista americano Roy Gutman, nell'autunno del 1992, ha pubblicato una serie di articoli per il giornale Newsday sugli stupri di massa in BiH. Un articolo portava il titolo: "Stuprate per ordine". Quando gli articoli di Gutman rivelarono al mondo che le donne bosniache erano state stuprate in massa, già da un po' nei territori non occupati, in BiH e in Croazia, quasi ogni giorno si presentavano delle donne, dai sei fino agli ottant'anni, che denunciavano orribili storie di violenza sessuale. Tra le giovani molte erano in avanzato stato di gravidanza. Una dopo l'altra confermavano che erano state violentate, e quelle incinte dichiaravano di essere state tenute prigioniere fino a quando l'interruzione di gravidanza era diventata impossibile.

L'opinione pubblica mondiale fu indignata per quello che succedeva in Bosnia. Si trattava infatti di un fenomeno nuovo. Non era lo stupro in sé, era la violenza sessuale usata come arma di una politica ben progettata ed eseguita sistematicamente.

La solidarietà con le donne bosniache ha superato l'aspetto umanitario e non si è esaurita con l'emergenza. Dopo la guerra in Bosnia, la violenza sulle donne è diventata una questione politica, e se ne discute a livello nazionale e internazionale. Gli stupri di massa sono diventati parte integrante del dibattito sui diritti umani.

Sotto questo profilo, la conseguenza più importante che ne è derivata è rappresentata dal fatto che le Nazione Unite hanno riconosciuto che la violenza sessuale è un crimine di guerra, un crimine contro l'umanità e che si può considerare come un atto di genocidio. Finalmente, dunque, è stato riconosciuto che lo stupro e la sofferenza che provoca non sono un prodotto secondario e inevitabile dei conflitti armati, ma crimini di guerra.

Per le vittime, però, questo conta poco. Loro vogliono che i colpevoli rispondano dei loro crimini. Lo ricorda nel suo libro "La caccia" l'ex Procuratrice Generale del Tribunale dell'Aia, Carla del Ponte, che descrive l'incontro con una donna vittima di Milan Lukić, detto Lucifero, un serbo bosniaco condannato per crimini contro l'umanità: "Mi incontro con diverse vittime di Milan Lukić. Una è una madre che dice che non mi perdonerà mai se Milan Lukić all'Aja non avrà quello che merita. Racconta nei particolari come Lukić fosse irrotto in casa sua, violentandola alla presenza dei due figli, di nove e dodici anni; racconta come Lukić l'avesse poi portata nella cucina ordinandole di scegliere un coltello affilato e come infine, sotto i suoi occhi, Lukić l'abbia usato per sgozzare i due bambini".

Un'altra vittima di Milan Lukić, la signora Bakira Hasečić, fu tenuta prigioniera nell'albergo "Vilina Vlas", vicino alla città Višegrad, in Bosnia Orientale. In un rapporto delle Nazioni Unite si precisa che al "Vilina Vlas" erano detenute e maltrattate circa 200 donne. La maggior parte di loro furono uccise o sono scomparse.

"Ci tenevano tutte chiuse nelle stanze. Ogni tanto ci buttavano un pezzo di pane che prendevamo con i denti perché le mani erano legate con le corde. Ci slegavano solo per stuprarci", ha testimoniato la Hasečić.

Un altro luogo identificato dove le donne bosniache furono detenute e ripetutamente stuprate è il bordello locale "Sonja", a Vogošča, un sobborgo di Sarajevo. Le donne sopravvissute hanno testimoniato che oltre ai serbi ci venivano anche i caschi blu dell'UNPROFOR. I caschi blu sapevano che si trattava di donne bosniache costrette a subire violenza sessuale. Il giornalista britannico John Burns ha scritto per il New York Times che "lo stesso comandante delle forze internazionali in Bosnia, il generale canadese Lewis MacKenzie, ha abusato delle donne bosniache tenute prigioniere nel bordello locale Sonja".

Molte vittime di stupro hanno deciso di parlare. Dopo la guerra è stato pubblicato il libro "Molila sam ih da me ubiju" (Li pregavo di uccidermi) con testimonianze delle donne stuprate. Altre due vittime, una musulmana, Nusreta Sivac, e una croata, Jadranka Cigelj, hanno raccontato degli stupri che hanno subito nel campo di concentramento di Omarska, vicino alla città di Prijedor. Entrambe, giudici di professione, sono state detenute nel campo, maltrattate e ripetutamente violentate. Sulla loro vicenda è stato fatto un documentario, "Calling the Ghosts" (Chiamando i fantasmi), in cui le due donne parlano della loro orribile esperienza.

La giudice Nusreta Sivac è tornata nella sua città natale, a Prijedor. Afferma che "solo il fatto che in ogni momento, per le vie della città, posso incontrare i miei aguzzini, mi crea stress. Li guardo negli occhi. Voglio che loro sappiano che li ho riconosciuti. Ma per questo ho bisogno di tanta forza", racconta.

Amnesty International, nel suo ultimo rapporto, richiama l'attenzione sul fatto che le vittime e i colpevoli sono ancora là, le une accanto agli altri: "I responsabili degli stupri continuano a sottrarsi alle indagini e alla giustizia. Alcuni occupano posizioni di potere e molti vivono nelle stesse comunità delle loro vittime. Solo pochi colpevoli sono stati assicurati alla giustizia attraverso i tribunali internazionali e nazionali".

Le donne e le ragazze vittime di stupro, invece, continuano ad essere vittime di una società che le ha dimenticate, lasciate senza medicine né sostegno dei medici. Tante sono disoccupate, senza mezzi per vivere, molte incapace di formare una famiglia a causa del trauma subito, tante hanno perso i familiari. La maggior parte delle donne stuprate oggi vive ai margini, continuando a soffrire, vittime invisibili.