L'incontro con un ragazzino, al confine tra Bosnia e Croazia, che assieme ai genitori sta tentando di raggiungere una vita normale. La quarta puntata del reportage "The Game". Riceviamo e volentieri pubblichiamo
“Il fanciullo, ai fini dello sviluppo armonioso e completo della sua personalità deve crescere in un ambiente familiare, in un clima di felicità, di amore e comprensione”
(Convenzione sui diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza 1989)
Corrono, saltano, guardano, scrutano il mondo con curiosità, tutto ciò che incontrano è mistero.
Oggi, uno di loro, ha scoperto il fuoco ed il mondo ha cominciato a bruciare.
Piante, fiori, foglie, frammenti di carta, rami secchi. Si prova ad accendere tutto lungo l’incantevole viaggio della scoperta.
Oggi, gli occhi hanno visto paesaggi ignoti, incontrato nuovi volti e catturato l’energia dei raggi del sole.
Le mani hanno scoperto nuove tecniche di presa.
“Lancia, forza, tira qui” “L’ho presa, hai visto?” Habab è meravigliato dal nostro gioco.
Ci siamo lanciati palle blu, gialle e rosse, dipingendo traiettorie in aria in uno scambio d’avvicinamento silenzioso. Ci siamo osservati a distanza, nascondendoci dietro ad ogni passaggio, lanci carichi di messaggi di fiducia. Attraverso il gioco, arte eletta dai bambini come mediatore, s’incontra l’Altro.
“Tu sei musulmano?”, mi chiede Habab cogliendomi impreparato.
“No, ma sono tuo amico lo stesso”, ho risposto io d’istinto.
Abbiamo ricominciato a correre all’impazzata. Le gambe hanno imparato nuovi movimenti. Hanno scalciato, strofinato il terreno, si sono piegate a fisarmonica, sono rimaste appese in aria trasportate da una corrente d’aria messa in moto da una giostra di mani intrecciate.
È tutto nuovo, il mondo è così vasto che ogni cosa è sorpresa, sembravano dire i suoi occhi.
Avevamo la stessa curiosità di scoprire il mondo. Eravamo entrambi alla ricerca di un momento di fuga, di un attimo di respiro.
“Dai gettati nell’acqua”, dice Habab dopo aver accidentalmente scagliato il pallone in uno stagno.
“Non posso, l’acqua è gelida, rischio di ammalarmi”, gli rispondo.
Acqua torbida e liscia.
Dovevamo inventarci un modo per recuperare quella palla. La vedevamo lì, ferma, in mezzo all’acquitrino.
Ci siamo riempiti le tasche di sassi, dopo aver setacciato per qualche minuto il terreno cercando la forma e il peso più adatto per far scivolare il pallone verso la riva.
“Raccolgo le pietre dalla tua tasca e te le passo”, propone Habab.
Pietra dopo pietra, creando delicate increspature sulla superficie dell’acqua, siamo riusciti nel nostro intento.
Abbiamo rianimato il pallone ripulendolo dal manto fangoso che lo ricopriva e abbiamo ricominciato a farlo rotolare tra i fili d’erba.
Piede destro in avanti, il sinistro lo copia seguendolo. Il corpo si rimette in moto.
Le gambe accelerano il passo. Si arrestano. Riprendono poi la corsa per qualche metro.
Ci si ferma di nuovo per un breve lasso di tempo, il necessario per riprendere fiato.
Via, si riparte. Movimenti rapidi su e giù seguendo il profilo del colle. Non si riesce a vedere il giocatore avversario alle proprie spalle, si sa però che è lì da qualche parte, la sua presenza si percepisce sul collo e preme forte alla schiena.
Si acuiscono i sensi, lo sguardo deve scorgere al di là di ciò che gli occhi riescono a vedere, ogni passo ha il proprio timbro ed è importante riconoscerne l’identità.
Si continua a correre, l’adrenalina muove le gambe in avanti, tifa per la tua stessa squadra. La paura, invece, toglie energie ai muscoli e offusca lo sguardo.
Il gioco è oramai iniziato, si deve pensare velocemente a come poter vincere la partita. Si cerca uno spazio vuoto nel campo, dove potersi smarcare dagli avversari. Si corre e si libera un varco per i propri compagni.
“Gli stati parti riconoscono al fanciullo il diritto al riposo, al tempo libero, a dedicarsi al gioco e ad attività ricreative proprie della sua età”
(Convenzione sui diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza, art. 31)
“Forza, aiutami a rialzarmi”.
Si perdono secondi preziosi quando si scivola a terra, si rischia di perdere il controllo del gioco.
I lunghi capelli di Habab seguono l’oscillazione dei passi. I polmoni si gonfiano e sgonfiano rapidamente e il cuore batte il ritmo frenetico della corsa.
Il corpo, anche se nella stagione di massimo splendore, si stanca se sottoposto a molte ore di fatica.
Habab deve fermarsi, ha bisogno di riposare. I passi rallentano e si spostano alla ricerca di un angolo morbido dove potersi sdraiare.
Avvolto in un gomitolo di coperte Habab, insieme alla sua famiglia, sta trascorrendo la notte nella boscaglia. Fa freddo là fuori ma non c’è altro posto per loro.
Si deve attendere fino al mattino seguente per riprendere il cammino, le torce non bastano per farsi strada nella notte.
“Prendono tutti e tutti buttano via”, non importa chi sei e tanto meno importano gli anni della tua pelle.
“Andatevene via, tornatevene in Bosnia”.
“Sei uno sporco Taliban, vattene”.
Questi sono i suoni del bosco ai quali è abituato Habab che racconta, prima di ripartire, come il padre sia stato aggredito più volte, per il solo sbaglio di aver protetto i suoi figli dalle violenze.
“Ho paura di incontrarli”.
Dice Habab riferendosi ai poliziotti croati. Li ha già visti molte volte, gli occhi si gonfiano di quel doloroso ricordo.
“Nei bambini più piccoli si possono manifestare giochi ripetitivi in cui vengono espressi temi o aspetti riguardanti il trauma. Agire o sentire come se l’evento si stesse ripresentando e ciò include sensazioni di rivivere l’esperienza, allucinazioni ed episodi dissociativi di flashback”.
Spiegano così, Pier Paolo Colombo e Valentina Mantua, nella loro analisi dello stress post traumatico declinato nella vita quotidiana, alcuni modi in cui, sia l’adulto che il bambino, rivivono l’evento traumatico.
“Giocando con Habab tutto ha un significato, non è permesso lasciare i gesti al caso”, penso a posteriori.
Bloccarlo a terra, legargli i movimenti, guardarlo negli occhi per incutergli timore come quando si gioca a fare la lotta, potrebbe avere un retrogusto doloroso. La mente spalanca le porte ad incubi passati.
Habab è in cammino da due anni, insieme al padre, la madre, il fratello maggiore, e due sorelle, più piccole di lui.
Habab ha 10 anni e da tre non si siede sui banchi di scuola. Quando ci siamo incontrati, riproduceva i suoni delle lingue incontrate lungo il cammino. Rideva pronunciando “teshekular”, grazie in Turco. Ha attraversato la Turchia, la Grecia, la Macedonia, il Montenegro e ora sta provando ad oltrepassare la Bosnia.
Ha vissuto per molti mesi a Velika Kladuša, in una casa di fortuna, lasciata vuota dalle emigrazioni di questo Paese.
Molte famiglie, a differenza sua, vivono all’Hotel Sedra, ex struttura alberghiera messa a disposizione dell’emergenza migranti nel luglio di quest’anno. La struttura è gestita dall’Organizzazione Mondiale per le Migrazioni (IOM) in collaborazione con l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (ACNUR) e altre Organizzazioni Internazionali quali Save the Children, il Danish Refugee Council e Medici Senza Frontiere che operano al suo interno.
Non ci si può liberamente allontanare dal centro d’accoglienza, si deve mostrare la propria carta d’identificazione ad ogni passaggio, i minori devono attendere l’approvazione dei genitori perché da soli non possono uscire.
Sono ospitate famiglie afgane, iraniane, irachene, siriane, pachistane e somale.
Apprendiamo le logiche della struttura osservandola dall’esterno, appostandoci alla stazione di servizio situata di fronte all’Hotel e recuperiamo, così, le testimonianze delle persone che quel posto lo vivono tutti i giorni.
Abbiamo inviato una richiesta ufficiale alle Istituzioni preposte, per verificare noi stessi le condizioni del centro, ma non abbiamo ricevuto alcuna risposta. Sono passate ormai più di due settimane.
“Ci sono all’incirca 400 persone di cui la metà sono minori e bambini. Ci sono anche bambini molto piccoli, non so come faranno a proseguire il loro viaggio. Sono preoccupata al pensiero di dover rimanere in questo posto tutto l’inverno”.
Madina ci racconta come si vive all’Hotel e molte altre voci si uniscono alla sua preoccupazione.
Habab e la sua famiglia hanno già provato otto volte ad oltrepassare il confine bosniaco-croato, la nona è in corso in queste ore.
Ricordo la curiosità, la forza esplosiva e la carica energetica di Habab che non si fermava un solo secondo.
Il bambino assorbe il mondo, ne replica le forme e i comportamenti seguendo i suoi insegnamenti. Il bambino impara attraverso il fantastico gioco dell’imitazione.
“Sul mare, sulla terra chi ci salverà?”
“Ci salverà il soldato che non la vorrà, ci salverà il soldato che la guerra rifiuterà”.
Spero che Habab, questa notte, possa imparare che il mondo è fatto di Uomini e di scelte e che la vita può ancora riservargli belle sorprese.
Ti penseremo, nostro piccolo amico.