L'editore Zandonai di Rovereto ha pubblicato “La donna sulla pietra”, raccolta di racconti di Ivo Andrić finora inediti in Italia. Il premio Nobel appare qui in una luce nuova, lontano dall'epos balcanico e vicino alla realtà quotidiana dei suoi protagonisti. Il commento del curatore dell'opera
Due anni fa Zandonai editore, di Rovereto, mi ha proposto di curare un libro di racconti di Ivo Andrić, inediti in italiano. Ho accettato la proposta, perché era davvero insolita: potevo realizzare la raccolta in piena libertà, basandomi unicamente sulla mia scelta. Potrei scrivere un racconto sulla mia corrispondenza, lunga quasi due decenni, con editori italiani su opere di autori ex jugoslavi che in questi anni ho proposto per la pubblicazione. Cito solo un episodio: il “Romanzo di Londra”, di Miloš Crnjanski (1893-1977), per me la miglior opera della letteratura mondiale sul tema emigrazione/immigrazione, scritta da Crnjanski durante il suo lungo esilio nella capitale inglese, aspetta ancora una risposta da parte dell’editoria italiana.
Il libro di Andrić pubblicato all’inizio di quest’anno, “La donna sulla pietra”, rappresenta invece un'eccezione. È tradotto da Alice Parmeggiani che, oltre alla sua attività di traduttrice (di David Albahari, Ivo Andrić, Borislav Pekić, Aleksandar Tišma, Filip David e molti altri narratori, poeti e saggisti), è un’ottima conoscitrice delle letterature degli slavi meridionali e, tra altre opere e saggi sulla linguistica, è autrice di una intensa presentazione della letteratura antica bosniaco-erzegovese: “Scritti sulla pietra. Voci e immagini dalla Bosnia ed Erzegovina fra medioevo ed età moderna” (Forum editore, Udine).
La sera del 14 aprile scorso, nella libreria “Minerva” di Trieste, (una delle oasi triestine e giuliane attente alla letteratura-letteratura), ho presentato “La donna sulla pietra” con Alice Parmeggiani e Valerio Fiandra. Il critico letterario triestino (“anche ebreo”), con la pipa quasi spenta, è diverso dalle creature del genere, solitamente ospitate dalla culla alla tomba da grandi testate mediatiche. Lui invece si autopresenta modestamente, come un buon lettore ma anche, come lui stesso sostiene, presuntuoso, annoiato, inaffidabile, irritabile. E’ un onore stare al tavolo con Valerio. Ha dichiarato subito che la vera ragione del suo stare al tavolo con noi era l’altissimo livello della scrittura di Andrić. Confermata, secondo lui, anche da questa opera il cui significato, seguendo il filo semantico dei nove racconti, partendo dal primo, “La donna sulla pietra”, e arrivando all’ultimo, “La danza”, viene sintetizzato in un profondo “portami via” a cui perfettamente si accompagna l’immagine suggestiva della copertina, l’opera di Iga Jedrocha dell’omonimo titolo (“Take me away”). Ad Alice, la “colpevole” dell’eccellente traduzione dal serbo, Valerio ha posto diverse domande, per il mio piacere. E ciò per un semplice motivo: quante volte le persone che lavorano nel silenzio, lontane dagli applausi, dalle grandi scene, ma senza le quali un importante segmento della cultura rimarrebbe vuoto, restano nell’ombra dei saggi di turno?
Anche a me Valerio rivolge una semplice domanda sul titolo della mia postfazione, “Racconti dall’ombra”. L’ombra? E’ il risultato delle più grandi opere di Andrić, “Il ponte sulla Drina” e “La cronaca di Travnik”, accanto alle quali vanno ricordati anche i romanzi “La signorina” e “Il cortile maledetto”. Nel mondo, in questi due ultimi decenni, sono stati ripubblicati soprattutto questi titoli. Agli occhi degli editori e dei critici, e di conseguenza anche dei lettori, Andrić è al tempo stesso, e molte volte esclusivamente, autore di un opus che scaturisce dalle vicende della Bosnia natia e scrittore della vena omerica che – proprio attraverso la suggestione emanata da un mondo in cui si sono incrociate le periferie dell’Occidente e dell’Oriente, le maggiori religioni e gli interessi delle grandi potenze – ha prodotto irripetibili gioielli letterari. Ed è proprio la lettura critica ad aver determinato l’oblio dei “racconti dell’ombra”, la loro sottovalutazione.
I nove racconti de “La donna sulla pietra”, a una prima analisi, paiono presentarci un Andrić insolito, lontano dai suoi profondi sguardi sulla storia. La mano, però, è la stessa, è sempre quella felice di Andrić, uno scrittore moderno, creatore di uno stile del tutto originale, capace di una sottilissima indagine sulla psicologia e la condizione umana. Fra i protagonisti di uno dei racconti, unico vero “rappresentante del passato”, c’è il poeta Byron. Il lettore di questo libro può incontrare qui molteplici variazioni su un tema principale: la donna, nella sua complessità psicologica, erotica e sociale, nel rapporto con se stessa, con l’uomo e con la società. Nessuno scrittore jugoslavo ha mai dedicato tale attenzione alle donne come protagoniste della narrativa, né tanto meno creato una tale gamma di irripetibili personaggi femminili, molti dei quali ben noti al lettore italiano. In questa raccolta Andrić mostra tutta la sua bravura nel cogliere, grazie a minimi e insignificanti dettagli, la piena intensità di micromondi sociali e familiari, spesso invisibili, situati dietro alle mura domestiche o nel silenzio di chi, senza l'attenzione dell’autore, è destinato a rimanere avvolto dall’oblio.
Il resto? Il resto a chi leggerà questo libro, di eccellente finezza narrativa.
P.S. Usciti dalla “Minerva”, sulla via San Nicolò, un amico triestino mi chiede cosa penso della causa che oppone la Fondazione “Ivo Andrić” di Belgrado e la Matica Hrvatska di Sarajevo, sui diritti d’autore relativi alla pubblicazione delle quattro opere di Andrić pubblicate nell’edizione “100 libri della letteratura croata bosniaco-erzegovese”. Non gli ho dato nessuna risposta. Cosa potrebbe rispondere uno come me, che da anni si sente uno scrittore di nessuno, incluse tutte le patrie sorte sulle rovine di un ex Paese, su Andrić, che come letterato nel senso vero è più presente nel mondo che a casa sua? Forse ripetere il luogo comune sul profeta e il suo villaggio? Meglio, credevo, prendere un bicchiere di bianco secco con Alice, Valerio e i non molti presenti alla presentazione. In realtà non mi lamento mai di occasioni del genere: meglio trenta attenti, che trecento a sbadigliare. Trieste, soprattutto la comunità serba, non ha perdonato le mie verità letterarie (e altre) sulla Bosnia. Che cosa potrei dire, non solo alla maggioranza dei serbi triestini, a distanza di due decenni da Sarajevo? Che al mio peccato principale, lo scritto sull’incendio della Biblioteca di Sarajevo, non potrei togliere nulla neppure oggi. Anzi, potrei solo aggiungere qualcosa. Incluso il fatto che Andrić, come benefattore, aveva regalato l’intera somma del Premio Nobel al Fondo bibliotecario della Bosnia Erzegovina. L’aveva fatto, credo, coltivando speranze coraggiose, quelle che alla Bosnia attuale servirebbero come sale e pane.