Faris Arapović è morto lo scorso 18 settembre, batterista giovanissimo dei Zabranjeno Pušenje e poi nel 1990 cofondatore della band Sikter che nel 1995 aprì a San Siro il concerto di Vasco Rossi “Il rock sotto l’assedio”. Assieme ai membri della Sikter, fu uno dei protagonisti del documentario Raja Sarajevo girato nel 1994 dal regista Erik Gandini
Riconobbi Faris molto tempo prima di conoscerlo. Mi colpirono gli occhiali da vista grandi che portava. Erano identici a quelli di un ragazzo che compariva in un documentario vecchio di quattordici anni.
Il documentario, il primo girato da Erik Gandini, si intitola “Raja Sarajevo” [Raja Sarajevo sta a indicare un’appartenenza specifica a Sarajevo, a un gruppo/comunità molto legato alla città e che condivide un comune modus vivendi, ndr] e racconta la vita quotidiana dei membri di una band, i Sikter, che resistettero all’assedio della loro città suonando. Resistenza culturale. Molto poco raccontata all’estero, molto presente nella realtà di allora. Fondamentale per non impazzire, raccontano i sopravvissuti.
Faris, testimone di quel tempo, usciva dal VHS e appariva nel presente in una trascinante serata del lunedì a base di musica sevdah, Sarajevsko pivo e rakija. Era brizzolato, più elegante e forse aveva preso qualche chilo. Gli occhiali sembravano gli stessi.
Stava in piedi, nell’angolo in cui il bancone terminava contro il muro. Una posizione privilegiata perché permetteva di appoggiarsi, ma soprattutto, di avere completa visuale sulla porta e sulla sala. Chiacchierava, scherzava, aveva la stessa gestualità del ragazzo nel video di Gandini.
In qualche modo mi sembrava di conoscerlo. Mi aveva già raccontato tanto della storia della sua città. Avrei voluto salutarlo solo per ringraziarlo di questo. Già ma mica si può andare da uno, nel pieno di una serata sevdah al Kino Bosna, con tutto ciò che questo comporta, e salutarlo perché lo conosci in videocassetta… Non si può. Neanche se il documentario parla di videolettere. Non si può e non si deve. Non è giusto far irrompere il passato nel quotidiano senza consenso.
Passarono molti lunedì, il batterista Punk era sempre lì, ospite fisso della serata di musica Sevdah, ben saldo nella sua postazione. Anche io diventai ospite fisso perché il Kino era davvero un bel posto. Poi mi trasferii a Srebrenica e non andai più al Kino per molto tempo. Là era difficile riconoscere il passare del tempo e non sentirsi dentro un nastro vecchio di dieci anni.
Tornato a Sarajevo ricominciai a frequentare Kino Bosna – Kino 1 Maj con una grandissima sete di normalità che solo le serate del lunedì e di tutti gli altri giorni della settimana riuscivano a placare. Diventai ospite fisso, cominciai a fare qualche piccolo lavoro per Sena che cercava di migliorare le condizioni di chi stava dietro al bancone. Una sera finalmente consegnai la pedana in legno che mi era stata commissionata per consentire a chi lavorava di sentirsi qualche centimetro più in alto degli avventori e, soprattutto, di non gelarsi i piedi sul pavimento di marmo.
Tra i pochi presenti scaturì una profonda disquisizione sull’importanza della pedana, sul rischio che i tappi delle birre stappate a raffica nelle serate di punta andassero a conficcarvisi dentro, sulla necessità di riverniciare di nero opaco il piano del bancone e sulla terribile luce che proveniva dai nuovi frigoriferi delle birre ai quali non erano stati ancora oscurati i neon. Faris era uno strenuo sostenitore della necessità di coprirli col nastro isolante e, nell’attesa di fare il lavoro, di spegnerli. Meglio la birra calda che la luce negli occhi.
Alla fine di questa lunga chiacchiera, si presentò. Mi presentai. Continuammo chiacchierare per un po’ sui lavori da fare. Mi disse che lui era un artigiano, un calzolaio, era il lavoro di suo padre. Mi mostrò le scarpe che indossava che aveva realizzato lui stesso, che le scarpe sono importanti e nessuna scarpa industriale può essere paragonata a una scarpa realizzata su misura. Pur non avendo mai indossato scarpe artigianali, mi trovava perfettamente d’accordo.
Quando l’argomento scivolò su come si vivesse nella cittadina da cui mi ero appena trasferito, capii che finalmente potevo chiedergli del documentario. Fu stupito perché non ne sentiva parlare da anni, ma mi confermò che sì era lui. Cominciò a raccontarmi della sua carriera musicale di batterista, giovanissimo con gli Zabranjeno Pušenje , poi cofondatore dei Sikter. Mi descrisse i retroscena di quegli anni di euforia e successi. Poi raccontò dei concerti dentro e fuori Sarajevo. Prima durante e dopo l’assedio. Mi parlò di quando nel 1995 aprirono il concerto di Vasco Rossi a San Siro e del tour che ne seguì. A quel punto Faris parlava italiano.
Da quella sera, ci incontrammo spesso, tutte le volte che andavo al Kino. Non parlammo mai più di Raja Sarajevo, ma mi capitò spesso di risentire la storia di San Siro, tanto che, con la sua compiacenza, cominciai a presentarlo a quegli italiani che suscitavano il suo interesse come “il batterista che ha suonato con Vasco”.
Una sera rilasciò una lunga intervista ripercorrendo la sua vita. Per l’occasione ci sedemmo ai tavoli. Fu una serata molto intensa che, sono certo, è rimasta nel ricordo di chi vi partecipò. Provai più volte a scattargli una foto. Veniva sempre mosso. Troppo buio, troppo lunghi i tempi per non usare il flash, troppo coinvolgente il racconto. Non stava fermo un attimo. Riuscii solo in un momento di pausa, mentre ricopiava un numero di cellulare.
Vorrei ricordarlo così.