Il regista bosniaco, vincitore dell'Oscar per No man's land, parla de L'inferno, il suo ultimo film, di cosa lo ha ispirato, del rapporto con la modernità ed i suoi paradossi. Senza dimenticare quelli della Bosnia Erzegovina. Nostra traduzione
Di Ahmed Buric, DANI, 2 dicembre 2005 (tit. orig. Ne znam otkud ljudima u Bosni strpljenje da toliko vremena žive pod idiotskom vlašću)
Traduzione per Osservatorio sui Balcani: IvanaTelebak
Quando camminate lungo una qualsiasi via del centro di Parigi, da tutte le parti vi guardano i visi di Emmanuelle Beart, Carin Viard e Mairie Gillain, che nel film Pakao (L'enfer) sono tre sorelle dalle vite completamente distrutte. L'Inferno è completamente diverso da No man's land. E' un dramma classicistico che induce la critica ad amare senza riserve o a criticare Tanovic per non aver continuato lungo la via del genere del dramma d'azione grazie al quale ha ricevuto, forse, tutti i premi che poteva ricevere.
Lo stesso Danis non dà tanto significato all'enfasi creatasi per il film. La prima visione a Parigi si è tenuta al cinema MK2, lontano dai tappeti rossi e dal lussuoso Champs D'Ellysses. Danis è il registra che tutti gli attori durante le interviste portano alle stelle, e l'unica somiglianza fra il ragazzo che sognava il suo primo film e il co-produttore che dispone di un grosso budget per il suo progetto, è che in entrambi i casi si tratta di un uomo che sta coi piedi per terra. Tanovic non vuole prevedere la vita e il destino di questi film costato circa 6 milioni di euro, ma non nasconde il compiacimento per il complimento che qualche giorno fa ha ricevuto a Salonicco dal direttore della fotografia più importante del mondo, Vittorio Storar, collaboratore di Francis Ford Coppola, Bernardo Bertolucci, Martin Scorsese... Storaro era il presidente della giuria e dopo aver visto il film, si è avvicinato a Tanovic e gli ha detto: " In questo momento tu sei l'unico talento che vedo nell'orizzonte del film mondiale, questo film è ciò che una volta definivamo grande cinematografia!"
DANI: No man's land è un film in cui la regia serviva da "giustificazione" del testo, si potrebbe dire che in Inferno sia il contrario? Che il testo di Piasewitz e di Kieslowski sono stati messi a servizio della regia di Danis Tanovic?
TANOVIC: La storia detta sempre la regia. Sarebbe sbagliato accedere a qualsiasi testo nello stesso modo, e questo è qualcosa a cui non penso più, esiste un istinto che mi guida in quel senso. In questo film la regia è più presente che in No man's land ed è stato più difficile fare la regia perché dovevi fare qualcosa di interessante all'interno di quel dato spazio e situazione, e mi bacchettavo sempre sulle dita per cercare di non uscire dalla cornice di qualche "renaissance", per non andare in cerca dei dettagli. Nell'Inferno è stato completamente diverso, mi sono impegnato per mettere tutto in movimento. Si tratta di principi diversi. Quando cinque anni fa lessi Inferno, non mi aveva attirato, non avevo visto un possibile mio film in quel testo, ma poi ho cambiato idea e dopo la lettura sono rimasto sveglio tutta la notte. Ho pensato che la cosa più difficile nella natura umana è il peso che portiamo, non sapendo che è dentro di noi, fino al momento in cui non ci incontriamo con quel momento del passato. L'inferno lo creiamo noi stessi, finché non ci incontriamo veramente con quel momento.
DANI: Si tratta di una sceneggiatura scritta una ventina di anni fa, quanto bisogno c'era di lavorarci per adattarla ai tempi odierni?
TANOVIC: Il succo della storia, diciamo, è rimasto lo stesso, nonostante abbia fatto alcuni interventi. Una delle cose che ho cambiato è, per esempio la frase dove un personaggio dice: "Sono terribili questi attacchi terroristici." Nel film lui invece afferma: "E' strano questo, quando loro ammazzano i nostri civili, noi lo chiamiamo terrorismo, quando noi uccidiamo i loro, allora si tratta di effetti collaterali."
DANI: In questo film, prevalentemente francese, ci sono tante citazioni della nostra cultura - vengono nominate brani del romanzo La fortezza di Mesa Selimovic, viene citato anche Il divano orientale di Dzevad Karahasan. Il film, si potrebbe dire, è allo stesso tempo classico e una dedica al classicismo?
TANOVIC: Sì, e pare che sia un difetto quando si tratta di me. Ma, non bado a ciò. In qualche senso il modernismo mi ammazza, non posso identificarmi con la maggior parte dell'arte odierna, con il continuo sottolineare che niente ha più senso. Siccome la sceneggiatura inizia con la scena dove il personaggio legge una poesia, la cosa più logica era di scegliere quella di Mesa Selimovic da La fortezza, perché parla della vita nel modo in cui pensa il personaggio del film. E' logico che vado a pescare dove sento mi si è più vicini. Questo accade anche con Kieslowski, che viene dall'Est. Tutto ciò probabilmente mi è più vicino che non un Elliot o Whitman, per esempio. Spesso dico di aver imparato tanto da Karahasan, era il mio professore, ed è del tutto naturale fare un omaggio anche al suo lavoro. Il suo messaggio, che l'uomo non ha alcuna responsabilità finché non ha scritto la prima parola del suo testo, è una descrizione precisa del lavoro artistico, almeno per quel che mi riguarda. Ecco, tutta Parigi è coperta di locandine e vorrei che milioni di persone vedano questo film. Ma anche se dovessero venire in 50.000, non è molto importante. L'industria odierna dei film si potrebbe spiegare con un concetto che gli americani chiamano running numbers, e secondo questo parametro i film che non costano molto sono i film di più grande successo, e incassano un sacco di soldi. Ma nelle vesti di regista ciò non dovrebbe interessare. Noi ci occupiamo della sostanza delle cose e non di fare i soldi. Per quanto riguarda la citazione, non c'è nulla di male nel rendere popolare la nostra letteratura ed è un bene che io sia nella posizione di poterlo farle. La cosa più difficile è mettere se stessi in una qualche cornice reale ed essere soddisfatti della possibilità di poter fare ciò che più piace. Adesso ho speso più di cinque milioni di euro - e non 55 milioni come alcuni nostri media amano scrivere - per girare qualcosa che alla fine non sono che piccole foto su un nastro.
DANI: E' chiaro, noi bosniaci spesso siamo gente immodesta e irreale. In che modo Danis Tanovic oggi, 11 anni dopo essersene andato via, vede il paese dove è nato?
TANOVIC: Per me non è difficile, è difficile per chi vive a Kakanj o a Zenica, per chi va in miniera e scava. Oggi la Bosnia ha dei problemi per i quali non vedo soluzione. Ogni sabato mattina mi fa male lo stomaco dopo aver letto i nostri giornali. Dalle persone che guidano questo paese riceviamo solo delusioni, e il fatto che la gente abbia pazienza, la pazienza di vivere là a quelle condizioni, a me sembra già un fenomeno. Forse sono pazzo, ma ho la sensazione che se io dovessi vivere là, prenderei un fucile e andrei di office in office per accelerare un po' questi processi e per controllare cosa, in realtà, stanno facendo. Ho la sensazione che fanno di tutto per far scomparire le persone. Bisogna fare i conti con quella gentaglia, non credo che ci sia altro modo. Per quanto riguarda la comunità internazionale: loro non sono la causa del caos, ma sono dei catalizzatori. La maggior parte di questi idioti che a noi propongono soluzioni, nei loro paesi per le stesse cose finirebbero in carcere a tempo indeterminato. E se ci penso meglio, sempre più spesso giungo alla conclusione che loro non sono venuti qua per fermare la guerra, ma per aiutarci ad iniziare la guerra.
DANI: A Danis Tanovic manca Sarajevo?
TANOVIC: L'altro giorno passeggiavo per San Paolo, un viale dove non riconosco nulla, ma mi era piaciuta l'atmosfera, mentre l'ipod suonava "Sve ce to, o mila moja, prekriti ruzmarin, snjegovi i sas" ("tutto ciò mia cara coprirà il rosmarino la neve e il giunco di palude" - canzone dei Bijelo Dugme, ndt.). Una volta che non vivi più nella tua città, allora ti trovi bene dovunque, diventi cittadino del mondo e rimani legato alle persone, perché viviamo in un mondo dove tutto, e quindi anche le città, iniziano ad assomigliare, l'una all'altra. Dall'altra parte, ho una strana sensazione: quando vengo a Sarajevo, anche lì mi sento straniero, e sono straniero anche qua, ma sono a casa sia qua che là, è strano. Ma credo che per un artista questa dualità sia l'unica posizione possibile. L'artista deve avere un punto di vista che la gente intorno a lui non ha. La mia arte viene creata dal conflitto, dal problema, non mi interessa qualcosa dove questo non c'è e non la chiamo arte.
DANI: Nel film Inferno, fra altro, si parla del mondo senza Dio, del mondo dove è importante solo un'unica comparsa, del mondo che disprezza tutto tranne i valori materiali ...
TANOVIC: Non è vero che viviamo in un mondo senza Dio, nel nostro mondo, Dio invece di essere l'etica è il denaro. Quando mi chiedono perché non sono andato negli Stati Uniti, non ho più la forza nemmeno di rispondere. Mi ricordo la scena del film di Matthieu Kassowitz L'odio dove viene detto che ciò che fa male non è la caduta, ma la fine della caduta, l'atterraggio, l'urto contro la terra. Ho la sensazione che noi in Bosnia stiamo cadendo e che ciò duri in eterno, e dall'altra parte questo non dà più fastidio a nessuno. Di settimana in settimana si scrive che qualcuno ha rubato enormi quantità di denaro, e la gente alza le spalle. Noi stiamo partorendo da dieci anni, e non abbiamo combinato nulla, ho la sensazione che darei tutto alla persona che fosse in grado di fare un taglio cesareo, alla persona pronta a costruire l'autostrada per non dipendere più dai fenomeni naturali, nella misura in cui tutto ciò al resto del mondo suona profondamente ridicolo. Quelle persone che sono sedute là, nel Parlamento e nella Presidenza, e che pare debbano mettersi d'accordo, non possono mettersi d'accordo, perché non hanno gli stessi interessi. Mi piacerebbe vedere un uomo che ha una visione per tutti i cittadini della BiH, allora ci penserei a come aiutarlo, se dedicare parte del mio tempo a lui. Ma per mia fortuna, continuerò a fare film.
I disordini di Parigi
DANI: Alcune settimane fa sembrava che in Francia potesse iniziare uno scontro molto serio, le periferie si erano "accese" e mancava poco che tutto "bruciasse".
TANOVIC: Da una parte, qua c'è un gruppo di persone che ha completamente ragione, se in questo paese sei nero o sei arabo, non hai molte possibilità di riuscita. Dall'altra parte, queste persone ricevono un aiuto sociale non alto, ma nessuno di loro patisce la fame. Il mio problema con queste proteste è che alla base hanno un'ira che non ha alcuna articolazione, non è sorretta da nessuna idea. Quando nel 1968 bruciava Parigi, la gente aveva un'idea sul cambiamento, era consapevole di fare qualcosa di grande. Adesso non ha alcuna idea su dove andare. Viviamo in un mondo in cui il capitalismo liberista si presenta come l'unica soluzione, in un mondo in cui è possibile che un'azienda che realizza miliardi di profitto lasci duemila persone sulla strada. Come ho avuto modo di scrivere in uno sceneggiato che sto preparando, sembra che il muro di Berlino sia caduto dalla parte sbagliata. La globalizzazione è solo una buona scusa per rendere meno cara la produzione che dell'Occidente ed è difficile convincermi che vivo in una società ideale, specialmente se mi ricordo che una quindicina di anni fa avevo un passaporto con il quale si poteva andare ovunque. Non era quella la globalizzazione?