Con l'avvio del nuovo anno scolastico sono riprese in Bosnia Erzegovina le polemiche sulla lingua curricolare utilizzata per l'insegnamento alla minoranza bosniaco musulmana in Republika Srpska. Il caso di Nova Kasaba

16/09/2015 -  Rodolfo Toè Sarajevo

Questa volta il problema riguarda la lingua, o meglio la sua definizione. Lo scorso giugno, gli studenti bosgnacchi (bosniaco musulmani) della Republika Srpska (RS) si sono ritrovati tra le mani una pagella in cui al posto della "lingua bosniaca" veniva indicato come insegnamento quello della "lingua bosgnacca". Una piccola differenza, non priva però di una certa malizia: parlare di "lingua bosgnacca", infatti, significa in un certo senso negare l'esistenza di un territorio culturale e linguistico comune a tutta la Bosnia Erzegovina per limitarlo a un solo gruppo etnico, quello appunto bosgnacco e musulmano.

Un distinguo "concorde alla Costituzione della Republika Srpska", si difendono le autorità di Banja Luka. La carta costituzionale dell'entità, infatti, indica come ufficiali "la lingua del popolo serbo, del popolo bosgnacco e del popolo croato", evitando con questa formulazione di indicarne il nome proprio. "Una negazione della Costituzione della Bosnia Erzegovina", replicano i bosgnacchi tornati a vivere nella RS dopo la guerra e le autorità di Sarajevo.

La bega sembra essere marginale ma purtroppo, in Bosnia Erzegovina, sono spesso i dettagli a generare le diatribe più feroci. Il discorso sull'esistenza della lingua "bosniaca" ha immediatamente assunto una dimensione politica con contorni a tratti piuttosto sinistri. Se per Milorad Dodik, presidente della RS, "non esiste una lingua bosniaca, perché su una tale lingua dovrebbero accordarsi i tre popoli costitutivi (serbi, bosgnacchi e croati)", sul tema è arrivata persino a scomodarsi l'Accademia delle Scienze e delle Arti di Belgrado, nota per il famoso Memorandum del 1986 considerato come uno dei documenti fondanti del nazionalismo che poi avrebbe portato alla guerra. "La lingua bosniaca non esiste – ha sostenuto l'Accademia di Belgrado - perché non esiste nemmeno un popolo bosniaco", un'esternazione che ha finito per attirare su di sé anche le immediate critiche di quei bosgnacchi che vivono in Serbia, soprattutto nel Sangiaccato. "Nessuno dovrebbe decidere come chiamare la lingua parlata da altri popoli", ha chiosato infatti il Muftì di Novi Pazar, Muamer Zukorlić, che ha invitato le autorità di Belgrado a "non immischiarsi negli affari dei Paesi vicini".

Boicottaggio?

La questione della lingua riporta in luce, all'inizio del nuovo anno scolastico, il tema della discriminazione ai danni delle comunità di ritornanti bosgnacchi nell'entità serba della Bosnia Erzegovina, un tema già portato all'attenzione dell'opinione pubblica nel 2013. All'epoca erano state le famiglie musulmane di svariate località in Republika Srpska, ma soprattutto del villaggio di Konjević Polje, a decidere di boicottare le lezioni e di protestare a Sarajevo per rivendicare il proprio diritto a ricevere un'educazione conforme al proprio "curriculum nazionale".

Le stesse famiglie, alla fine di agosto, hanno deciso di rivolgersi in una lettera aperta al capo della comunità islamica, Husein Kavazović, e al membro bosgnacco della presidenza, Bakir Izetbegović. "Grazie per il contributo che avete dato all'educazione dei nostri figli, ai quali quotidianamente vengono negati i diritti riconosciuti dalla Convenzione sui diritti dei minori e il diritto all'educazione", si può leggere nella missiva, che è stata ripubblicata da tutti i principali giornali di Sarajevo . "Apprezziamo il contributo che avete dato per proteggere la dignità del popolo bosgnacco e vi invitiamo ora a partecipare a questa battaglia comune, che noi genitori non intendiamo abbandonare".

Questa "battaglia", per ora, si sta traducendo prima di tutto nel prosieguo del boicottaggio iniziato due anni fa da più istituti. A Vrbanjci, vicino alla città di Kotor Varoš, circa 70 alunni continueranno a frequentare delle lezioni alternative invece di recarsi alla scuola Sveti Sava, nella quale non hanno diritto al proprio "curriculum nazionale". A Kotorsko, qualche chilometro a nord di Doboj, il boicottaggio è stato invocato anche dai familiari di 120 alunni bosgnacchi della scuola Milan Rakić, che ne ospita in tutto 150. Il braccio di ferro è particolarmente grave anche nella regione di Zvornik, dove le famiglie di circa cinquecento alunni hanno deciso di boicottare le lezioni chiedendo all'Alto rappresentante internazionale di garantire il rispetto dei loro diritti.

Stesso discorso vale per i bambini di Konjević Polje, che per il secondo anno frequenteranno un centro educativo istituito a Nova Kasaba "disertando" la propria scuola elementare. "Al momento", spiega a Osservatorio Muhizin Omerović, il rappresentante dei genitori, "non esiste per noi un'alternativa a questo centro. Se non dovesse funzionare", ammonisce Omerović, "siamo pronti a tenere i nostri figli a casa. Di tornare alla scuola elementare di Konjević Polje non se ne parla - continueremo il boicottaggio a oltranza".

Il centro di Nova Kasaba: una segregazione che fa comodo a tutti

Il centro educativo di Nova Kasaba è una scuola organizzata in via eccezionale dagli insegnanti del Cantone di Sarajevo, in uno spazio messo a disposizione dalla Comunità islamica locale, e finanziata dal ministero dell'Istruzione della Federacija, l'altra entità del Paese. "Gli insegnanti vengono tutti da Sarajevo", spiega a Osservatorio la coordinatrice del centro, Nihada Čolić, "perché volevamo evitare di assumere personale proveniente dalla regione della Drina. Insegnanti locali sarebbero stati inevitabilmente più radicalizzati, per così dire, e questo non avrebbe sicuramente giovato ai bambini".

Čolić nega che le risorse e i materiali siano stati messi a disposizione da donatori privati, nonostante parte dei fondi siano arrivati dalla diaspora australiana, dal Fondo "Bošnjaci" (un'organizzazione non governativa che si occupa di sostenere l'educazione dei figli dei ritornanti bosgnacchi) e nonostante il tema fosse esplicitamente al centro di un incontro (nonché di un memorandum sull'educazione tra Bosnia Erzegovina e Turchia, firmato in occasione della visita del Presidente Erdogan lo scorso maggio) tra il ministro degli Affari Civili della Federacija, Adil Osmanović, e l'ambasciatore turco in Bosnia Erzegovina, Chiad Erginay.

Le basi legali su cui funziona il centro sono, a ogni modo, piuttosto ambigue. "Da un punto di vista giuridico, la cosa non è particolarmente problematica", si schermisce ai nostri microfoni Nedim Ademović, l'avvocato di Sarajevo che ha rappresentato le famiglie di Konjević Polje in passato. "I bambini risultano a tutti gli effetti iscritti nel Cantone di Sarajevo, anche se poi usufruiscono del servizio scolastico a Nova Kasaba, in una località più vicina alle loro case".

Ademović nel corso degli ultimi anni ha cercato di portare il caso davanti ai tribunali della Republika Srpska, "ma ci hanno sempre ostruito", sostiene. Lo scorso maggio, la Corte costituzionale della Bosnia Erzegovina ha sancito che le famiglie dei ritornanti sono in effetti vittime di discriminazione. Secondo l'opinione dell'avvocato, questa è stata rilevata sulla base "delle convenzioni internazionali che il Paese ha firmato, nonché della Costituzione del Paese, la quale protegge gli interessi vitali dei popoli costitutivi e dei ritornati (attraverso il famoso Annesso 7), incluso quello ad ottenere un'istruzione nella propria lingua materna".

Ciononostante, Ademović conferma che l'unica legge regolante il problema, in assenza di un ministero dell'Istruzione a livello statale, nel caso specifico di Konjević Polje, è rappresentata dall'accordo intergovernativo firmato nel 2002 tra Banja Luka e Sarajevo, che prevede il diritto delle minoranze a ricevere l'istruzione secondo il proprio curriculum nazionale nelle classi dove il numero di alunni sia superiore a 18. Nel caso specifico di queste famiglie, come già scrivevamo nel 2013, non ci sono abbastanza bambini bosgnacchi.

Apartheid scolastico

Di fronte al muro contro muro tra le famiglie e le autorità di Banja Luka ("ma con l'attuale ministro dell'Istruzione della RS il rapporto è notevolmente migliorato", assicura Omerović) in Bosnia Erzegovina la soluzione più semplice è stata, ancora una volta, la strada dell'apartheid educativo. Come già detto, le basi legali per il funzionamento del centro non sono chiare. Da una parte, i giornali dell'entità serba hanno apertamente accusato l'Istituto di violare la legge sull'educazione della Republika Srpska. In effetti, è difficile capire quale possa essere la base legale per il suo funzionamento, in assenza di un ministero dell'Istruzione a livello statale e di un qualsiasi accordo tra i ministeri dell'Istruzione a livello delle due entità.

Gli esperti internazionali interpellati da Osservatorio non hanno saputo rispondere alle nostre domande e i diretti interessati, compresa la direttrice del Centro educativo, hanno preferito glissare sull'argomento. L'unica giustificazione è giunta da Ademović, il quale però non chiarisce un punto fondamentale, ovvero se l'escamotage studiato dalle autorità della Federacija abbia l'esplicito placet delle autorità della Republika Srpska, nel cui territorio gli scolari risultano a ogni modo residenti.

L'idea di organizzare un Centro educativo appare più come una forma di segregazione silenziosa che come un tentativo reale di fare rispettare i diritti delle minoranze bosgnacche in RS. La morale, tristemente, è che questa divisione soddisfa tutti: le autorità di Banja Luka possono evitare di affrontare il problema alla radice. Le associazioni bosgnacche, oltre che i partiti identitari, possono continuare a fare cardine sulle discriminazioni subite per mobilitare il proprio elettorato. "L'unica soluzione ai problemi dei ritornanti è aprire in tutta l'entità dei centri come quello di Nova Kasaba", è stata la bellicosa dichiarazione di Emir Suljagić (Fronte Democratico, attuale viceministro della Difesa) che, prima di dare le dimissioni "per motivi di salute" qualche giorno prima di candidarsi come membro bosgnacco alla Presidenza del paese, aveva ricoperto il ruolo di coordinatore dell'ong Prvi Mart, una delle principali voci per i diritti dei ritornanti e delle vittime della pulizia etnica negli anni novanta.

Il bilancio di questo settembre 2015 è sconfortante: vent'anni dopo Dayton, la via più semplice per la convivenza in Bosnia Erzegovina sembra essere ancora quella della separazione.