Ivo Andrić

Ivo Andrić

L'editore Cosmo Iannone di Isernia recentemente ha pubblicato “La casa solitaria” - traduzione di Alice Parmeggiani - raccolta di racconti di Ivo Andrić finora inediti in Italia. Il commento del curatore dell'opera

09/01/2017 -  Božidar Stanišić

Il libro di racconti di Andrić La casa solitaria fu pubblicato per la prima volta nel 1976, nell’edizione postuma delle sue opere complete in sedici tomi. A quel tempo la critica considerò questa raccolta soprattutto come un testamento di Andrić, giudizio mantenuto in gran parte fino a oggi.

Basandosi sul fatto che l’opera fu ritrovata nel lascito dell’autore, nelle loro recensioni a La casa solitaria i critici, in modo affrettato, hanno individuato nella funzione testamentaria anche la ragione fondamentale della nascita della raccolta. Le loro argomentazioni però erano in gran parte insufficienti e prive di analisi approfondite. Quest’opera letteraria di Andrić è semanticamente policentrica, tanto che ogni riduzione de La casa solitaria a un suo “ultimo e finale testamento” rappresenterebbe, come minimo, una limitazione nei rispetti non solo di questa, ma anche di tutte le altre sue opere.

È noto che Andrić replicava raramente o in modo assolutamente sobrio alla critica sui suoi romanzi e racconti. Solo verso la fine della sua vita egli si espresse sull’argomento in modo più aperto. Come Goethe – dalle cui opere non si separò mai – Andrić non attribuiva particolare importanza alla critica. Semplicemente, era uno dei rari autori del ventesimo secolo che si aspettavano di apprendere qualcosa da recensioni e saggi sulla propria opera, e così, quando non vi trovava una visione più approfondita o un messaggio rivolto all’autore, li riteneva superflui. “Se vuole sentire la mia opinione, le dirò: la critica è significativa, ma solo quella che appare cinquant’anni dopo la nostra morte. Il libro che è sostenuto dal futuro – è riuscito!”

La casa dei racconti

La casa solitaria

La casa solitaria

Ma ritorniamo a questo libro. Nell’Introduzione, che è un testo complementare o, più precisamente, una narrazione che fa da cornice agli undici racconti de La casa solitaria, l’autore spiega le motivazioni dell’opera. All’inizio di quel suo primo testo Andrić ci appare nella veste di un architetto, un urbanista, un topografo preciso fino alla pedanteria.

È talmente convincente nella sua descrizione che l’aspetto esterno e interno della casa (sappiamo sia dove questa si trova, a Sarajevo, nel quartiere Alifakovac, sia quando fu edificata, nel 1887, ossia al limite fra il periodo ottomano e quello asburgico in Bosnia) potrebbe essere utilizzato da un abile disegnatore. È lo stesso metodo descrittivo ben noto anche al lettore italiano dei suoi più famosi romanzi. Ci sembra che, basandosi su questa chiara descrizione, un tale disegnatore realizzerebbe facilmente l’immagine di quella casa nata nello scontro di due epoche, un edificio al cui interno, malgrado il già citato scontro e il duplice carattere, si sono armonizzati a loro modo lampadari viennesi di cristallo e ottone, stufe bosniache di terracotta e tappeti di produzione casalinga. Non credo sia necessario rammentare all’attento lettore dell’Introduzione il significato del rapporto freddo (forestiero) - caldo (casalingo), nel quale Andrić vede anche il raccordo fra l’arbitraria mescolanza di stili diversi e una calda atmosfera abitativa, e ancor meno il fatto che nella sua opera gli scontri di epoche determinano anche la visione del mondo dei suoi personaggi.

Gli undici visitatori della casa nell’Alifakovac

Sobriamente, l’autore dei racconti annuncia che in quest’opera si tratterà solo di alcuni dei ricordi di quella casa di Sarajevo in cui ha trascorso un’estate. In realtà, Andrić non tralascia l’occasione di presentarci un’altra sua variazione sul tema dell’artista e del mondo, in cui si sa bene che cosa sia l’attività visibile e pragmatica di un uomo con le sue “generalità” ben definite e con uno scopo più o meno definito davanti a sé, mentre solo superficialmente si intuiscono il ruolo del racconto, le motivazioni della sua nascita e il dramma del suo autore.

Il mestiere degli “altri” è chiaro quanto la loro giornata lavorativa; in quella casa di Alifakovac il mestiere dello scrittore, così simile all’attività di un cacciatore che gira la testa dall’uccello che sta puntando, ma che in realtà non perde di vista per un attimo, consiste nell’incontrare notturni sogni informi e senza nome. E un mattino allo scrittore sembra che quei sogni gli abbiano estratto tutte le interiora e bevuto tutto il sangue. Così, all’inizio di ogni incontro i personaggi inaspettatamente resuscitano, raccontano la propria storia e alla fine, come Andrić ci dice nell’ultimo racconto, come spettri spariscono. Ma ci sono anche altre mattine, quelle in cui l’autore non è alla ricerca del filo, ieri interrotto, del racconto, ma sono i racconti stessi a fare la posta allo scrittore. Allora intorno a lui si affollano personaggi di racconti e brani di loro conversazioni, riflessioni e azioni, con un gran numero di particolari ben definiti. Sono gli undici protagonisti di questo libro di racconti, tutti diversi fra loro, e credo sia meglio che siano scoperti dai lettori di quest’opera che premia la nostra curiosità.

La casa solitaria - europea

Prima di questa edizione in italiano, La casa solitaria è stata tradotta in ceco, slovacco, sloveno, francese e, da poco, in spagnolo; in inglese sono stati tradotti tre testi – Introduzione, Alì-pascià, Il racconto. La sproporzione fra il numero di traduzioni dei romanzi più famosi di Andrić – Il ponte sulla Drina, La cronaca di Travnik, La signorina, La corte del Diavolo – e quello delle raccolte di racconti non è evidente solo in questo caso. Semplicemente, la grandezza e la ricezione dei romanzi di Andrić nel mondo ha contribuito a formare un particolare cono d’ombra sul “resto” della sua creazione, e quindi sui suoi racconti.

A questo fatto aggiungo che le edizioni de La casa solitaria in altre lingue sono accompagnate dagli ormai consueti concetti e collegamenti: Bosnia, bosniaco, Balcani, balcanico, Oriente, orientale. Con lo stesso, ormai invalso, tipo di ricezione con cui - in modo prevenuto? - per inconscio desiderio di curatori ed editori - così siamo al sicuro! - si dovrebbe “proteggere” il lettore di questa e delle altre opere di Andrić! E da che cosa? Soprattutto dall’idea di un significato più universale della sua creazione letteraria.

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Il fondamento del suo pensiero e la sua capacità di concentrarsi sono spariti. Il suo villaggio, Pribilovići, non c’è più. Sono rimaste solo le tracce del rogo. Non appena sono bruciate fino alle fondamenta quella trentina di case che costituivano il loro paese, nello stesso istante dentro di lei si è alzato, da solo, un nuovo Pribilovići: nero, pesante e morto, le giace in petto e non le permette di respirare profondamente, mentre la gente, la sua gente, quelli che non sono stati massacrati, sono stati ridotti in schiavitù e si sono dispersi per il mondo. E lei stessa è una schiava, e solo una schiava. Così vive e solo così può vedere il mondo e la gente attorno a lei, poiché l’immagine del mondo in lei si è oscurata e si è ribaltata. Schiavo è l’uomo, schiavi sono la donna e il bambino, perché fin dalla nascita sono sottomessi a qualcuno e a qualcosa. Schiavo è l’albero, schiavi la pietra e il cielo con le nuvole e il sole e le stelle, schiava è l’acqua, e la foresta, schiavo il frumento che ora da qualche parte – là dove non è stato bruciato e calpestato – sta mettendo la spiga; neppure il suo chicco vorrebbe finire sotto la macina, ma è costretto, perché è schiavo. Idioma di schiavi è quello con cui comunicano le persone attorno a lei, indipendentemente dalla lingua che parlano, e si può tutto ridurre a due sillabe: schiavo. Schiavitù è la vita tutta intera, quella che dura e giunge al suo termine, così come quella che è ancora in germe, invisibile e inudibile. Schiavo è il sogno umano, schiavi sono il sospiro, il boccone, la lacrima e il pensiero. Gli uomini nascono per servire una vita da schiavi, e muoiono come schiavi della malattia e della morte. Ogni schiavo è sottomesso a uno schiavo, poiché non è schiavo solo chi, incatenato, viene venduto sulla piazza, ma anche colui che lo vende, come colui che lo compra. Sì, schiavo è chiunque non respira e non vive fra i suoi, a Pribilovići. Ma Pribilovići ormai da tempo non esiste più.

Pribilovići non c’è, non c’è la sua casa né la sua famiglia. E allora che non ci sia neppure lei! Quello sarebbe l’unico rimedio e la strada più breve per la salvezza. Rinunciare alla vita per la vita. Le sembra continuamente di vedere le fiamme, e assieme a loro si manifesta un desiderio: scomparire fra esse! Scomparire, ma del tutto e per sempre, così come è scomparso tutto ciò che era suo. Sì, ma come?

(frammento dal racconto La schiava, traduzione: Alice Parmeggiani)