“Marš Mira” è un percorso della durata di tre giorni e della lunghezza di circa 110 chilometri, da Nežuk a Potočari, in Bosnia orientale, su un tracciato simile a quello intrapreso da migliaia di persone in fuga da Srebrenica l’11 luglio del ’95. Il resoconto di un partecipante all'edizione di quest'anno
Nel primo pomeriggio dell’11 luglio 1995 Srebrenica fu conquistata dall’esercito della Republika Srpska (VRS), da militari del Corpo di Užice (1) (Serbia), da formazioni paramilitari serbe (tra cui gli Scorpioni) e dalla polizia della RS. L’attacco alla città era parte del piano di conquista di tutte le enclave musulmane in Bosnia orientale, conosciuto come operazione “Krivaja 95” e aveva origine dalla “direttiva 7” emessa da Radovan Karadžić nel marzo 1995. L’ordine era di: “[...] realizzare una completa separazione fisica di Srebrenica da Žepa, dunque impedire anche la singola comunicazione tra queste enclave. Attraverso un'attività bellica quotidiana, pianificata e ragionata, creare condizioni di totale insicurezza, insostenibilità e impossibilità di ulteriore permanenza e sopravvivenza degli abitanti di Srebrenica...” Sul terreno le forze furono condotte da Radoslav Krstić, a capo del Drinski Korpus dell’esercito della Repubblica Srpska sotto il comando di Ratko Mladić, presente sul campo di battaglia al momento dell’attacco e della presa della città.
Il battaglione di caschi blu olandesi (Duchbat III) di stanza a Srebrenica, e la catena di comando delle Nazioni Unite, si rivelarono incapaci di difendere l’enclave, dichiarata “zona protetta” dal Consiglio di Sicurezza ONU con la risoluzione 819 del 16 aprile 1993. L’esercito della RS aveva iniziato l’attacco all’area di Srebrenica il 3 giugno 1995, guadagnando terreno e conquistando via via tutti i “punti d’osservazione” che l’UNPROFOR aveva sul territorio. Alcuni caschi blu erano stati fatti prigionieri. La richiesta di Supporto Aereo Ravvicinato, a protezione della base UN di Potočari e dell’enclave, fu inviata al Consiglio di Sicurezza solo il 10 luglio. Il bombardamento delle postazioni dell’esercito della RS fu interrotto prima che ottenesse una qualche efficacia.
Raccontano i sopravvissuti che la tenuta dell’enclave, ormai coincidente con il centro abitato di Srebrenica, apparve da subito impossibile per l’insufficiente armamento e la carenza di munizioni in possesso della ventottesima divisione dell' esercito della Bosnia Erzegovina (Armija BiH) a difesa di Srebrenica. Si sapeva che nessun tipo di aiuto sarebbe arrivato da parte del governo e dei vertici militari di Sarajevo che, nel frattempo, avevano evacuato Naser Orić (comandante della ventottesima divisione) e altri ufficiali. Srebrenica era destinata a cadere.
La marcia verso Tuzla del 1995
Nel primo pomeriggio dell’11 luglio 1995, mentre migliaia di persone cercavano rifugio nella base ONU di Potočari, si stima che tra le 12 e le 15 mila persone, in maggioranza uomini in età di leva ma anche diverse donne e bambini, si raccolsero tra i villaggi di Sušnjari e Jaglići (a nord-ovest dell’enclave). Qui fu presa la decisione di tentare la fuga attraverso i boschi in direzione di Tuzla. Circa un terzo dei presenti aveva preso parte alla difesa della città. Stremati e male armati, si misero in testa alla colonna al fine di aprire un corridoio tra le linee nemiche attraverso cui far defluire i civili. Un conoscente mi raccontò: “Eravamo tantissimi e in pochi avevamo un’arma, pochissime le munizioni. Io avevo conservato una bomba a mano. Era per me, la tenevo agganciata alla cintura, pronto a farla detonare se mi avessero catturato. Come me molti altri. Eravamo disperati e avevamo paura. Nessuno voleva andare tra i primi perché eravamo sicuri che sarebbero morti. Alla fine partii anch’io in testa, fu la mia salvezza.”
La colonna si mosse da Srebrenica nella notte tra l’11 e il 12 luglio. I primi sopravvissuti alla marcia arrivarono a Nežuk il 16, dopo aver sfondato le linee della VRS a diverse riprese, nell’ultimo tratto grazie all’intervento di unità del secondo corpo dell'esercito della Bosnia Erzegovina giunte in aiuto da Tuzla. Il piano di aprire un corridoio sicuro per far defluire il resto dei profughi tuttavia non riuscì. L’esercito della RS attaccò le persone in fuga in diverse località facendo ampio uso di armamento pesante, organizzando imboscate e rastrellamenti. Diversi sopravvissuti raccontano di come la colonna fu bersagliata con gas velenosi che causarono allucinazioni e deliri. Nei rastrellamenti, la VRS impiegò anche mezzi e divise con insegne delle Nazioni Unite, sottratte ai caschi blu.
Nella sua testimonianza all’Aja, Dragan Obrenović, ricostruendo le operazioni di “pulizia del terreno” ha raccontato: "Relazionai a Miletić sulle dimensioni della colonna e la sua posizione e suggerii di aprire le linee e lasciarla passare. Miletić non approvò e mi disse che dovevo usare tutti i mezzi militari a disposizione per femare e distruggere la colonna come avevo avuto ordine di fare. Il generale Miletić mi disse che la colonna andava distrutta." (2)
Non esiste un bilancio ufficiale di quante persone furono uccise mentre tentavano la fuga attraverso i boschi, perchè non si sa in quanti partirono. I sopravvissuti parlano di migliaia di morti. Catturati e uccisi, gettati in fosse comuni. Feriti durante i bombardamenti e non più in grado di proseguire, incappati in zone minate, morti di fame e di sete, suicidatisi per la disperazione. Di moltissimi ancora non si è trovata traccia, nè vivi, nè morti, sono da qualche parte nel bosco. I loro resti, forse, non saranno mai ritrovati.
Marš Mira 2012
Dalla prima edizione del 2005 ad oggi, migliaia di persone hanno percorso all’inverso il tragitto della “via della salvezza” del luglio 1995. Negli anni il tracciato della marcia è stato via via modificato per renderlo praticabile dalla maggior parte di coloro che vogliano parteciparvi. Resta un’esperienza intensa dal punto di vista fisico e psicologico, che richiede una certa preparazione ma innanzi tutto una forte motivazione. Quest’anno alle migliaia di partecipanti non è stato possibile garantire la distribuzione di cibo perciò ognuno si è organizzato autonomamente, numerose cisterne d’acqua potabile si sono alternate su tutta la lunghezza del percorso. Le forze armate della BiH hanno garantito l’allestimento e la sicurezza dei campi base, nonché il trasporto di uno zaino per ciascun partecipante. Per tutto il tragitto, squadre di medici e paramedici hanno seguito la colonna prestando primo soccorso alle decine di persone che ne hanno avuto bisogno.
E’ impossibile rendere un’idea calzante di ciò che la marcia rappresenti per ogni singolo partecipante a chi non vi abbia a sua volta preso parte. Al suo interno convivono per tre giorni e tre notti persone provenienti da ogni parte della BiH e dall’estero, migliaia di uomini e donne che si mettono in cammino per ricordare le vittime di Srebrenica e giungere in tempo per la cerimonia di sepoltura dell’11 luglio. Marciano insieme sopravvissuti all’esodo del ’95, parenti delle vittime, non di rado figli che ripercorrono gli ultimi passi dei loro padri; giovani e anziani, persone che al di fuori di questa esperienza ricoprono i più disparati ruoli all’interno della società. Per tre giorni ogni partecipante è un numero dentro una massa di cartellini di accredito, un numero e un volto di cui gli altri si prendono cura e che si prende cura degli altri, singolarmente o in un gruppo organizzato, fino all’arrivo a Potočari. Alla motivazione che accomuna tutti, la richiesta di verità e giustizia per le vittime, ognuno aggiunge la sua, personalissima, a volte raccontata ai compagni di cammino, a volte tenuta per sé. Quale che sia, evolve, si fa più matura, ogni volta che si passa in prossimità di una fossa comune, tutte le volte che lo sguardo incrocia quello di una donna, più giovane degli anni che la guerra le ha inciso sul volto, che, instancabilmente, offre acqua e caffè.
(1) v. Smail Čekić, "Agresija na Republiku BiH i genocida nad Bosnjacima" Università di Sarajevo, luglio 2011
(2) v. http://www.icty.org/x/cases/obrenovic/custom4/en/facts_030520.pdf , pag. 3