Resistenza culturale, rapporto con la tradizione e nuovi linguaggi urbani. Viaggio nella nuova scena musicale di Sarajevo, la città che un tempo era considerata capitale artistica della Jugoslavia
Francesca Rolandi, Monika Piekarz e Andrea (Paco) Mariani hanno incontrato i componenti di diverse band di Sarajevo per analizzare i caratteri di una delle più interessanti scene musicali presenti oggi nell'area balcanica. A partire da oggi su Osservatorio una selezione dei materiali raccolti, che confluiranno infine in un documentario prodotto dagli autori. Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Prima del conflitto Sarajevo era uno dei centri artistici più importanti della ex Jugoslavia, spesso addirittura considerata la "capitale culturale" della Federazione. Tale essenza di creatività si esprimeva in diversi settori artistici, tra i quali quello musicale non era certo di secondo piano. Dai Bijelo Dugme agli Zabranjeno Pušenje, Sarajevo ospitò alcune delle band più importanti nella storia del rock jugoslavo, uno degli ultimi fenomeni unitari prima della divisione del paese.
Tale fermento sopravvisse brillantemente durante gli anni di assedio, quando rappresentò lo spirito di resistenza della città di fronte alla barbarie dell'aggressione. Nel dopoguerra, tuttavia, si è scontrato con diversi fattori: la disillusione verso le possibilità di cambiamento, la stagnazione culturale, la fuga di molti artisti dalla città, il difficile rapporto instauratosi tra la popolazione proveniente dalle campagne e quella di origine urbana, la mancanza di un'industria musicale... Come nelle altre repubbliche jugoslave, in Bosnia i primi anni novanta hanno visto la nascita del turbofolk, una fusione tra ritmi pop-dance di derivazione estera e musica folk balcanica; oltre ad essere caratterizzato da una bassissima qualità musicale, il turbofolk, che ha avuto un ampio sostegno da parte di molti media, è spesso associato alle nuove élite emerse dalla guerra e ad alcuni "anti-valori" quali il nazionalismo, il machismo, l'arricchimento facile, le riscoperte pseudo-tradizioni popolari.
Il principale carattere comune alla scena raccontata nel nostro lavoro è la volontà di opporsi a tale "degrado artistico" e di proporre un'alternativa culturale. Ciò porta spesso con sé una volontà di impegno politico-sociale, a volte più esplicito (come nel caso dei Dubioza Kolektiv, che sono stati la colonna sonora delle proteste della società civile la scorsa primavera), a volte più sfumato e filtrato attraverso un impegno culturale. Se questa scena musicale può essere facilmente definibile in negativo (come opposizione alla sub-cultura trash sostenuta da molti media), è più difficile farlo in positivo. Essa, infatti, comprende generi musicali molto diversi tra loro: dall'alternative pop degli Skroz, alla rilettura della musica tradizionale bosniaca del Damir Imamović Trio, al trip hop dei Velahavle. Abbiamo voluto raccontare qualcosa di molto diverso da quello che in Occidente è abitualmente etichettata come "musica balcanica".
Il fenomeno rappresentato da questa scena musicale, considerata attualmente tra le più vivaci dell'area, è relativamente recente: è emersa infatti in gran parte negli ultimi 2 o 3 anni e trova all'interno di sé le basi del proprio sostentamento. A differenza di molte iniziative culturali sviluppate in Bosnia dopo il conflitto, infatti, non ha mai avuto nessun sostegno dall'esterno e si è mantenuta in vita grazie alle energie profuse dai propri protagonisti, che comunque solo in rari casi hanno la possibilità di vivere di musica.
Esiste tra le varie band una solida collaborazione e una autopercezione di sé come parte di uno stesso fenomeno culturale, spesso descritto come una sorta di "resistenza culturale" allo stato di cose esistente. In grado minore o maggiore, a seconda dei casi, si assiste inoltre a un riuscito tentativo di fusione tra le influenze provenienti dall'estero e quelle locali (dalla musica tradizionale al rock jugoslavo degli anni 80). Ciò fa sì che per le band il legame con la realtà di origine sia molto forte e che esse si sentano, nel bene e nel male, come un "prodotto" di Sarajevo o della Bosnia Erzegovina. Si tratta di un rapporto ambivalente. Da una parte c'è un sentimento di appartenenza, quello di essere depositari di un'importante eredità culturale proveniente dal passato prebellico, e c'è la volontà di perpetuare questa eredità nel presente. Questo elemento è in parte rafforzato dal fatto che i membri della maggior parte dei gruppi in questione sono compresi nella fascia di età tra i 30 e 40 anni e hanno spesso avuto esperienze musicali, anche se come teenager band, nel periodo immediatamente precedente la guerra o, nel caso di Sarajevo, durante l'assedio. Dall'altro lato tale forte legame non esclude uno scontro con le difficoltà oggettive di un sistema musicale che offre minime possibilità di supporto, per quanto riguarda le etichette discografiche, gli spazi per i concerti o per le prove, e che è molto spesso causa di frustrazione.