L'ex presidente dei serbo bosniaci, Radovan Karadžić, è stato arrestato un anno fa. Il suo processo, più volte rimandato, dovrebbe finalmente iniziare alla fine di settembre. Ma il tempo a disposizione del Tribunale dell'Aja è limitato. Gli effetti del ricorso all'autodifesa
"Radovan Karadžić è impaziente di provare la propria innocenza", ha dichiarato Edward Medvene, uno degli avvocati-assistenti dell'ex presidente dei serbo bosniaci.
Karadžić è stato catturato il 21 luglio dell'anno scorso a Belgrado, e consegnato al Tribunale Penale Internazionale dell'Aja per la ex Jugoslavia (ICTY). Il processo doveva infine cominciare alla fine di agosto. Ora è stato nuovamente spostato alla fine di settembre. Da quando è in carcere, ha inoltrato più di 400 richieste al Tribunale, quasi tutte respinte perché ritenute infondate. Ma la sua strategia funziona: l'inizio del processo viene sempre rimandato.
L'ex presidente dei serbo bosniaci ha deciso di difendersi da solo. Questo avrà due conseguenze certe: il processo si prolungherà, e questa strategia gli permetterà di usare il Tribunale per uno show politico come ha già fatto Slobodan Milošević prima di lui e come sta facendo Vojislav Šešelj. Entrambi, invece di puntare sulla difesa, hanno fatto in aula discorsi politici.
Carla Del Ponte, ex procuratore capo del Tribunale, ha messo in guardia contro i rischi legati al consentire il ricorso all'autodifesa: "Il principio della difesa svolta personalmente dall'imputato offre un'opportunità troppo vasta di trasformare il banco degli accusati in un pulpito per comizi, e il processo in un circo politico".
Il processo a Radovan Karadžić potrebbe durare anche cinque o dieci anni, ma il Tribunale dell'Aja non avrà tutto questo tempo a disposizione. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che ha fondato l'ICTY, ha deciso che il Tribunale deve chiudere entro il 2012.
Le incertezze circa il futuro dell'Aja hanno conseguenze sul personale che ci lavora. La fuga degli specialisti ha raggiunto il punto descritto dal Segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki moon come "potenziale esodo".
L'accusa che sta per affrontare Radovan Karadžić è, a dir poco, gigantesca. E' incriminato per il genocidio di Srebrenica, pulizia etnica, persecuzione e deportazione di civili, per la campagna di terrore su Sarajevo assediata, per la presa in ostaggio di militari internazionali. In tutto, ci sono più di un milione di pagine di materiale probatorio e 530 testimoni.
Alla prima udienza dopo la cattura, Karadžić si è dichiarato non colpevole. Poi ha accusato gli americani, la comunità internazionale, le stesse vittime, le grandi potenze, i paesi musulmani, i comunisti, i diplomatici, la storia, tutto e tutti per "il bagno di sangue in Bosnia che sarebbe stato peggiore di quello in Libano", come lui stesso aveva promesso a Ginevra, nel 1992, dopo il fallimento delle trattative per fermare la guerra.
Fino ad ora, nelle dichiarazioni di Radovan Karadžić al Tribunale, non c'è stata nessuna traccia del comportamento che mi sarei aspettata da parte dell'"eroe nazionale", come viene celebrato in Serbia e Republika Srpska, uno che è "già entrato nella leggenda", come sostengono i nazionalisti serbi.
Mi aspettavo che avrebbe detto: "Sì, sono stato io, perché ne ero convinto, perché ritenevo che fosse giusto, perché facevo il mio dovere, perché difendevo..." Niente. Radovan Karadžić pretende, come un qualsiasi piccolo criminale che collabori con la giustizia, di essere perdonato. "Gli americani mi hanno garantito l'immunità", ripete.
Karadžić non ha preso un difensore legale, ma lo sta aiutando, gratis, un team di circa trenta avvocati-consiglieri, tra i quali i massimi esperti mondiali coadiuvati da un gruppo di giuristi provenienti da Serbia e Bosnia.
"Più uno è accusato, più ha bisogno di aiuto." Così l'avvocato Peter Robinson ha motivato la propria partecipazione al team. Il celebre legale americano, dopo aver incontrato Karadžić in Tribunale, ha dichiarato di essere rimasto impressionato dalla sua intelligenza, sorriso caloroso e buona conoscenza dell'inglese.
"I più grandi crimini, quelli terribili come il genocidio, sono stati avviati ed eseguiti da persone gentili e piacevoli che, facilitate dall'assenza di sanzioni e dall'ipocrisia del mondo, hanno potuto compiere i loro misfatti. La differenza tra Karadžić e Hitler sta solamente nel fatto che Karadžić possedeva una macchina per uccidere più piccola. Entrambi uccidevano senza dubbi né riluttanza", ha scritto Miljenko Jergović, scrittore bosniaco.
Un altro scrittore, Mile Stojić, ha scritto che "eravamo tutti sorpresi dall'odio che Karadžić emanava dai suoi discorsi politici già all'inizio del 1990. L'odio nei confronti della città si trasformava nell'odio verso i musulmani, l'Europa, l'Occidente. Come il Santo Ivan, che parlando trasformava tutto in oro, cosi Karadžić trasformava tutto in odio".
Durante l'incontro con l'ultimo ambasciatore americano in Jugoslavia, Warren Zimermann, Karadžić aveva dichiarato che "i croati sono fascisti e i musulmani fondamentalisti islamici." Dopo, Zimmermann scrisse nel suo libro che "il fanatismo di Karadžić, la sua spietatezza e disprezzo per i valori umani, portano al paragone con un mostro di altri tempi: Henrich Himmler."
A differenza del suo mentore politico, Slobodan Milošević, che si assicurava di non lasciare nessuna traccia delle decisioni che prendeva e degli ordini che rilasciava, Radovan Karadžić amava filmarsi, rilasciava interviste volentieri, firmava i documenti, dava con piacere gli ordini.
Le prove a suo carico sono talmente numerose che la procura, già due volte, ha ridotto le accuse rinunciando a un certo numero di testimoni per cercare di preparare un processo di dimensioni razionali.
"La strada che avete scelto vi porterà verso l'estinzione", minacciava Karadžić i bosniaci nel 1991. Poi, tramite la radio di Belgrado, affermava: "Quando noi non bombardiamo Sarajevo, si cannoneggiano da soli."
In un'intervista alla TV Americana CBS, nel 1995 sosteneva che "l'Europa sarà grata ai serbi, perché l'hanno protetta dal fondamentalismo islamico", presumibilmente uccidendo i musulmano bosniaci.
Nel 1993 si faceva filmare con un ospite, il poeta russo Eduard Limonov. Passeggiavano sulle coline sopra la Sarajevo sofferente e assediata. Karadžić spiegava all'ospite che "Sarajevo è una città serba", e che "i musulmani sono serbi convertitisi all'Islam." Alla fine gli offriva, generosamente, di sparare una raffica di mitragliatore sulla città indifesa. E Limonov sparava.
Quando i rappresentanti delle Nazioni Unite protestavano perché i serbo bosniaci avevano preso in ostaggio i caschi blu, Karadžić li avvertiva che "sarete tutti legati al faggio."
Minacciava la comunità internazionale di una terza guerra mondiale, nel caso avesse deciso di attaccare i serbi. "Non sarebbe difficile procurarsi l'arma atomica, nel caso non l'avessimo già", assicurava al quotidiano belgradese "Većernje Novosti".
Oggi, dal carcere dell'Aja, Radovan Karadžić rilascia di nuovo interviste a varie testate internazionali. Dice che "ha la coscienza pulita", e che non si pente del suo ruolo che, precisa modestamente, sarà giudicato dalla storia.
Gli dispiace, dichiara, per tutte le vite perse. Ignora il proprio ordine del 1995, quando aveva intimato al presidente del Partito democratico serbo (SDS) di Bratunac, Miroslav Deronjić, "uccideteli tutti", riferendosi ai musulmani di Srebrenica.
Sostiene, in un'intervista all'agenzia olandese ANP, che le uccisioni non erano pianificate. Nel marzo 1995 lui stesso aveva firmato la direttiva numero 7, nella quale istruiva: "Pianificare le azioni militari per creare a Srebrenica e Zepa una situazione insostenibile, di totale insicurezza, che non lasci agli abitanti nessuna speranza di sopravvivenza."
L'ex presidente dei serbi bosniaci si è detto "orgoglioso di aver fatto il proprio dovere senza arricchirsi." Nel 1992, però, un suo collega, l'ex presidente della Republika Srpska Krajina Goran Hadzić, ancora latitante, affermava che "Radovan è andato a Londra con la valigia piena di soldi, e quando non si occupa della questione serba fa business." Nei paesi dell'Unione Europea i suoi conti correnti e quelli dei suoi famigliari sono congelati.
La Serbia ha negato qualsiasi ruolo nella guerra in Bosnia Erzegovina, ma Karadžić in un'intervista ad una TV americana si vantava di essere "in contatto quotidiano con Slobodan Milošević."
Questa amicizia tra i due, a quanto pare, fu però a senso unico. Milošević, alla richiesta del diplomatico americano Richard Holbrooke di controllare i suoi amici, cioè Karadžić e gli altri capi dei serbo bosniaci, avrebbe detto: "Quelli non sono miei amici. E' terribile essere nella stessa stanza con loro. Loro sono la merda."