Dal 15 febbraio in libreria il romanzo L’isola di Meša Selimović. Il commento di Božidar Stanišic su questa straordinaria opera di uno dei più importanti autori del Novecento europeo
(“L’isola“ di Meša Selimović, tradotto da Dunja Badnjević e Manuela Oraz è pubblicato dall'editore Bordeaux di Roma. Prima di questa pubblicazione italiana, il romanzo è stato tradotto in ungherese (1976), sloveno (1979), slovacco (1982), inglese (1983) e francese (2013). Fino a oggi le opere di Selimović sono pubblicate in 29 lingue).
Meša Selimović preannunciò il suo romanzo Ostrvo (L’isola) in alcune interviste della fine degli anni ’60, precedenti al romanzo Tvrdjava (La fortezza, 1970). Affermò, in modo piuttosto generico, l’intenzione di scrivere un romanzo sulla vita contemporanea. Ma il suo progetto ricevette scarsa attenzione e questo fu causato soprattutto dalle reazioni della critica del tempo al suo Il derviscio e la morte. Nelle recensioni e nei saggi su quell’opera così complessa dal punto di vista semantico e strutturale, ci si limitava troppo spesso ad osservazioni e giudizi sulla Bosnia, sull’Oriente e sul periodo ottomano in cui Selimović aveva situato lo spazio e il tempo del romanzo. E anche il Corano, con le cui citazioni inizia ogni capitolo, trovava ampio spazio: così nei saggi scritti su quest’opera non mancavano commenti sull’Islam e sul rapporto dell’autore verso la sua eredità religiosa e culturale, benché per Selimović quel libro sacro fosse solo un’ispirazione.
Anche il romanzo La fortezza, ambientato come l’altro in Bosnia nel periodo ottomano, provocò reazioni analoghe.
Ostrvo fu pubblicato nel 1974 da “Prosveta”, a quel tempo l’editore più famoso di letteratura contemporanea in Jugoslavia. Nel 1975 il romanzo fu inserito nella prima edizione delle opere complete di Meša Selimović in otto volumi, pubblicati in occasione del trentennale della sua creazione letteraria. Anche se non raggiunse né la fama né la diffusione delle due parti precedenti della trilogia, in Jugoslavia questo romanzo ebbe comunque diverse edizioni.
Selimović in una stagione della storia jugoslava
Lo scrittore vive il periodo che precede la pubblicazione dell’Isola (1974), romanzo che costituisce la parte conclusiva della sua trilogia, tormentato da diversi avvenimenti sociali, politici e culturali. Rimase ad esempio isolato a seguito della sua scelta di dichiararsi appartenente, come scrittore, alla letteratura serba [1]. Inoltre, sempre più forte era la sua avversione nei confronti degli apparatčiki del sistema, i quali, a suo avviso, si erano ormai da tempo allontanati dai fini proclamati della cosiddetta Rivoluzione (con la R maiuscola) socialista e da Tito.
Di ciò testimonia anche la corrispondenza dell’autore, nella quale, soprattutto nelle lettere a personaggi influenti e potenti della vita politica e culturale di Sarajevo, della Bosnia e della Jugoslavia, non mancano toni polemici. Ai corifei dell’unica ideologia, e malgrado gli onori che gli vengono attribuiti come scrittore, getta in faccia la propria verità sul divario morale nel quale a suo avviso versa ormai da tempo la Rivoluzione e il Partito.
Il prospettato e poi definitivo trasferimento a Belgrado (che suonò anche come critica specifica alla politica del tempo e, collegata direttamente con questo, alla situazione culturale e letteraria a Sarajevo e in Bosnia), il suo pessimo stato di salute, le peripezie relative alla pubblicazione di Ostrvo a Sarajevo e lo strano e poco chiaro processo a suo fratello Teufik, sono solo il pretesto, ma non la vera ragione, dell’atteggiamento inflessibile di Selimović nei confronti del Partito a livello cittadino e repubblicano.
Questo è particolarmente evidente nella sua corrispondenza con i direttori e i redattori della casa editrice sarajevese Svjetlost, nelle sue critiche al conformismo e alle pubbliche dichiarazioni di ortodossia politica da parte degli scrittori, dei redattori e dei critici dell'epoca. Nelle sue Memorie, Selimović riassume brevemente l’episodio in cui sentì la mano del Partito calare sul viaggio del manoscritto di Ostrvo verso la pubblicazione: Accadde, tuttavia, qualcosa di inaspettato: dopo un lasso di tempo abbastanza lungo, e su mia energica insistenza, ottenni una valutazione, dove veniva promosso tutto tranne i capitoli “Deve forse morire il vecchio mandarino” e “Terra straniera è angoscia enorme”, e questo per motivi politici! Quei due capitoli non appartengono alla letteratura, si tratta di pamphlet politici, si dice nei giudizi [2].
In quel conflitto, così come in quelli precedenti, Selimović non cedette. In Bosnia, il suo paese natale, come usava dire, si dimostrò anche in quell’occasione che meno che mai si perdona quel centimetro in più di talento con il quale un uomo supera gli altri. Il romanzo trovò un editore [3], a Belgrado. Un editore che non mosse alcuna critica al manoscritto.
L’isola – terza e ultima
Logicamente, il lettore può qui chiedersi quali siano le isole delle prime due parti della trilogia. Ma la tekija [4] di quell’ordine di dervisci nel cui isolamento dalle cose e dai fenomeni del mondo Ahmed Nurudin ha trovato la pace dell’anima e la luce della fede, non è forse un’isola? E la modesta dimora nella quale lo aspetta la donna che lo ama, alla quale nella Fortezza Ahmet Šabo, anche lui reduce di guerra, torna ogni giorno dopo aver toccato tante porte chiuse, non è forse un’isola? Sulla terza isola, che nell’ultimo romanzo della trilogia è un’isola reale, Selimović manda i coniugi Marić – si direbbero figli del loro tempo o, come li definisce in un capitolo, appartenenti alla maggioranza degli uomini. Sono persone immaginabili molto facilmente al di fuori del romanzo. Là, in quel “fuori”, Ivan e sua moglie Katarina appartengono alla numerosa galleria delle persone comuni, perfino marginali.
Selimović, come tutti i grandi narratori della letteratura mondiale, sapeva bene che tutto ciò che è consueto può essere reso dalla narrazione stessa inconsueto. Davvero, sono comuni sia Ivan sia Katarina Marić. Abitano – non è difficile stabilire che è la fine degli anni ’60 – in una casa su un’isola, proprio vicino al cimitero, lontano dal piccolo villaggio di pescatori. Sull’isola o in esilio (come Selimović intitola il primo racconto del romanzo) Ivan e Katarina sono arrivati spontaneamente, per il normale desiderio di genitori di essere utili a uno dei figli. Gli hanno lasciato l’appartamento in città, dalla quale in questo esilio si sono definitivamente allontanati. Ma solo in senso spaziale: non esiste, neppure in Selimović, l’isola felice dell’oblio. E quell’isola non li libera dai loro ricordi, dal riesame di se stessi e degli altri, insomma, da tutte le inquietudini che fanno tornare al passato e con le quali vivono il presente, accompagnato dalla consapevolezza di affondare nella vecchiaia e dal presentimento della morte. Sull’isola Katarina ritorna a Dio, Ivan alla pesca.
Aggiungo, per finire: L’isola di Meša Selimović giunge a noi senza alcun ritardo. Giunge anche con uno, fra molti altri interrogativi: …che cosa possiamo ancora fare in questo mondo di macchine rumorose e di aggressiva insensatezza, di bombe all’idrogeno e di raffiche ideologiche?
Note:
[1] “Provengo da una famiglia musulmana della Bosnia, ma per nazionalità sono serbo. Appartengo alla letteratura serba, mentre considero la creazione letteraria della Bosnia ed Erzegovina, a cui anche appartengo, solo come un nucleo originario, e non come una specifica letteratura di lingua serbocroata” (dalla lettera di Selimović all’Accademia serba di scienze e arti, novembre 1976).
[2] Meša Selimović, Sjećanja, Book&Marso, Beograd 2002, pp. 162-163.
[3] Ostrvo fu pubblicato nel 1974 da “Prosveta”, a quel tempo l’editore più famoso di letteratura contemporanea in Jugoslavia. Nel 1975 il romanzo fu inserito nella prima edizione delle opere complete di Meša Selimović in otto volumi, pubblicati in occasione del trentennale della sua creazione letteraria, nell’edizione di “Prosveta” e della fiumana “Otokar Keršovani”. Anche se non raggiunse né la fama né la diffusione delle due parti precedenti della trilogia, nella patria dello scrittore questo romanzo ebbe comunque diverse edizioni.
[4] Turco tekke <ar.täkyä: casa, edificio in cui vivono i dervisci (monaci musulmani, membri di una confraternita caratterizzata da tendenze mistiche).