Un antropologo olandese, Mart Bax, che si inventa uno studio su supposte violenze a Međugorje. Tutto falso, ma viene riconosciuto solo a vent'anni dalla sua pubblicazione. E intanto le spore disseminate dalla bugia hanno attecchito
(Articolo pubblicato originariamente da Viaggiare i Balcani )
“Religione, violenza e bugie nella Bosnia rurale” riprende e modifica il titolo del volume realizzato dall’antropologo Mart Bax e di cui tratta l’articolo pubblicato qui di seguito. Nel 1995 lo studioso olandese aveva infatti dato alle stampe una propria ricerca imperniata su una faida “etno-economica” tra famiglie di Međugorje, poi rivelatasi un falso. Le tossine provocate dalla diffusione di quest’opera sono oggetto di analisi e riflessione da parte di Mariangela Pizziolo, in questo secondo intervento elaborato dalla sua tesi di laurea “Sul capo ha una corona di stelle. Società, conflitti e culture nella regione di Medjugorje”. Il primo articolo, dal titolo “Non è come appare”, è stato pubblicato sulle nostre pagine lo scorso 15 luglio.
Incontrare l’altro e scriverne la storia è un’impresa che si fonda sulle rappresentazioni mentali e su quelle concrete, sui nessi tra immagini, sguardi, frasi ed oggetti. È la traduzione complessa di una relazione e proprio per questo è spesso soggetta a equivoci ed errori. Se questi possono essere frutto di disinformazione o di ignoranza, vi sono tuttavia episodi in cui derivano dalla deliberata decisione di mentire. Il caso dell’antropologo Mart Bax può fungere da esempio.
Professore emerito di Antropologia politica alla Vrije Universiteit di Amsterdam, Bax si è occupato in particolare del legame fra ordinamenti religiosi, istituzioni politiche e sistemi sociali in Olanda, in Irlanda e in Bosnia Erzegovina, a Međugorje. La sua principale pubblicazione, “Medjugorje: Religion, Politics, and Violence in Rural Bosnia” del 1995, riguarda proprio le sue “scoperte” e teorie su questa meta di pellegrinaggio e sui suoi dintorni.
Nel testo Bart accompagna i lettori attraverso la complessa e violenta storia della Bosnia Erzegovina, fornisce loro indicazioni sulla pronuncia dei termini in lingua locale e descrizioni dettagliate dei suoi incontri, riportando poi una lunga bibliografia. La sua “scoperta” più intrigante è quella dell’esistenza di una faida di sangue all’interno di Međugorje, chiamata “piccola guerra” perché raggiunse il suo culmine negli anni ’90, in parallelo alle guerre jugoslave. Secondo la sua ricostruzione, vi erano tre grandi clan croati nella parrocchia, posti su un podio economico gerarchico, tra i quali si manifestavano frequentemente scontri violenti. Quando si diffuse la notizia delle apparizioni della Madonna, nel 1981, l’economia turistica migliorò la vita di ciascun clan, ma la breve tregua si spezzò con l’inizio delle guerre jugoslave. La famiglia originariamente più povera, che aveva meno possedimenti e di conseguenza più lavoratori emigrati in Germania, proprio grazie alla liquidità delle rimesse era riuscita a costruire gli hotel migliori e a ottenere la maggior parte delle licenze dei taxi. Non volendo spartire la sua fetta di affari con le altre due famiglie, che soffrivano maggiormente la penuria di pellegrini, risvegliò gli umori delle antiche rivalità. Fu così che, per risolvere i problemi di concorrenza economica, vennero chiamate in causa le motivazioni etniche della “guerra principale”: i due clan penalizzati definirono i membri del clan avaro “piccoli serbi” – richiamandosi alle loro radici ortodosse – e diedero inizio alla pulizia. Dal 1991 al 1992, secondo Bax, tra morti, scomparsi e fuggitivi, la popolazione di Međugorje si ridusse di 800 individui – più di un quarto del totale – e i “piccoli serbi” vennero sradicati.
In realtà, questa “piccola guerra” non avvenne mai, come non avvennero mai molti altri eventi da lui narrati. Le fonti sono citate erroneamente, falsificate o addirittura inventate. Bax scrisse che il materiale di ricerca – come le cosiddette note di campo, le foto e le interviste – era stato procurato in circostanze minacciose, il che aveva reso necessario mascherare le identità di persone e luoghi affinché fosse impossibile rintracciarli. In questo modo poté affondare le radici della sua “ricerca” in una rielaborazione fantasiosa del passato di quell’area esplosiva in cui, disse, la violenza e il fascismo fanno da regola piuttosto che da eccezione e poté spiegare il conflitto nell’ex-Jugoslavia come una continuazione logica degli antichi odi tribali endemici. Fortunatamente, a partire dal 2012 la frode di Bax è stata riconosciuta dalla Vrije Universiteit e i contenuti del suo lavoro sono stati discussi e confutati, in particolare dal francescano e storico croato Robert Jolić, dal giornalista serbo-olandese Richard De Boer e dall’antropologa croata Marijana Belaj.
Ma qual è il senso di parlare di questo caso? Le risposte sono molteplici e hanno a che fare con il generale e con il particolare.
In primo luogo, la vicenda di Bax riflette una pecca del sistema accademico. Il suo, infatti, non è stato l’unico caso e nemmeno il più eclatante, ma gli episodi di disonestà scientifica si sono verificati spesso: ricerche accademiche falsificate, manipolate o plagiate, furti di dati operati da scuole concorrenti, sfruttamento dei membri dei team di ricerca o, appunto, invenzioni. Bax, chiamato a giustificarsi, ha citato la pressione esercitata dal mondo universitario per avere frequenti pubblicazioni necessarie a mantenere posizioni e ad acquisire finanziamenti. Se tale pressione può rappresentare talvolta un incentivo deviante, nel suo caso si potrebbe pensare che abbia silenziato l’etica a favore dell’ambizione.
In secondo luogo, ancora oggi chi si interessa a questa regione s’imbatte nelle ricerche di Bax, le quali hanno sparso le loro spore in molti testi accademici e storici. Lo si incontra spesso, citato direttamente o riportato in modo implicito, per spiegare l’escalation della violenza locale. La scientificità delle pubblicazioni di Bax, che gli era garantita dalla sua posizione universitaria, è stata demolita solo dalle indagini condotte dopo quasi vent’anni dalla stampa del volume. Fino ad allora molti accademici hanno dato fede alle sue parole e hanno utilizzato i fatti da lui riportati per sviluppare ulteriori teorie.
In terzo luogo, ed è forse l’aspetto più importante, la vicenda mette in evidenza quanto gli stereotipi e i pregiudizi che ricadono sui Balcani hanno ancora una forte adesione nelle nostre menti. L’immaginario più diffuso li ritrae come una regione in cui l’equilibrio viene costantemente rotto da violenze, faide di sangue, scontri etnici e corruzione diffusa; un luogo, insomma, in cui può essere normale che per questioni economiche due famiglie decidano di sterminarne una terza. Gli schemi proposti da Bax, che mescolano il sacro alla violenza, riprendono alla perfezione il modello dell’odio balcanico a cui ci siamo abituati, e anzi lo amplificano, arrecando danno alla comprensione esterna ed interna dei fatti, nonché alle persone che in quei luoghi vivono.
Molte volte ci si stupisce di come le vicende delle guerre jugoslave vengano trattate in modo discutibile e parziale dai diversi gruppi etnici e dalle loro élite politiche e culturali; di come la scuola, i discorsi pubblici, le istituzioni e i mezzi di informazione narrino versioni etnocentriche degli accadimenti. Nel complesso processo di attribuzione delle colpe, tuttora in corso e tuttora causa di tensioni, il passato viene riscritto dalle sfilate del nazionalismo, dalla negazione indispettita della Jugoslavia e dall’omissione delle responsabilità del proprio gruppo. A tutto ciò, non occorre affatto aggiungere altre teorie speculative, altre matrici astratte per incasellare le persone, altre spettacolarizzazioni degli effetti della guerra, cosa a cui invece ha ben contribuito Mart Bax.
L’insegnamento che si può trarre dalla questa storia non è importante solo per chi fa ricerca nell’ambito delle scienze sociali, ma per tutti coloro che sono spinti dalla volontà di comprendere. Ci pone di fronte alla necessità di riconoscere che i viaggi che compiamo nello spazio e nella memoria sono spesso parziali e selettivi, per ovvie questioni legate al tempo e alle nostre individualità, e che dovrebbero essere sempre accompagnati da una profonda autoriflessione. Chiedersi se l’ascolto è stato adeguato, se si è davvero stati imparziali, se sono stati tralasciati degli aspetti che avrebbero scomodamente creato più domande che risposte, sono quesiti tanto più fondamentali quando ci si muove in contesti difficili come quelli di post-conflitto, dove le storie umane si intrecciano alle questioni storiche e geopolitiche o sfuggono ad esse.
Non vi sono ricette per una comprensione perfetta e ci sarà sempre qualcosa che rimarrà in ombra. Eppure, più ci si addentra in un contesto, minore sarà il rischio di sbagliarsi. Sono necessari i libri di storia? Certo, ma non sono sufficienti. Sono importanti i verdetti dei tribunali e i documenti? Lo sono moltissimo, ma devono essere associati alle esperienze dei singoli e delle persone comuni. Sono importanti i racconti davanti a un caffè e le risate? Lo sono eccome, ma bisogna riconoscerne la soggettività. Sono utili le intuizioni e le deduzioni? Possono esserlo, ma devono trovarsi accompagnate dalla prudenza e dall’informazione. Una narrazione sbagliata, banalizzante o frettolosa rivela l’incontro mancato tra il parlante e l’ascoltatore, tra la fonte e lo studioso, tra il testimone e l’ascoltatore. Ecco perché valutando il lavoro di Mart Bax, che da solo ha mietuto più vittime di quelle che ha raccontato, non bisogna sentirsi scoraggiati o spinti verso la rinuncia, ma bisogna piuttosto sentire l’invito alla ricerca continua: la comprensione della complessità umana di un villaggio, di un paese o di una guerra non giungerà mai alla completezza, ma sarà tanto più profonda e tanto più utile quante più saranno le fibre intessute tra loro.