Metodo Srebrenica è uno sconvolgente romanzo documentario edito da Bottega Errante in cui il suo autore, Ivica Đikić, non intende spiegare perché è successo il genocidio di Srebrenica ma come è successo. Recensione
Come ogni anniversario segna il progressivo allontanamento da quanto accaduto, così contribuisce alla formazione della distanza prospettica della storia. Ivica Đikić, giornalista e scrittore croato nato a Tomislavgrad, non ha preso in considerazione l’idea di scrivere di Srebrenica fino al 2005, dopo il decimo anniversario del massacro di Srebrenica, avvenuto tra l’11 e il 17 luglio 1995 in Bosnia Erzegovina. Prima per lui Srebrenica era solo “uno dei toponimi dei misfatti balcanici, di quei toponimi che si ricordano spesso, perché sono diventati luoghi comuni”.
E' servito l’incontro con il giornalista sarajevese Emir Suljagić ad avvicinarlo alle vicende di quell’indicibile orrore e soprattutto alla figura di Ljubiša Beara, il colonnello condannato nel 2002 dal Tribunale dell’Aja in quanto diretto responsabile e artefice dell’intera operazione. Đikić ha poi impiegato circa 10 anni per portare a compimento il suo libro su Srebrenica, partendo dalla convinzione di realizzare un romanzo e poi allontanandosi da quell’idea sempre di più.
"Sapevo di dover tentare di capire, benché si trattasse di cose incomprensibili, di dover cercare di penetrare nel cuore del misfatto, fino alle motivazioni di coloro che avevano ordinato ed eseguito le uccisioni: questo era il presupposto per poter scrivere qualcosa di minimamente credibile e autentico”, si legge nel lungo e importante prologo che apre il libro. Per rispetto di quanto è accaduto dunque - e per il principio per cui è impossibile parlare di ciò che non si conosce -, l’unica soluzione possibile è stata abbracciare il rigore della ricostruzione storica, delle voci, dei nomi, dei fatti: Đikić dà alle stampe Beara nel 2016, a poca distanza dal ventesimo anniversario del genocidio e nel 2020 arriva finalmente in Italia con il titolo Metodo Srebrenica (grazie alla traduzione di Silvio Ferrari e a Bottega Errante Edizioni). Come suggerisce il titolo originale dell’opera, l’autore decide di concentrarsi sulla figura del colonnello, incaricato formalmente dal generale Ratko Mladić di eliminare tutti i civili maschi e adulti (ma non soltanto) di religione musulmana nella zona circostante l’enclave formalmente protetta dall’ONU di Srebrenica.
Di Beara, il lettore scopre ogni dettaglio: nato a Sarajevo e poi cresciuto a Spalato, fa carriera nella Marina dell’Armata Popolare Jugoslava (JNA) fino a diventare capo di vascello; nel 1991, quando la JNA comincia ad assolvere gli interessi dei serbi e non più dell’intera popolazione jugoslava, Beara farà trasferire la famiglia a Belgrado per poter affiancare il generale Aleksandar Vasiljević, assumendo il ruolo di colonnello. Al colonnello Beara viene dunque affidato il compito finale, risolutivo, all’interno del contesto di una guerra di sfinimento che i serbi stavano infliggendo ai bosgnacchi, i “turchi” sul territorio della valle della Drina. Srebrenica, Bratunac e Kravica, sono le località più importanti teatro di questi giochi strategici, luoghi entro i confini della Bosnia in cui resistono numerosissimi musulmani. Il compito è di effettuare una vera e propria pulizia etnica. E quello che accade non sarà reso noto agli occhi del resto del mondo fino a una settimana dopo, a genocidio ultimato. Sono oltre 8mila i civili uccisi. Al lettore non viene tralasciato nessun dettaglio, nessun nome. Si scopre che quello che accadde a Srebrenica è lasciato esclusivamente nelle mani di quest’uomo che con perizia e freddezza riesce a portare a compimento praticamente da solo un’operazione che non era nemmeno stata pianificata dalle alte sfere del corpo militare.
Il Beara raccontato da Đikić non può essere un Limonov, se si volesse tracciare un parallelismo con un altro grande romanzo di non-fiction, perché è un personaggio senza volto e senza corpo. Più che una persona appare come un’intenzione. Ogni tanto emergono dei dettagli che lo contestualizzano nello spazio: quando affronta Miroslav Deronjić, il sindaco di Bratunac su uno dei ponti cittadini dove scorre la Drina, per negoziare l’uccisione di migliaia di uomini presso l’ex mattonificio, o quando esausto si lascia andare all’alcool. Si scopre poi un fatale errore militare che rischia di offuscare la sua carriera e il suo più grande desiderio, ovvero di compiacere il generale Ratko Mladić.
Ma Metodo Srebrenica non corrisponde nemmeno a La banalità del male della soluzione definitiva jugoslava. Non c'è la pretesa di arrivare alle origini del male o di capirlo, ma piuttosto di destrutturarlo ai suoi minimi termini, fin nella più esile delle sue azioni. La dichiarazione di intenti di Đikić è chiara: “Un procedimento del genere – cioè lo smontaggio e la riduzione ai fattori elementari, con la confusa speranza di riuscire ad avvicinarci alle motivazioni del misfatto – può essere vissuto e qualificato come una razionalizzazione del delitto – in questo caso del genocidio – o addirittura come qualcosa di più maligno della razionalizzazione?”
Inquadrare questo libro non è semplice: saggio, romanzo documentario, non-fiction? Pur sviscerando gli eventi con precisione scientifica, la definizione romanzo non può che essere comunque quella più corretta. La struttura rimane un elemento essenziale: non solo nella parte centrale dove avviene la ricostruzione di quei giorni e di alcuni episodi delle guerre della ex-Jugoslavia cruciali per questo avvenimento, ma anche le parti di prologo, post-scriptum ed epilogo. Senza la voce di Đikić che accompagna il lettore nel difficile processo di scrittura, nei dilemmi di forma che hanno accompagnato il suo intento, questo romanzo non sarebbe tale. Pur esponendo con grande onestà i suoi obiettivi e i limiti incontrati, durante la ricostruzione il narratore rimane completamente esterno, mostrando la quasi onniscienza della materia trattata. La voce di Đikić interviene in pochi, essenziali passaggi quando è inevitabile farlo. Anche per questo siamo lontani dallo stile di Limonov di Carrère, il ritratto di un personaggio “plus grand que la vie”, nel bene e nel male, reso tale anche dallo sfoggio di talento del suo autore.
Solo alla fine, con il post-scriptum, il lettore è in grado di liberarsi di tutta la tensione, abilmente costruita dall’autore in un’escalation di orrore, regalando un racconto in coda all’impietoso resoconto, millimetrico, chirurgico, senza scampo. La chiosa narrativa mette in scena alcuni personaggi che ricordano chiaramente quelli di Cirkus Columbia, (dello stesso autore e sempre edito da Bottega Errante Edizioni), un testo intenso e doloroso. Anche in quest'ultimo Đikić offre una storia senza assoluzione: due bosniaci emigrati in Canada come tanti altri, appartenenti alla diaspora jugoslava, in un ipotetico presente post-Srebrenica.
Il libro
Come si fa ad organizzare l'uccisione di 8.000 uomini? Questo romanzo documentario non ci illustra il perché è successo, ma il come è successo. Proprio attraverso il racconto delle modalità pratiche ci fa entrare nelle pieghe umane e mostruose di questo tragico episodio della storia recente europea. Il genocidio di Srebrenica è stata un'operazione razionale e pianificata, coordinata e organizzata dal colonnello Beara. In questo libro Đikić, oltre a seguire ogni movimento di Beara durante quei tre giorni e tre notti del luglio 1995, narra la sua vita prima e durante la guerra, con elementi che collocano la storia principale nel più ampio contesto delle circostanze politiche e sociali dell'epoca.
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