Nella ex Jugoslavia si stanno ancora cercando circa sedicimila persone scomparse durante le ultime guerre. L'incertezza sulla loro sorte tormenta un milione di famigliari. Il filo comune tra Kosovo, Bosnia Erzegovina e Croazia
Desidererei,
finalmente,
poter riposare
in quella fossa,
che non c'è,
a fianco di mio figlio,
che non c'è,
per
scaldare le sue manine.
(Ferida Duraković, poetessa bosniaca)
E' un intero popolo. Comprende bosgnacchi, serbi, albanesi, croati e rom. Non si riconoscono né per la nazionalità, né per la religione, né per il sesso, ma per la lunga angoscia degli anni di ricerca.
Parole grosse come patriottismo, coraggio, onore e patria gli provocano il mal di stomaco. Vanno avanti intorpiditi, le ombre di se stessi. Per loro il presente è una sofferenza costante, le giornate nient'altro che il disperato attendere la notizia che i resti sono stati ritrovati. Desiderano questa notizia, ma allo stesso tempo la temono.
Più di 34.000 persone sono scomparse durante le guerre in ex Jugoslavia. Nella sola Bosnia Erzegovina sono sparite 28.000 persone. Ancora oggi non si conosce il destino di circa 11.000, in Croazia ne mancano 2.283 mentre in Kosovo 1.895. La sorte incerta di ancora 16.000 scomparsi, in totale, tormenta circa un milione di loro famigliari.
I numeri non chiariscono molto, le grosse cifre non impressionano più di tanto. Quelli che cercano i propri cari non vogliono sentire le statistiche, le rifiutano. Si ricordano di dettagli precisi, com'era vestita, cosa si sono detti quando si sono visti l'ultima volta, cosa indossava il primo giorno di scuola, il dente che mancava, i capelli ricci, il giocattolo che portava, le scarpe che indossava, la foto che aveva nel portafoglio, una cicatrice, un gesto della mano, l'orologio regalato, i pantaloni che aveva cucito varie volte.
Selma, dodici anni, era la figlia più grande di Nadja, madre di tre bambine di Višegrad. L'hanno strappata, letteralmente, dalle braccia di sua mamma e l'hanno messa nell'hotel "Vilina Vlas", dove l'hanno violentata per mesi prima di venderla da uno all'altro. Le tracce di Selma si sono perse nel 1993. Oggi il processo va avanti nei confronti di una persona, accusata per la sorte di Selma. Uno sconosciuto ha telefonato alla madre, promettendo di farle scoprire dove si trova la tomba della figlia se la madre rinuncia a testimoniare.
Munib e Zulehja, coniugi bosgnacchi di Bihać, hanno perso l'unico figlio, Mustafa, nel 1993. E' scomparso. Una fossa comune, Bezdana, recentemente aperta, potrebbe contenere i suoi resti. La madre ha riconosciuto la maglia a strisce bianche e blu. Per identificarlo serve l'analisi del DNA. Mustafa era figlio adottivo. La madre naturale è in Croazia, si è rifatta una vita, ha cambiato il nome, la religione, e non vuole mettere a rischio quello che ha. Rifiuta di sottoporsi all'esame genetico.
Jasmina, di Mostar, ha già trovato i resti del marito. Dopo la sua morte lei, separata dai due figli, era stata messa in un albergo e violentata ripetutamente. Oggi la sua vita ha un unico scopo: trovare i resti dei due figli: Aila, la femmina di nove mesi, e Amar, il maschio di quattro anni. Sono scomparsi con un gruppo di diciotto bambini vicino a Nevesinje, nel 1992. Segue immancabilmente quelli che perlustrano le fossi comuni in Erzegovina.
In Bosnia si dice sempre che può andare peggio. Infatti, almeno 400 persone tra quelle scomparse in Kosovo sono state trasferite, secondo Human Rights Watch, in Albania, dove si sono perse le loro tracce. La caratteristica di questa storia è che, a quanto pare, queste persone sono state uccise per espiantare loro gli organi.
Sul posto dove li operavano, indicato da alcuni testimoni nel nord dell'Albania, sono state trovate siringhe, fleboclisi, garze... "che sono chiaramente materiale di conferma, ma che come prove sono purtroppo insufficienti", ha scritto nel suo libro "La Caccia" l'ex procuratore capo del Tribunale dell'Aja, Carla Del Ponte.
Le prime fosse comuni sono state individuate in Croazia e Bosnia, e poi in Kosovo e Serbia, ancora durante la guerra o subito dopo la sua fine. Le indicazioni sono state fornite dai rari sopravvissuti e dai filmati satellitari. Spesso le vittime venivano buttate nei pozzi, nelle foibe, sepolte in luoghi poi minati, talvolta i resti sono stati bruciati. Ci sono testimoni che hanno visto corpi gettati nei grandi forni delle miniere. Sussurrando, si parla di Obilic e Maćkatica, in Serbia, o di Keratem in Bosnia.
Ancora oggi si fanno avanti persone che possono indicare località di fosse comuni. Alcuni sono motivati dalla coscienza disturbata, altri lo fanno per poter patteggiare con la giustizia, altri chiedono soldi. Come uno di Višegrad, che pretendeva di essere pagato cinquanta euro per ogni scheletro trovato in una fossa comune.
Talvolta i resti si scoprono da soli, come nel caso di un camion frigorifero pieno di corpi di albanesi uccisi in Kosovo. Il camion frigorifero si era ribaltato, e galleggiava nel fiume vicino a Belgrado.
L'ex presidente serbo Zoran Đinđić ha confermato ufficialmente quello che in Serbia si mormorava appena: a venti chilometri da Belgrado, a Batajnica, c'erano fosse comuni, con i resti di albanesi uccisi.
I carnefici, spesso, si sono presi la briga di nascondere le tracce dei loro crimini. Gli esecutori hanno spostato i resti dalle fosse primarie in altri luoghi, dopo che gli americani avevano rivelato gli spostamenti di terra con foto satellitari. Hanno rovinato i corpi, spaccato le ossa con i bulldozer, mescolato i resti. Questo è tipico per la Bosnia orientale, per le vittime di Srebrenica.
Così il femore di una persona si trova nella primaria, il teschio nella secondaria, una mano nel terzo posto. E' per questo che Saliha, una ragazza di Srebrenica, ha detto che "hanno trovato il venti per cento di mio papà", scomparso a Srebrenica.
All'inizio le fosse comuni venivano cercate ed esaminate per provare che era avvenuto un delitto, per poter incriminare i responsabili. "Le ossa non mentono", afferma la dottoressa Ewa Klonowski, antropologa, esperta di medicina legale, membro dell'Accademia Americana che ha perlustrato decine di fosse comuni in Bosnia Erzegovina portando alla luce i resti di alcune migliaia di vittime.
Ma i famigliari degli scomparsi cercavano fatti, non prove. Insistevano sulla identificazione dei resti trovati.
"Portami le sue ossa. Lo riconoscerò di sicuro", ripeteva la Hatidžia Hren, cercando i resti del marito Rudolf.
"Alla fine la giustizia sta nell'identificare le vittime. Solo così uno può essere sicuro che i mariti, le mogli, le sorelle, i fratelli, i bambini e i vecchi non saranno perseguitati per tutta la vita dal non sapere cosa sia successo alla persona che una volta poggiava la sua testa sullo stesso cuscino", sostiene l'esperto di medicina legale Haglund William.
I politici dell'area ex jugoslava sono riusciti a politicizzare il problema degli scomparsi. Lo usano per trattare, per far pressioni sulla parte opposta, per ottenere un compromesso, per correggere la storia.
I politici si pronunciano sulla questione solo in occasioni particolari, come la giornata mondiale degli scomparsi, il 30 agosto. Ricevono delegazioni di famigliari, li ascoltano, fanno promesse, e poi basta.
In Croazia per due anni non è stata aperta nemmeno una fossa comune, anche se si conosce con certezza l'ubicazione di almeno cinquecento siti. Ufficialmente mancano i soldi.
Così in tutto il Kosovo. Le autorità dicono che non hanno fondi per procedere con l'esumazione e l'identificazione. Per fargli cambiare decisione, le madri degli albanesi scomparsi hanno cominciato lo sciopero della fame.
Varie associazioni e società di famigliari degli scomparsi collaborano in vario modo, intraprendono azioni comuni, serbi e albanesi insieme, bosniaci e serbi, croati e serbi. Ma senza l'appoggio politico e i fondi necessari non possono fare molto di più che rilasciare appelli, completare statistiche, fornire nomi.
Recentemente, la direttrice del Centro per il diritto umanitario di Belgrado, Nataša Kandić, ha sollecitato i politici serbi a smettere di scusarsi per la mancanza di soldi. "Lo Stato deve procurare i fondi per l'esumazione delle fosse comuni", insiste la Kandić.
Il Centro che dirige ha lanciato una campagna con lo slogan "Che gli scomparsi diventino persone", invitando tutti quelli che sanno qualcosa a farsi avanti per poter fermare l'agonia delle famiglie.
Un'azione simile l'ha intrapresa anche l'Istituto di Sarajevo per le persone scomparse (INO BiH). Amor Mašović, uno dei direttori dell'Istituto, dice che con il passare del tempo diminuisce il numero delle fosse comuni scoperte, e cala il numero dei testimoni disposti a parlare. E questo è un problema che non riguarda solo il presente, ma anche il futuro.
"Senza risolvere il problema degli scomparsi non si può sperare nella riconciliazione tra i popoli dell'ex Jugoslavia", sostiene Mašović.