Visuale su Mostar - Gabriele Santoro

E' da otto anni che nella città di Mostar non si vota alle amministrative, non riuscendo la politica locale a trovare un accordo sulla riforma della legge elettorale. E la città rimane condannata alla stasi ed alla divisione. Reportage

01/03/2017 -  Gabriele Santoro

(Questo reportage viene pubblicato in contemporanea da OBC Transeuropa e dal blog "Sul confine" della Keller Editore)

Jasmin Elezović ha gli occhi azzurri limpidi e troppi capelli bianchi per i propri ventinove anni. Sostiene che a Mostar, a oltre due decadi dalla fine del conflitto bellico, la sindrome Post traumatic stress disorder segna in forme diverse quasi tutti. Jasmin dice che ognuno l'affronta come riesce. La sua terapia consiste nel raccontare la città e la propria infanzia di bambino al tempo della guerra.

La casa di Jasmin era fisicamente la prima sulla linea del fuoco, dove gli scontri tra bosgnacchi e croati furono più violenti. Nel 1993 ha trascorso almeno sei mesi senza vedere la luce del sole, confinato nella vasca da bagno, il luogo meno esposto ai cecchini. "Ricordo la ferocia delle ferite e il tanto sangue – racconta – mia madre aveva medicinali e accoglievamo i feriti. Eravamo affamati. Si usciva di notte per raccogliere il cibo gettato dagli aerei. Oggi sembra di non essere mai felici, all'epoca se non altro eravamo liberi dall'ossessione di ciò che riusciremo a fare domani".

C'è un luogo all'interno della casa che Jasmin ricorda in particolare e definisce la stanza della luce: "Eravamo vicinissimi al quartier generale militare bosgnacco. Mio padre sapeva che l'elettricità, che alimentava quell'edificio, passava proprio sotto la nostra finestra. Un giorno riuscì a deviare il cavo e allacciò la corrente elettrica all'abitazione, ma non potevamo accendere la luce per evitare di essere presi di mira dai cecchini. Dunque con le coperte sopra a un lampadario allestimmo una sola stanza illuminata in modo soffuso. E a turno anche i vicini che venivano godevamo della luce".

Il padre, Ermin, bosgnacco, è uno dei quattro sopravvissuti del proprio squadrone composto da trenta soldati. Nei giorni del 1993 Ermin, che ora vive fuori Mostar in una casa immersa tra boschi e fiume, si divideva in due: fino a quando è stato possibile la notte cuoceva il pane e lo distribuiva; la mattina imbracciava le armi. Anche per un mese non si avevano sue notizie. Oggi fra i reduci la domanda sorge prepotente: perché abbiamo combattuto, per assistere all'agonia di uno stato incapace di autodeterminarsi che costringe i giovani all'emigrazione? E scricchiolano le certezze dell'appoggio dei veterani dentro ai partiti che hanno alimentato la guerra, prosperando nella costruzione della separazione su base etnica.

"Questo è il punto – spiega Jasmin – non posso porre questa domanda a mio padre, perché non conosce la risposta. La maggioranza fra chi ha combattuto non ti risponderà. La vendetta per l'uccisione di qualche persona cara, forse, ma la vendetta non può essere uno stile di vita. Hanno fatto la guerra per difendere la propria casa, la famiglia, per l'opportunità di sopravvivere. Nel 1995 Mostar era una città di rovine, e si stenta a ritrovarla. La fabbrica della paura non ha chiuso i battenti, foraggiata dalla politica che ha l'interesse a mantenere alta la tensione. Non sapendo risolvere il passato, perdiamo il presente".

Il vero inferno che ha distrutto la città è stata la cosiddetta seconda guerra di Mostar, nel 1993, quando strada per strada è deflagrato lo scontro tra musulmani e croati. Mostar era una storia cosmopolita plurisecolare, culturalmente rilevante, ora rischia di divenire tante piccole storie insignificanti. Jasmin fatica a orientarsi nella topografia interiore di una città che cambia il nome alle strade, cancellando progressivamente il passato. Tocca muri ancora squarciati, che sono il riverbero di ferite non suturate. I quartieri più distrutti sono irriconoscibili dopo la ricostruzione, è smarrita la consapevolezza dei luoghi e degli spazi, soprattutto del magnifico patrimonio artistico architettonico che univa Oriente e Occidente, dall'Impero Ottomano agli austroungarici.

Le riflessioni del giovane Elezović sfiorano e convergono con quelle del concittadino Predrag Matvejević, che nel 1998 scriveva: "O mia città, sei proprio tu? Nonostante tutto non c'era ragione alcuna perché tutto questo dovesse accadere, e in questo modo: perché si distruggessero le case, i templi, i ponti – il vecchio ponte sulla Neretva. Ogni spiegazione mi appare sconveniente. La guerra non ha bisogno di moventi particolari per cominciare e per giustificarsi (per tentare di giustificarsi). A un certo punto si nutre della propria insensatezza e malvagità. Le conseguenze diventano nuove motivazioni, e queste provocano a loro volta nuove conseguenze: il male si rafforza e si conferma col male. Un'alternanza di tal genere non si può arrestare. Simili guerre durano anche dopo che sono state deposte le armi".

Per comprendere fisicamente Mostar occorre arrampicarsi sui ruderi della Staklena Banka, una costruzione mai portata a termine, poi utilizzata dai cecchini durante la guerra poiché mira l'intero contesto urbano. A ovest sulle alture della collina Planinica è stata recentemente dipinta una bandiera croata gigantesca e a poca distanza è stato divelto il memoriale Partizansko Groblje, architettonicamente maestoso, dedicato ai partigiani antifascisti della Seconda guerra mondiale. Sull'altro versante, a est, sul Fortica si legge «BiH Volimo te», Bosnia ed Erzegovina ti amiamo.

A poche centinaia di metri dalla Staklena Banka ci si imbatte nello scheletro di un edificio di estremo valore storico, affacciato sugli uffici dell'Osce. Era la casa del sindaco molto amato Mujaga Komadina, in carica dal 1909 al 1918, che univa Mostar e la portò nella modernità. Alla morte la sua abitazione divenne la biblioteca della città. Dopo la guerra 1992-94 la politica ha riscritto la storia e non c'è più uno spazio comune per la lettura, lo scambio e il dialogo con l'artificiosa separazione linguistica e l'accantonamento del dizionario serbo croato. La scuola con programmi diversi per croati e musulmani è divisa dalle elementari all'università: la Džemal Bijedić Univerzitet, fondata nel 1977 come uno dei pilastri dello sviluppo dell'Erzegovina, e la Sveučilište. Mostar ha sempre vantato una tradizione universitaria, qui si garantiva un'ottima preparazione.

Dopo essersi laureato Jasmin, a differenza della maggior parte dei coetanei, ha scelto di non emigrare. Ha aperto l'unica caffetteria che si trova nella città vecchia nei pressi del ponte ottomano Stari Most, costruito nel 1566, distrutto nel 1993 e riaperto nel 2004 con il progetto e soprattutto i soldi turchi e il lavoro di un'azienda di Ankara, Er-Bu, specializzata in costruzioni di epoca ottomana. Il ponte tuttavia ha perso la patina che lo contraddistingueva. "Nel giorno in cui si recupera dalla Neretva la parte centrale dell'arco del vecchio ponte, assisto a questo avvenimento con una strana emozione. Abbiamo visto gli ingegneri ungheresi che sollevavano con una grande gru, su una zattera, il troncone del vecchio ponte. Che non univa solo le due sponde di questa città, ma altresì le vie dell'Oriente e dell'Occidente. Tornerà a farlo?", si chiedeva Matvejević.

È difficile riparare le cose e in alcuni casi sono perse per sempre. Nel tentativo estremo di salvarlo dalla guerra, la popolazione ricoprì la struttura marmorea con pneumatici per proteggere i due lati della muratura. L'8 novembre 1993 crollò definitivamente nelle acque della Neretva, abbattuto dai colpi di mortaio dei militari dell'esercito croato-bosniaco HVO.

Caffè

Jasmin miscela, serve e racconta le mille storie del caffè bosniaco, nera bevanda, qui antico elemento di unione e condivisione. Otto mesi prima della deflagrazione della guerra la famiglia di Jasmin aveva aperto una caffetteria. Ermin mise poi al riparo i macchinari della bottega, che oggi arredano il locale sognato a lungo da Jasmin che ha poi reinventato lo spazio di una pelletteria, lavorazione importata dalla città di Visoko dove esisteva una tradizione plurisecolare. La caffetteria, situata nel cuore della città vecchia si sottrae alla contrapposizione est, ovest.

"Il caffè bosniaco è in realtà lo stesso di quello turco, greco, libanese, sudanese, giordano o libico – sottolinea – è preparato con un metodo primitivo, il caffè va direttamente nell'acqua bollente, come il tè. La differenza che lo distingue dal caffè turco è il modo in cui si consuma e serve. Al caffè mi ha avvicinato la passione per la conversazione, per l'incontro con gli altri".

La famiglia aveva tentato di riaprire il locale già alla fine del conflitto, ma non sussistevano le condizioni economiche. Nel 1997 con la spinta degli aiuti internazionali (5.1 miliardi di dollari furono stanziati per il primo programma per la ricostruzione, a fronte di danni stimati nell'ordine dei 15-20 miliardi con 1.2 milioni di rifugiati) la Bosnia toccò una crescita pari al 34%, poi si è progressivamente ridimensionata, 5% all'inizio del secolo, fino alla palude della crisi comunemente fatta risalire al 2009. L'economia locale a Mostar, ormai sostanzialmente deindustrializzata, insieme al turismo estivo e alle rimesse di chi ha vissuto la diaspora, non potrebbe fare a meno dei venticinquemila studenti che vengono soprattutto dall'Erzegovina, dal centro della Bosnia e in percentuale minore da altri luoghi di uno stato la cui architettura istituzionale appare sempre più nella sua incoerenza con la farraginosità della burocrazia che scoraggia gli investimenti.

Un terzo dell'economia è sommersa e i giovani che rimangono per sbarcare il lunario nella cosiddetta economia grigia devono mettere insieme un salario che raggiunga almeno i 250 euro. L'etnonazionalismo per i cittadini non è altro che una scelta pragmatica per ottenere dai partiti un lavoro.

Democratura

A ventidue anni dalla fine della guerra Mostar vive uno stato di democrazia formale, democratura, l'avrebbe definita Matvejević. Il due novembre in Bosnia ed Erzegovina si sono svolte le elezioni amministrative ed è l'unica città a non aver votato. Lo stesso giorno cinquemila cittadini di Mostar si sono ribellati allo stallo e hanno inscenato un simulacro elettorale. Dopo aver allestito vere e proprie urne, si sono recati a votare. Da otto anni non c'è il consiglio comunale. Formalmente il sindaco, per decisione del parlamento, rimane l'ultimo eletto, espressione del partito croato Hdz, mentre l'Sda bosniaco musulmano guida l'ufficio del bilancio. Non trovano un accordo per la riforma elettorale locale, che tuteli l'equa rappresentanza senza che prevalgano gli interessi di una delle fazioni e consenta di tornare al voto, ma spartiscono il potere. È una diarchia che sancisce e condanna la città alla separazione.

Il dato politico ineludibile, che emerge da qualsiasi fonte interpellata a Mostar, è la lenta ma inesorabile agonia degli Accordi di pace di Dayton, che istituzionalizza de facto una divisione etnica amministrativamente e socialmente ingestibile. Nonostante la propaganda estremistica mancano i soldi e gli armamenti per fare la guerra, ma la paralisi sociopolitica non può durare a lungo: preoccupano gli esiti.

Questa città è piena di ponti, ne sono stati ricostruiti sette dei dieci distrutti durante la guerra, ma pochi ancora li attraversano: a est i musulmani, a ovest i croati. Il 70% degli attuali abitanti è arrivato dopo la guerra, per programmazione politica e in fuga soprattutto dall'est dell'Erzegovina, e non aveva la cultura urbana dei mostarini. Lo stesso destino di Vukovar, altra città martoriata come Mostar, che contava 84mila abitanti fra croati, serbi, ungheresi, cechi e altri in un nucleo urbano cosmopolita. Il cosmopolitismo è stato il principale nemico da abbattere con la guerra.

Jasmin asseconda il ritmo lento della propria terra, dove il sole splende anche d'inverno, l'aria è pulita come l'acqua dei fiumi Neretva e Radobolja che l'attraversano. Il caos della non distante Sarajevo non lo attrae. Ama il vento che spira forte, le montagne che cullano Mostar. Sostiene che camminare nei boschi lo aiuta a dimenticare la pessima attualità politica. Sta attivando un progetto per il recupero dell'artigianato locale, specializzato nella lavorazione del rame. "Non lascio la città a chi intende alimentare l'odio e perpetrare il dolore – conclude – della guerra conservo la capacità che ti dà di riconoscere la felicità, quando si presenta in piccoli frammenti di tregua".