Un commento sulla persistente tendenza di alcuni media ed istituzioni a confondere Islam e terrorismo. Il caso della Bosnia Erzegovina. Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Di Azra Nuhefendic
Più del 55,8% dei bosniaci sono poveri e guadagnano meno di 3.000 euro l'anno, si legge nel rapporto annuale dal Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (UNDP); nel documento si precisa che la povertà in Bosnia è diffusa e costante.
In un altro rapporto, del Governo americano (Country Report on Terrorism, April 2007), si legge che: "la Bosnia Erzegovina è uno Stato debole... Potenzialmente facile da utilizzare per i terroristi".
La notizia sulla povertà dei bosniaci non ha suscitato alcun interesse, ma la seconda è stata utilizzata (giocando con le parole e deformandone il contenuto) per mettere in guardia, ancora una volta, sul "pericolo dei musulmani bosniaci".
Lo scrittore e professore all'Università La Sapienza di Roma, Predrag Matvejevic, scrive a proposito che "negli sforzi di imputare il terrorismo ai bosniaci partecipano, purtroppo, alcuni nazionalisti serbi e croati. Essi diffondono le idee e le opinioni che sostengono che tutti i musulmani sono terroristi, ... un popolo intero (bosniaco) viene presentato come terrorista. E' inaccettabile".
Tranne il caso del giovane svedese, di origine bosniaca, Mirsad Bektasevic (riconosciuto colpevole e condannato perchè aveva progettato, nel 2005, un attentato contro un paese europeo), non si sono mai verificati casi di bosniaci-terroristi, bosniaci fattisi saltare in aria, o donne bosniache - kamikaze.
Più di 60 mila soldati delle forze internazionali hanno finito il proprio mandato in Bosnia, senza neanche un morto o ferito.
L'unica volta in cui le forze internazionali in Bosnia furono messe in pericolo fu nel 1994, quando i serbo bosniaci presero in ostaggio i soldati dell'UNPROFOR, legandoli ai pali delle bandiere e agli alberi (umiliando cosi l'ONU e tutta la comunità internazionale).
Nonostante i fatti si nota la persistenza di tesi sulla Bosnia come "avamposto dell'islam in Europa", "implicata nella rete terroristica", "repubblica islamica, fondamentalista", o dei "terroristi con gli occhi azzurri" (utilizzata nel programma RAI "Ballarò" senza la presentazione di alcuna prova né prima né dopo la trasmissione), e recentemente ripresa da un giornalista italiano che scriveva dei "jihadisti alti, biondi e con gli occhi azzurri... cioè bosniaci".
Affermazioni del genere non sono niente altro che ripetizioni di quello che dicevano i nazionalisti serbi e croati come pretesto per attaccare e dividere la Bosnia. Durante la guerra essi si presentavano come un «baluardo contro il pericolo islamista» per meglio giustificare lo smembramento della Bosnia-Erzegovina, strumentalizzarono un'equazione menzognera: "maggioranza musulmana uguale maggioranza islamista" (Le Monde Diplomatique", gennaio 2006).
Il fatto è che i mujahedin sono stati in Bosnia nel 1993-1995, ma non - come si insiste - perché "le società musulmane (e per definizione anche quella bosniaca) nutrono e sostengono una mentalità terroristica", (Martin Jacques, London School of Economic), ma perché i combattenti islamici furono portati in Bosnia grazie all'impegno collettivo degli Stati Uniti, Turchia, Iran e Arabia Saudita.
Il ruolo del Pentagono nel trasporto dei mujahedin in Bosnia è stato confermato dal diplomatico americano Richard Holbrooke. Nel suo libro "Fermare la guerra" ("To end a war") scrive che i musulmani bosniaci non avrebbero potuto sopravvivere agli attacchi dei serbi senza l'aiuto dei mujahedin. "Fu un patto con il diavolo, dal quale la Bosnia non si e' ancora ripresa", precisa lo stesso Holbrooke.
Holbrooke era un po' scettico circa i rapporti tra i «rigidi musulmani fondamentalisti dei paesi arabi e i secolari musulmani bosniaci, che non si capiscono, né mescolano bene».
Del patto segreto tra il Pentagono e i militari islamici scrive nel suo libro il professore olandese Cees Wiebes, dell'Università di Amsterdam, "Intelligence and the War in Bosnia", ("I servizi segreti e la guerra in Bosnia). Il prof. Wiebes ha scavato per cinque anni nei documenti di vari servizi segreti, e ha scritto un libro che viene considerato come il più autorevole e dettagliato rapporto sulle operazioni coperte, intercettazioni, sugli agenti, le varie agenzie e i servizi segreti durante la guerra in Bosnia.
Sul numero totale dei mujahedin portati in Bosnia gli esperti non sono d'accordo. Un ufficiale americano, il colonnello John Sray (di stanza a Sarajevo durante la guerra) ritiene che in Bosnia c'erano circa 4.000 mujahedin; secondo il prof. Wiebes "non ci sono numeri precisi sui combattenti stranieri in Bosnia"; in un rapporto delle Nazioni Unite si cita un numero di 600 (lo stesso rapporto parla anche dei mercenari russi e greci, che combattevano dalla parte dei serbi, e dei mercenari nelle forze croate); gli americani ritengono che tra il 1993 e il 1995 in Bosnia c'erano tra i 1.200 e i 1.400 mujahedin in totale.
Il compito dei mujahedin in Bosnia fu quello di agire come truppe d'assalto contro i serbi, scrive Brendan O'Neill, il giornalista inglese e editore della rivista "Spiked-online".
Ma presto essi si liberarono da qualsiasi controllo. Già nel 1993-1994 i mujahedin portati in Bosnia si facevano fotografare con teste tagliate di serbo bosniaci. Nelle parole del famoso colonnello dell'armata Bosniaca Stjepan Siber, i combattenti islamici hanno compiuto atrocità che "erano contrarie all'immagine e alla causa giusta dei bosniaci".
I mujahedin in Bosnia si sono anche messi a fare ordine nella vita quotidiana della gente locale, ad aggiustare il loro concetto di vita. Nelle città della Bosnia centrale aggredivano le bosniache che non si vestivano nel "modo musulmano", picchiavano le coppie di giovani perché si tenevano per mano. Un episodio grave avvenne quando i mujahedin picchiarono le ragazze di Zenica che prendevano il bagno nel fiume. I ragazzi locali non ne potevano più: si sono scontrati con i mujahedin. Fu un incidente grave con feriti, detenuti, incarcerati.
I mujahedin sono stati coinvolti anche in casi di rapine e banditismo.
La stampa locale scriveva di questi casi, ma timidamente. La gente comune, i giornalisti, anche la polizia, tutti temevano i mujahedin che erano alleati dei politici del partito SDA, e dell'allora presidente bosniaco Alija Izetbegovic.
Finita la guerra in Bosnia, firmato l'accordo di Dayton, i mujahedin dovettero - come previsto dall'accordo - lasciare la Bosnia entro un mese. Per eseguire questa decisione si impegnarono vari servizi segreti di paesi occidentali presenti in Bosnia. La maggior parte dei mujahedin lasciò il Paese. Rimasero tra 400 e 600 militari islamici, quelli che si sono procurati la cittadinanza bosniaca sposando donne locali, o cui la cittadinanza e' stata regalata per meriti di guerra.
Un gruppo di loro aveva occupato il villaggio di Bocinje, nella Bosnia centrale, abbandonato dagli abitanti originari, i serbi. Là avevano creato una sorta di "para-comunità". Armati, facevano la guardia alle entrate del villaggio. Non lasciavano entrare né la polizia né i militari. Le loro donne giravano completamente coperte dal chador.
Presto Bocinje diventò un caso pesante per il presidente Alija Izetbegovic. Lui si sentiva in debito con i mujahedin e con i paesi islamici, che avevano aiutato la Bosnia, ma nello stesso tempo gli americani lo esortavano a liberarsi dagli alleati scomodi.
Alla fine i mujahedin hanno dovuto lasciare anche il villaggio di Bocinje. Nel gennaio 2001 l'agenzia di stampa inglese Reuters ha riferito che "i mujahedin hanno lasciato Bocinje", e la maggior parte di essi, ha lasciato anche la Bosnia.
Tra quelli che rimasero in Bosnia (che avevano ottenuto la cittadinanza bosniaca), dopo l'11 settembre furono arrestati 6 algerini, deportati a Guantanamo, per i loro presunti collegamenti con organizzazioni terroristiche.
Per la stessa ragione, certe organizzazioni umanitarie che operavano in Bosnia, finanziate dai paesi musulmani, sono state chiuse.
"Non ci sono prove che in Bosnia c'erano o ci sono campi d'addestramento di Al-Qaeda ", ha dichiarato per il giornale americano "The Christan Science Monitor" (24 Aprile 2004), un diplomatico occidentale a Sarajevo, che ha chiesto l'anonimato.
Sullo stesso argomento il muftì di Bosnia e Herzegovina, Mustafa Ceric, ha voluto "assicurare che gli americani, per quanto riguarda la Bosnia e il terrorismo, possono dormire tranquillamente".
La parola pubblica e' un'arma molto potente. Il famoso dissidente della Jugoslavia, Mihailo Mihailov, scriveva: "Il male comincia con la parola, e ogni bugia provoca una sanguinosa conseguenza nel mondo fisico. Il coltello e il proiettile possono uccidere una, o alcune persone, mentre con la bugia, ispirata dall'odio, se ne uccidono milioni".
Per questo il "sine qua non" d'ogni giornalista, e di ogni persona pubblica che aspira all'integrità personale e professionale, è la responsabilità. La responsabilità per la parola detta e scritta. Senza la responsabilità non c'è giornalismo, e non dovrebbe esserci impegno pubblico, altrimenti si entra in oscuri affari di propaganda e diffamazione, dove gli addetti hanno un altro nome e fanno un'altra professione.