Un film sui Balcani, sulla verità e le sue manipolazioni, sul rapporto perverso tra guerra e sistema dell'informazione. Di Giancarlo Bocchi, con la collaborazione di Gigi Riva. Nelle sale dal 7 maggio
Nella guerra bosniaca, dove profughi impazziti cantano nei boschi canzoni allucinate, per convincersi che è ancora il 1990, prima dell'inizio della fine, il soggetto è la verità. La colonna sonora, incessante, i suoni della guerra. Così le immagini: case incendiate, assalti ai treni, conferenze stampa improvvisate nelle casematte, matrimoni con la morte. Un giornalista italiano (Vincent Riotta), cui si unisce un giovane collega belga (Fabrizio Rongione), deve raggiungere il comandante Jako. Per una volta, però, la figura centrale della narrazione è l'interprete (Zan Marolt), vero muro di gomma che traduce e rimanda ai giornalisti stranieri quello che immagina vogliano sentirsi dire. Tanto non importa, e poi: "Qui pensiamo tutti lo stesso." Quindi, le risposte le può dare chiunque. Insieme a una ragazza, Labina Mitevska, i tre devono entrare nella cittadina assediata di Vaku. Le notizie che i giornalisti inviano alle redazioni sono inventate, ma il gioco non è a senso unico e anche i manipolatori sono manipolati. Nessuno è innocente, e alla fine il circo dei media vive di vita propria. Anzi, combatte insieme agli eserciti.
La verità è la prima vittima della guerra, uno dei passaggi centrali della sceneggiatura. E in questo racconto, proprio a nessuno interessa resuscitarla. L'importante è avere una storia. Domani, nessuno se ne ricorderà. Fin qui, niente di nuovo. Interessante però la trasformazione delle comparse del dramma - i giornalisti. Sia quello maturo, e rotto a tutte le esperienze, che il giovane idealista, non hanno vita propria, né possono averla. La loro incapacità di raccontare non è casuale, ma strutturale. L'etica individuale (professionale?) - quand'anche presente - viene triturata all'interno di un sistema dell'informazione indifferente alla verità, basato sulla velocità di una competizione che premia chi racconta - per primo - la storia più scioccante.
Su questa base sistemica si innesta poi il narcisismo dei protagonisti/comparse: "Perché l'uomo non vede le cose? Perché vi ha interposto se stesso: egli nasconde le cose." La citazione nietzschiana, frapposta alle molte altre digressioni sulla verità che compaiono sul sito di presentazione del film, ci rammenta infatti la seconda chiave di lettura della narrazione, la inarrestabile volontà di interferire di chi quei fatti dovrebbe solo raccontarli, così come accadono. La impossibilità di capire, sistemica, si mescola così al protagonismo individuale e alla necessità/volontà di capire - e raccontare - per forza. Il mix è letale, descrive bene l'attuale stato dell'informazione.
Il meccanismo, infine, si autoalimenta, e alimenta il conflitto. In chiusura, il giovane giornalista (ex idealista?) ha bisogno di un'altra guerra. Sanja, la giovane protagonista (Zamira in "Prima della pioggia" di Milcho Manchevski), no. Le è bastata la sua.
Giancarlo Bocchi, regista, autore di diversi documentari sui conflitti (Afghanistan, Irlanda del Nord, Messico, Palestina, Tajikistan), ha già realizzato sui Balcani "Morte di un pacifista", dedicato alla vicenda di Gabriele Moreno Locatelli, "Mille giorni di Sarajevo", "Sarajevo Terzo Millennio" e "Fuga dal Kosovo". Nema problema è il suo primo lungometraggio, sceneggiato insieme a Gigi Riva. L'esperimento è interessante, sia per il (difficile) tema trattato che per la capacità di riunire in una unica produzione esperienze e provenienze europee e dei Paesi dell'area balcanica. Girato nella zona di Usora-Tesanj-Doboj, tra Federacija BiH e Republika Srpska, a ridosso della surreale "zona di separazione" che divide le due Entità bosniache, la location del film è pressappoco la stessa del recente "Gori Vatra" (Al fuoco!, di Pjer Zalica), girato proprio a Tesanj. Il paragone si interrompe qui. La forza del nuovo cinema (ex) jugoslavo, in questo scorcio di nuovo millennio, sembra ancora irraggiungibile dalle produzioni italiane, troppo serie, concentrate su storie deboli, senza la freschezza delle invenzioni, l'autoironia (soprattutto), lo humour nero balcanico. In Nema Problema non si ride neanche una volta. Ovvio, non c'è niente da ridere. Il registro narrativo monocorde, tuttavia, ingessa il risultato finale. Merito del regista quello di essere riuscito a riaprire la riflessione su tematiche centrali in questi sciagurati anni di guerre, a partire da quella del rapporto tra informazione e conflitto che, ovviamente, non si esaurisce con i Balcani. Basta considerare il caso iracheno, dove la battaglia in corso per il controllo del territorio si accompagna a quella (globale) per il controllo della informazione su quella battaglia. Problema, ima.