Leonardo Bancher

Due destini tragici, accomunati dal desiderio di giustizia e dal coraggio di scendere in campo, a costo della vita

09/04/2020 -  Edvard Cucek

(Articolo originariamente pubblicato sul numero di febbraio 2020 della rivista "Trentini nel Mondo")

È stato il semplice sfogliare un libro regalatomi dall’amico e coautore Tihomir Knežiček a suscitare il mio interesse per la famiglia Bancher. Per raccontare la storia completa di questa famiglia straordinaria ci vorrebbe molto più spazio e di certo la mano di qualcuno all’altezza del compito. A questo modesto tentativo di raccontare i Bancher dovrebbero seguirne molti altri. Il Trentino dovrebbe sapere quanti suoi «figli» si sono avventurati per il mondo, arricchendolo di idee nobili e gesta eroiche.

Secondo il mio modesto punto di vista sono Leonardo Bancher e il figlio Bruno a meritare di essere ricordati nella storia trentina e bosniaca ed è per questo che mi appresto, pur azzardandomi un po’, a proporre al pubblico italiano, specialmente quello trentino, quanto già descritto nella monografia «Stoljeće Italijana u Tuzli» (Secolo degli Italiani a Tuzla), cercando di offrire qualche dettaglio in più proveniente da altre fonti attendibili. Una storia che inizia a Siror nel Primiero e finisce su un ponte a Sevran nella Parigi occupata dai nazisti. Una storia che forse, almeno finché rimarrà viva nella nostra memoria, potrebbe e dovrebbe non finire mai.

I Bancher erano originari del Primiero. Nel 1911 il capo famiglia Luigi Domenico Bancher, muratore che per lavoro si era già spostato in diversi paesi del mondo, decise, assieme alla moglie Francesca Zanetell e ai tre figli, di insediarsi a Tuzla, in Bosnia-Erzegovina (all’epoca ancora parte dell’Impero Austroungarico) per cercare un po’ di fortuna. I figli Simone e Leonardo conobbero la Bosnia fin da giovanissimi. I ricordi del paese natio e delle montagne tirolesi che coltivava Leonardo, il più giovane, erano probabilmente molto pochi. Tuzla e la Bosnia divennero la loro nuova patria. Nonostante fossero circondati da molti connazionali, comprese tante famiglie tirolesi di artigiani arrivati alla fine del 19° e all’inizio del 20° secolo, i Bancher legarono molto di più con la popolazione locale e vissero il periodo tra le due guerre mondiali come se avessero le loro radici in quelle terre ormai da secoli.

Leonardo Bancher, la moglie Ljubica ed i tre figli,

tra cui il maggiore, Bruno

Leonardo Bancher prese parte alla Prima Guerra mondiale. Come recluta trascorse l’ultimo anno della guerra nei Carpazi, dove si avvicinò alle idee socialiste e rivoluzionarie. Come molti altri soldati dell’esercito austriaco, ritornò in Bosnia entusiasmato dalla Rivoluzione d’ottobre, impressionato dall’operato di Lenin e dalle sue teorie sul futuro della classe operaia.

Da quel momento Leonardo iniziò a schierarsi apertamente in favore degli operai, che nella Prima Jugoslavia della dinastia dei Karadjordjević vivevano in condizioni estremamente sfavorevoli.

Convinto sostenitore della parità dei diritti

Professionalmente seguì le orme del padre, diventando un muratore molto apprezzato, ma nel suo intimo era innamorato dei libri. Oltre ad essere un avido lettore era anche un abile musicista, una persona umile, sincera e sempre disposta ad aiutare chiunque ne avesse bisogno.

Già nel 1919 Leonardo Bancher insieme al fratello Simone ed altri tirolesi-trentini, tra cui anche la famiglia Mott, iniziò a militare all’interno del movimento in favore dei diritti della classe operaia. Nel 1920 sposò Ljubica Jerkić, la donna che rimase accanto a lui per tutta la vita, condividendo gli stessi ideali di vita sulla parità dei diritti come imprescindibile condizione per la costruzione di un mondo migliore.

Nello stesso anno entrò in vigore il «Decreto» del Governo del Regno dei Serbi, Croati e Sloveni (successivamente Regno di Jugoslavia), conosciuto come «Obznana». Il decreto proibiva definitivamente lo svolgimento delle attività del Partito Comunista, terzo partito nel parlamento, mettendo di fatto i suoi aderenti in una posizione di illegalità.

Oltre a questo gesto, che rappresentò di fatto il prodromo dell’avvento della dittatura, i diritti degli operai, seppur garantiti dalla nuova Costituzione, furono drasticamente ridotti. Per ribadire questa decisione, il governo di Belgrado nell’anno successivo introdusse la «Legge sulla protezione dello Stato», che negava totalmente anche il minimo spazio di azione ai rappresentanti dei lavoratori nell’esercizio dei propri diritti attraverso mezzi legali.

Punto di riferimento per gli operai di Tuzla

In quelle circostanze, le famiglie trentine Bancher e Mott, si impegnarono in modo inaspettato e senza risparmiarsi. Inizialmente sostenendo la causa e diventando via via i veri artefici e punti di riferimento per il movimento degli operai nella regione di Tuzla.

Pur non avendo radici slave, si fecero portavoce e divulgatori di quelle idee che aspiravano ad unire gli operai di tutta Europa.

Raccontare le imprese di Leonardo Bancher non è affatto semplice. Fortunatamente tanti ricordi e episodi sono stati salvati nell’importante volume dedicato alla lotta operaia intitolato «Tuzla u radnickom pokretu i revoluciji» (Tuzla: il movimento degli operai e la rivoluzione).

La regione di Tuzla, industrializzata ancora dai tempi dell’Impero Austroungarico, era considerata un centro all’avanguardia. Il numero degli operai impiegati nelle fabbriche superava di gran lunga quello degli agricoltori. Per affrontare le cause della lotta operaia Leonardo si unì al neofondato movimento «Comitato di Tuzla» rimanendovi fedele fino alla sua tragica morte.

Quando su iniziativa del grande rivoluzionario Mitar Trifunović Učo, venne fondata la prima Associazione sportiva degli operai, «Gorki» (poi denominata «FK Sloboda»), Leonardo entrò da subito nel consiglio direttivo per diffondere le idee socialiste e rivoluzionarie tra i giovani atleti, diventando anche un abile dattilografo. Divenne il più abile distributore del materiale informativo, proibito in quanto incitava la classe operaia ad organizzarsi, iscriversi ai sindacati e opporsi alle oppressioni del governo. Scriveva per una pubblicazione clandestina intitolata «Fabbrica e campo», diventando di fatto un vero insegnante rivoluzionario e trasformando la casa dei Bancher nel vero quartier generale del movimento.

Nel dicembre del 1932 Leonardo Bancher insieme ad alcuni compagni fu tradito da un collaboratore, e successivamente arrestato ed imprigionato. Dopo aver retto le accanite torture interrogatorie, venne condannato a cinque anni di carcere duro, terminato il quale tutta la famiglia avrebbe dovuto essere estradata in Italia senza diritto di ritorno.

Anche in carcere lotta per la causa operaia

Leonardo venne dapprima processato a Belgrado e successivamente trasferito nel carcere di Sremska Mitrovica, dove continuò a diffondere le proprie idee tra i prigionieri, creando una rete di comunicazione che permetteva lo scambio di messaggi in codice senza bisogno di parlare o vedersi. Non smettendo nemmeno in carcere di promuovere la causa operaia, decise di aderire al grande sciopero dei carcerati del 1933, atto che compromise in maniera grave la sua salute.

Morì all’ospedale di Belgrado l’11 maggio del 1936 e fu sepolto già il giorno successivo nel cimitero ospedaliero. Poco prima del decesso ricevette la visita di tutta la famiglia. L’ultima immagine che conservano i suoi figli è quella del loro padre molto provato e in attesa di una donazione di sangue, pratica le cui spese erano all’epoca interamente a carico della famiglia del malato. Nonostante la trasfusione Leonardo non riuscì a farcela e la notizia del suo decesso portò ad una serie di sollevazioni popolari sia a Belgrado che a Zagabria. Alla vedova Ljubica fu inviata una lettera di solidarietà, speciale ed unica in quanto scritta e firmata da 136 prigionieri politici, tutti coloro che avevano condiviso quotidianamente le sofferenze assieme a lui.

Due giorni dopo la scadenza dei cinque anni di prigionia ai quali era stato condannato l’ormai defunto Leonardo, a casa dei Bancher si presentarono gli agenti di polizia con un documento della prefettura che obbligava la vedova Ljubica e i tre figli minorenni a lasciare il Regno di Jugoslavia, e dirigersi verso quello che era stato indicato come il loro «paese di provenienza», ovvero l’Italia di Mussolini, un luogo dove non si prospettava certo una situazione di vita ideale.

Ai bambini fu vietata l’iscrizione scolastica per l’anno 1937/38, e nel dicembre del ’37 vennero formalmente rilasciati i lasciapassare per tutta la famiglia.

La famiglia Bancher era molto stimata e conosciuta, e questo fece si che i numerosi compagni si adoperassero per trovare una soluzione in modo da evitare che dovesse espatriare per stabilirsi nell’Italia fascista.

Grazie ai fondi del cosiddetto «Aiuto Rosso» riuscirono a procurarsi dei biglietti e gli inviti per la famosa esposizione internazionale «Arts et Techniques dans la Vie moderne», la cui inaugurazione era prevista a Parigi nel maggio del 1937. Un’impresa tanto folle quanto geniale.

Verso la Francia con meta Sevran

I Bancher arrivarono in Slovenia, dove furono ospitati da una serie di conoscenti e militanti comunisti sloveni, e proseguendo il loro viaggio, anziché dirigersi verso il confine italiano, vennero «dirottati» verso l’Austria da dove, attraverso la Svizzera, raggiunsero la Francia. La destinazione finale avrebbe dovuto essere la Russia, ma un insieme di circostanze sfortunate impedì loro di arrivarci. La famiglia si stabilì a Sevran, nella periferia parigina, in un appartamento situato sopra al bar gestito dalla famiglia Goudard. L’edificio esiste ancora, ed oggi è conosciuto come «Place Gaston Bussiere».

Madre e fratello sulla tomba di Bruno Bancher

Ljubica si diede da fare fin da subito lavorando come donna delle pulizie, mentre Bruno, ormai sedicenne, si iscrisse alle scuole professionali per seguire la tradizione di famiglia e diventare muratore. Furono loro due, una volta esauriti gli aiuti dei fondi solidali, ad occuparsi dei piccoli Vesna e Rinaldo.

La convinta adesione all'appello di De Gaulle

Anche se la moglie di Leonardo, Ljubica, dopo averlo sposato si era impegnata nel movimento degli operai e nei sindacati socialisti svolgendo operazioni di alto rischio e si era iscritta già nel 1923 al Partito comunista, il vero erede del padre rivoluzionario è stato il figlio maggiore, Bruno Bancher. Bruno nacque a Tuzla il 6 ottobre 1923 e non a Lubiana (Slovenia) nel 1922, come sostengono alcune fonti, prevalentemente francesi, basandosi su quanto scritto dall’autore francese Harlay André nel libro «Souvenirs de Bruno Bancher».

Harlay è sfortunatamente uno dei pochi, se non l’unico autore, ad aver dedicato delle pagine alla storia di questo giovanissimo eroe, originario della Bosnia ma con sangue trentino. Spero vivamente che in futuro altre persone possano raccontare in maniera esatta la storia di Bruno, correggendo i dati anagrafici scorretti finora diffusi. Grazie a Tihomir Knezicek e ad altri amici di Tuzla, siamo riusciti ad ottenere una copia del certificato di nascita di Bruno, e una serie di altri documenti che rendono questa storia, già di per sé straordinaria, ancora più particolare per la comunità trentina in Bosnia Erzegovina, così come per i cittadini di Tuzla.

Il leggendario annuncio del 18 giugno 1940, trasmesso sulle onde di Radio Londra, attraverso il quale Charles de Gaulle chiese ai francesi di continuare la lotta clandestina contro il Terzo Reich, non lasciò Bruno indifferente. Già nel 1941, ancora minorenne, prese parte alla Resistenza francese. Fu coinvolto in varie operazioni, compresa la liberazione di Sevran, il quartiere dove viveva.

All’inizio del 1944 fu costretto a sospendere le attività in quanto costretto ad arruolarsi nell’organizzazione «TODT», il cosiddetto «esercito dei muratori», mandati a terminare la costruzione del Vallo Atlantico (una muraglia cementificata sulle coste dell’Atlantico affiancata da una serie di fortificazioni pensate dal Terzo Reich per impedire lo sbarco degli Alleati).

Bruno non resistette a lungo. Riuscì a fuggire, e dopo un periodo passato a nascondersi nel quartiere di Saint-Germanin-en-Laye, protetto da un conoscente partigiano, si unì al movimento dei FTP (Franc-Tireurs et Partisans), all’interno della cosiddetta «Legione Garibaldina», diventando in poco tempo il comandante del 143° plotone.

Per tutto il 1944 Bruno Bancher organizzò e condusse diverse azioni per liberare Sevran e tagliare i collegamenti ferroviari verso il resto della città. Il 27 agosto durante un attacco di artiglieria nazista Bruno fu gravemente ferito nel tentativo di fermare un soldato tedesco, un’azione che si rivelò fatale. I compagni riuscirono a soccorrere Bruno ma il tentativo di salvargli la vita non ebbe successo. Morì il giorno dopo a soli 21 anni.

Una vita dolorosa ma dignitosa

La sua tomba si trova ancora oggi nel cimitero di Sevran e il viale che porta sul ponte dove la sua breve ma intensa vita finì oggi porta il suo nome, Bruno Bancher Avenue. Non credo che i residenti conoscano il suo percorso di vita affascinante, doloroso ma incredibilmente dignitoso.

Vale la pena ricordare che fino agli anni Novanta, a Tuzla ci fu anche una via intitolata a suo padre.

Alla moglie e madre di questi due eroi alla fine della guerra fu consegnata la Medaglia della Legione d’onore, principalmente per i meriti di Bruno ma anche per onorare il suo impegno e quello del fratello minore Rinaldo, che combatté in Jugoslavia a fianco dei partigiani di Tito fino al termine della guerra.

Nel corso dei miei approfondimenti ho potuto constatare come i documenti in italiano a disposizione di chi voglia intraprendere una ricerca su questa storia siano drammaticamente scarsi. Uno dei pochi testi che ho avuto modo di approcciare, è stato quello di Chiara Gobber, che nella sua opera «Letteratura del migrante- Mondo ex e tempo del dopo: un progetto interculturale sui Balcani», tocca l’argomento menzionando Leonida Bancher, nipote di Leonardo Bancher, scrivendo una riflessione sulle memorie di Leonida durante gli anni ’80, riflessione che verrà inserita all’interno di un’enciclopedia jugoslava pubblicata nel 1987.

 

(ha collaborato Alice Sommavilla)