La Bosnia che ripiomba nell'incubo. E pochi giorni dopo ne esce, come se nulla fosse successo. Che ne pensano Sladija, Azra, Nikolina di questo irreale risveglio "quasi europeo"?

17/12/2007 -  Michele Nardelli

«In ogni caso, né mio padre, né mio fratello andranno di nuovo in guerra». Sladija chiude con queste parole un suo breve intervento. Siamo a Prijedor, nelle affollate stanze della Agenzia della Democrazia Locale, in un incontro della programmazione partecipata. Lo dice sorridendo, ma la cosa è seria, molto seria. Ne hanno parlato in casa, nei giorni in cui sembrava che la crisi di nuovo precipitasse. E hanno deciso che non si faranno più coinvolgere dalla follia di apprendisti stregoni che nonostante quanto è tragicamente avvenuto negli anni '90, continuano a giocare col fuoco.

La percezione degli avvenimenti era dunque maledettamente seria. E diffusa. Azra in quei giorni era a Mostar e lì, lontano da casa, le notizie sembravano ingigantirsi. Senza gli amici e le persone più care ci si scopre inaspettatamente fragili, come se il passato ritornasse prepotentemente davanti a sé. Come se il luogo del ritorno - quella città, Prijedor, dove ricostruire la propria vita è già stato fin troppo doloroso - rappresentasse un'ancora a cui aggrapparsi nell'indisponibilità ad un nuovo esilio.

Il marito al telefono la rassicurava, «non si fanno guerre senza eserciti» le diceva con l'ingenuità di chi non vuol più saperne di armi e violenza, ma la sua sensibilità femminile la riportava indietro nel tempo. Eppure Azra è una donna forte, che vuole sfuggire alla logica dello schierarsi secondo logiche di appartenenza anche di fronte al richiamo della foresta. Ed è orgogliosa che il suo punto di vista - proposto (e rimasto isolato) all'Assemblea municipale di cui è presidente - corrisponda esattamente alla mediazione che ha portato alla firma degli Accordi di stabilizzazione e accessione.

«Oluja je prosla» dice Nikolina, la tempesta è passata. Nella discussione non ci si sottrae all'ironia balcanica, a proposito del fatto che dopo la tempesta (oluja dva, suggerisce Sead), come per magia, gli stessi protagonisti dell'esibizione muscolare appaiano ritratti sorridenti fra gli alti funzionari della Commissione come gli artefici del passo decisivo verso l'Europa.

Situazione "normala" - scrive Denis - ma non per questo meno paradossale, anche se l'impressione è che questa volta costoro abbiano passato la misura. La sensazione di essere stati prigionieri di una situazione artificiale, come dice Branka, è molto forte.

Perché se è vero che l'incubo non si è mai dissolto, il riecheggiare della paura, il vuoto degli scaffali nei supermercati, i prezzi alle stelle dei taxi e di alcuni generi alimentari, hanno avuto l'effetto di un risveglio. E il giocattolo in mano agli attori consumati di questo teatro dell'assurdo si è come spezzato, mettendo a nudo l'ipocrisia di una leadership che ha fondato il proprio consenso sulla rappresentazione "etnica" degli avvenimenti e delle contraddizioni che lacerano la Bosnia Erzegovina. E che, irresponsabilmente, non esitano a ricacciare la dolce Bosnia in un ingorgo "geopolitico" che dal Kosovo si riflette nel Caucaso e poi di nuovo nei Balcani, in quella Republika Srpska che non ha ancora accettato di essere parte di uno stato - quello della BiH - che a sua volta fatica ad accettare una dimensione federale.

Ma ciò nonostante i giorni di crisi hanno mostrato una società vulnerabile, ancora con i nervi scoperti e priva di elaborazione di ciò che è accaduto dieci anni fa, quasi che il tempo si fosse fermato a Dayton, per procedere invece a ritmi impazziti nei sotterranei della vita delle persone, troppo prese dalle proprie disgrazie per trovare le forme e il tempo per riflettere su quelle degli altri.

Ora però che tutto sembra essersi sgonfiato, non ci sono nuove tragedie da strumentalizzare, lutti e dolore da usare contro la disumanità dell'altro. E allora, questo risveglio "quasi europeo" ha qualcosa di troppo stravagante per non far interrogare la gente sulla strumentalità della propria classe dirigente. E fors'anche sull'imbroglio degli anni '90... Perché in fondo la riconciliazione non può che passare da qui.

Un paese stanco di guerra e di esibizioni muscolari, che s'interroga finalmente e senza rancore su quel che è accaduto, potrebbe forse mostrare l'orgoglio di cui è capace per aprire una pagina nuova, magari decidendo che può fare da sé, senza più internazionali fra i piedi, capaci solo di accreditare l'idea di una guerra etnica secondo il cliché di popoli - come dice Massimo - irrimediabilmente condannati alla violenza. Le parole di Sladija mi fanno pensare - per la prima volta in dodici anni - che forse non è impossibile.