Diario di un ritorno al paese natale, tra criminali di guerra e nuove chiese. Una gita nel passato e nel presente di Prozor, sonnolenta cittadina bosniaca
Una sintesi di questo articolo è apparsa il 4 marzo sul quotidiano Il Piccolo
Sabato scorso, diversamente dal solito, a Prozor la partita di pallacanestro non si è giocata. Il giocatore chiave, Darko Dolić, è stato arrestato. È “un personaggio”, ma anche se così non fosse, a Prozor, cittadina nella Bosnia centrale, si conoscono tutti. La reputazione, Dolić la deve alle partite che giocava durante la guerra in Bosnia. A soli vent’anni si era distinto: maltrattava, torturava i musulmani di Prozor, saccheggiava le case, stuprava le donne musulmane tra le quali una, allora minorenne, ripetutamente. Adesso sta aspettando il processo in carcere. È accusato di crimini di guerra.
Dopo la guerra aveva aperto un bar. Per smaltire i chili accumulati dalla vita sedentaria, di sabato giocava a pallacanestro, con quelli che erano sopravvissuti al suo eroismo. “Ma lo sapevate che era un criminale di guerra?”, chiedo stupita a un giocatore della squadra avversaria. “Beh… sì… niente… cosa potevamo fare… la vita va avanti...”, balbetta uno che all’epoca della guerra aveva quindici anni. Lui stesso, con il papà e gli zii, finì nel campo di concentramento Dretelj, vicino a Mostar, che i croati bosniaci avevano allestito per i loro fino-a-ieri alleati musulmani.
Prima della guerra i musulmani costituivano l’80 percento dei circa ottomila abitanti di Prozor. Oggi ne sono rimasti alcune centinaia. Nei villaggi intorno prevalevano i croati. Per un periodo avevano combattuto insieme contro i serbi. Quando fu chiaro che i piani per risolvere la guerra in Bosnia Erzegovina (BiH) prevedevano la divisione del Paese, i croati si sbrigarono a prendersi la propria parte. Nell'ottobre 1992 il New York Times scriveva: ”Oggi Prozor è una città fantasma. La maggioranza dei musulmani è stata uccisa, rinchiusa in campi di concentramento, alcuni si nascondono nelle montagne vicine". Nell’ufficio postale di Prozor c'era affisso un avviso: "Vietato ai musulmani". Una fossa comune con 78 corpi di musulmani considerati scomparsi fu scoperta nel 1998, mentre è stato documentato lo stupro su cinquanta donne e sedici bambine.
Seguivo le notizie su Prozor durante la guerra, per capire che fine avessero fatto i miei cugini. Di alcune famiglie oggi è rimasta solo una persona. Un cugino, una volta un uomo alto e bello, adesso pare rimpicciolito, è l’ombra di se stesso. È un ubriacone, ogni occasione è buona per bere. Ha alcuni anni più di me, ma mi tratta come fossi molto più giovane, “piano figliola” mi dice, “guarda qua, attenzione”, “prendi questo” e dopo mi parla della figlia, emigrata con il resto della famiglia in America. Sta per fare un esame, e quell’uomo che mi tratta così teneramente, della figlia dice: “La sgozzerò come un gallo se non supera l’esame”.
A Prozor non ci va chi non deve. Io ci sono tornata dopo quasi trent’anni. Capisco perché i criminali di guerra hanno scelto quel posto per starsene tranquilli. È un luogo che ti fa sentire la claustrofobia appena ci metti piede. Dopo mezz’ora che sei lì vai nel panico, perché non sai bene come fare ad andartene. Io sono nata lì, dovevo presentarmi di persona per un documento. Negli uffici alcuni impiegati, croati, si ricordano ancora della mia famiglia. Sono gentili, cercano di aiutarmi. Ma nell’aria restano sospese le parole non dette. La verità taciuta appesantisce i rapporti, non mi guardano negli occhi, sembra che si vergognino di quello che è successo là durante la guerra.
Poi, alla stazione di polizia, una certa Jagoda si ricorda di mia sorella. Giocavano insieme da piccole. Grazie a Jagoda ottengo in un’ora il documento per il quale altrimenti avrei dovuto perdere almeno due giorni. Il palazzo della polizia non è cambiato, è lo stesso di sempre. I muri sono grossi, le stanze piccole. Il pavimento scricchiola sotto i piedi. Non appena si entra si sente l’odore di umido, di sudore umano, e di solid, una cera che si usava negli uffici pubblici per impregnare il legno. È lo stesso palazzo dove nel 1948, durante il periodo del Cominform, dopo la spaccatura tra Jugoslavia e Unione Sovietica, venne rinchiusa mia zia paterna Halima, prima di essere spedita a Goli Otok [campo di concentramento per gli oppositori di Tito, ndr]. All’epoca nessuno della famiglia osava chiederle cosa fosse successo e lei stessa, anni dopo, giurava di non avere la più pallida idea del perché l’avessero imprigionata.
La stazione di polizia è lo stesso posto dove, durante l’ultima guerra, alcuni miei cugini furono rinchiusi, picchiati, e poi trasportati in campo di concentramento.
Tutto è molto cambiato a Prozor dall’ultima mia visita. Oggi la cittadina è divisa: fino al bivio risiedono i musulmani, dopo ci sono le case dei croati. Nei giornali avevo letto che anche le scuole sono divise per etnie. E quando giocano a calcio la squadra croata e quella bosniaca, i musulmani di Prozor restano a casa, serrano le porte, chiudono i bar e i negozi, e cercano di diventare invisibili, finché per le strade gli altri urlano e minacciano ”Questa è Croazia”.
Riconosco la piazza con la chiesa cattolica, innalzata negli anni Settanta. Alla costruzione avevano contribuito anche i musulmani, chi poteva con i soldi, i più poveri con la mano d’opera. Era un’usanza, tra buoni vicini, aiutarsi a vicenda. Quando i musulmani hanno ristrutturato l’antica moschea, anche i croati avevano contribuito economicamente. Tutta acqua passata. I nuovi condottieri volevano che si capisse subito chi era il padrone. Nel centro è stata eretta una croce che supera in altezza tutte le case intorno. Durante e subito dopo la guerra avevano cambiato anche il nome della città. L’avevano chiamata Rama, secondo l’omonimo luogo nelle vicinanze dove ci sono i resti di antiche chiese romane, e dove oggi sorge un complesso con l’abbazia. Ai musulmani, quelli rimasti a Prozor dopo la guerra, basta e avanza la moschea antica, oggi trascurata e in stato miserabile. Invece di restaurarla però ne stanno costruendo una nuova. “Per dispetto”, mi dice un musulmano del posto.
Cammino per la via principale, ho la sensazione che mi guardino da dietro le tende chiuse. I rari passanti non si salutano, non si guardano neanche. Mi siedo in un bar, i clienti mi guardano, per loro sono una sconosciuta. Comincio a parlare con due giovani del tavolo accanto. Non so chi siano, e loro non mi chiedono il nome. “Alle cinque del pomeriggio puoi passare tranquillamente per la città anche nuda. Tanto non c’è nessuno per strada che possa vederti”, mi dice uno. Chiedo informazioni su un’amica, dico il nome croato, “Ah, non la trovi qui, in questo bar ci vengono solo i musulmani”. Domando se è vero che il criminale Dolić viveva lì liberamente. “Sì, è vero, e non è l’unico”, risponde uno dei due ragazzi, indifferente come se mi stesse dicendo l’ora esatta. Li diverte il mio stupore e uno, per impressionarmi, dice che lui stesso va a caccia con un gruppo in cui ci sono anche dei criminali di guerra. “È pratico, ci dicono dove sono i campi minati”, precisa. Poi tira una lunga boccata dalla sigaretta e guarda in silenzio fuori dalla finestra. Con un cenno della testa mi indica un poliziotto che sta passando davanti al bar. È uno robusto, un “armadio con due ante”, come si dice in Bosnia per descrivere i nerboruti. Ha la testa grande come un pallone e cammina nel mezzo della strada. Sembra uno sceriffo. “Anche lui è un criminale”, dice il mio interlocutore. Mi spiega che di recente è comparso un video in cui si vede quel poliziotto insieme ad altri attaccare Heldovi, un villaggio di musulmani vicino a Prozor. Oggi è un paese fantasma, nessuno ci è più tornato, gli abitanti sono scappati o scomparsi. Più tardi, lasciando Prozor, osservo sulla collina il luogo dove c’era il villaggio. Le case senza tetto, i muri anneriti, i buchi al posto delle finestre, come occhi scavati. Da lontano le rovine sembrano persone inginocchiate in preghiera verso il cielo.
A lavoro finito vado a trovare un’amica di famiglia, la signora Ankica. Mi sta aspettando. Ci sentiamo per telefono spesso, anche se sono almeno trent’anni che non ci vediamo. Non riesco ad orientarmi, chiedo a un passante se qui abita Ankica. Dice di sì, e mi indica la porta al primo piano. Suono, mi apre ed entro come si entra a casa di amici, vado diritta in salotto, mi accomodo sulla poltrona, chiacchieriamo, mi offre il caffè, un pezzo di torta appena fatta. Si parla del più e del meno, della situazione a Prozor, dice che voleva vendere tutto e andarsene via, intanto è un deserto qui, l’hanno ripulito dai musulmani ma adesso scappano anche i croati, non c’è niente, nessun lavoro, l’industria distrutta, le fabbriche chiuse, i giovani se ne vanno in Croazia, dovunque ci sia un lavoro. Noto che non mi saluta con un bacio, non mi invita per il pranzo, mi pare più giovane di quello che ricordavo, ma penso che tutto cambia, anche le persone. Dopo un’ora, scappo.
Alle quattro del pomeriggio dovrebbe passare una corriera, ma non mi fido e per la strada, verso la stazione degli autobus, cerco qualcuno per un passaggio. Una macchina è accostata, c’è uno al volante, un altro sta per entrare, chiedo se per caso vanno verso Jablanica, la città crocevia. Da là verso sud si va a Mostar, e a nord verso Sarajevo. Calcolo che da Jablanica sarà più facile raggiungere Sarajevo. Sì, ci vanno, va bene un passaggio, mi fanno posto, una volta seduta mi offrono una sigaretta, non mi chiedono chi sono, cosa faccio. Sono due giovani, anche loro robusti, dentro la macchina per starci devono abbassare la testa. Hanno rispettivamente 25 e 27 anni. Uno è disoccupato, l’altro si è appena sposato, ha un piccolo lavoro. “Come si vive a Prozor?”, chiedo. “Bene”, dicono insieme. Quello più grande precisa che di recente era andato a Sarajevo, in giornata, per sbrigare una faccenda, e non vedeva l’ora di tornare a Prozor. Ci salutiamo, senza dirci i nomi.
A Jablanica aspetto per un po’, non vorrei trovarmi costretta a fermarmi per la notte, faccio autostop. Le persone passano con l’auto, non si fermano, ma gesticolano per farmi capire che non vanno lontano. Finalmente si ferma un camioncino. “A Sarajevo… Bene.. Monta su”, mi dice l’autista. È un camion-frigorifero, tipo fai da te, trasporta pesce, me ne sono accorta subito. L’odore è forte. L’autista parla volentieri. Dice che è in pensione, è un invalido di guerra, ma lavora ancora, la pensione è bassa e i figli sono disoccupati. “Poteva andar peggio”, dice, e scoppia a ridere. “Eh siamo veramente stupidi noi bosniaci – continua il nuovo conoscente - ci consoliamo con la miseria perché poteva andar peggio”. Mi racconta una barzelletta, inevitabilmente sul bosniaco Mujo, che muore in ospedale dopo essere stato investito da una macchina e sua moglie che dice “poteva andar peggio, pensa se fosse morto all’istante”.
Verso le otto siamo a Sarajevo. A casa mi svesto per liberarmi dell’odore di pesce, suona il telefono. È la mia amica Ankica, da Prozor. “Ti ho aspettato tutta la giornata, ho preparato il pranzo, riscaldato la camera, speravo di vederti...”. L'amica mi elenca tutto quello che aveva fatto per me. L’ascolto e mi rendo conto di essere stata a casa di Ankica, ma di un’altra, del tutto sconosciuta. Chiudo il telefono. Incredula, mi fermo per un istante con la cornetta in mano. “Poteva andar peggio”, penso, e mi metto a ridere come un’isterica.