Copertina del libro

“Polaroid cowboy” è il titolo del romanzo d’esordio di Refik Hodžić, meglio noto come attivista ed ex portavoce del Tribunale dell’Aja, col quale rievoca i primi anni trascorsi a Prijedor e l’arrivo del male che cancellerà dalla faccia della terra quella realtà

21/09/2023 -  Tomislav Marković

(Originariamente pubblicato sul portale Tačno , il 13 settembre 2023)

Refik Hodžić è noto all’opinione pubblica innanzitutto per essere stato per anni portavoce del Tribunale dell’Aja e per il suo attivismo e la tenacia nella lotta per la difesa dei diritti delle vittime della guerra in Bosnia Erzegovina. Recentemente, Hodžić è diventato noto al pubblico letterario anche come uno straordinario prosatore, come testimonia ogni riga del suo romanzo d’esordio Polaroid kauboj [Polaroid cowboy], edito quest’anno dal portale Nomad . Un libro fondato sui ricordi e sul tentativo di salvare dall’oblio una vita, un intero mondo ormai scomparso. Seguendo le orme dei Dolori precoci di Kiš e dei racconti d’infanzia di Branko Ćopić, Hodžić rievoca i primi anni trascorsi a Prijedor, le immagini di un periodo in cui, crescendo, si inizia a conoscere il mondo, introducendo solo en passant alcuni indizi dell’arrivo di un male che cancellerà dalla faccia della terra quella realtà, ormai preservata solo nei ricordi di chi l’ha vissuta.

“Questo libro non offre una narrazione eroica e soldatesca su quel vortice bellico che, nonostante i nostri tentativi di scongiurarlo, ha finito per spazzare via il nostro mondo. È un racconto malinconico sulla vita di un filo d’erba in mezzo ai vortici, la vita di un uomo solo, sopravvissuto per miracolo, in cui ancora oggi vive quel dolce ragazzo di Prijedor che sogna di tornare a casa, nella sua città, e di trovarvi sua madre e tutte le altre persone che ha amato e perduto, sogna di lasciarsi avvolgere dal velo della sicurezza della sua piccola casa e della sua piccola libertà, anche se quella casa e quella libertà sono ormai scomparse e non torneranno mai più”, scrive Ferida Duraković nella postfazione a Polaroid kauboj.

Refik Hodžić

Refik Hodžić

Alcune delle storie in cui ci si imbatte leggendo Polaroid kauboj sono state originariamente pubblicate sul suo blog. Com’è nata l’idea di raccogliere queste storie e farle diventare parte integrante di un romanzo?

È stata Ferida Duraković a dirmi di doverlo fare. Scherzi a parte, Ferida mi aveva chiamato dopo aver letto alcuni dei miei primi scritti, dicendo che mi avrebbe aiutato a trasformarli in un libro. Quindi, mi aveva suggerito di considerare quegli scritti come materiale narrativo per un libro. Tuttavia, fu solo verso la fine del 2020, quando tornai a Prijedor per accudire mia madre che si era ammalata di cancro, che decisi di prendere in considerazione l’idea di iniziare a mettere insieme quei testi. Nel corso di quei sette, otto mesi mi resi conto che quelle storie costituivano un insieme narrativo, un insieme di cui proprio mia madre Esma fu protagonista. Alla fine, il libro è diventato un monumento letterario a mia madre e a tutte donne della sua generazione vissute nella periferia bosniaca.

Sembra che oggi la realtà che lei descrive nel suo libro venga sistematicamente rimossa, se non addirittura bandita, come se fosse colpita da una sorta di damnatio memoriae. I crimini di guerra e la pulizia etnica di Prijedor vengono portati avanti con altri mezzi, attraverso il negazionismo e il revisionismo storico. Anche questo oblio forzato, questa tendenza a falsificare il passato è tra i motivi che l’hanno spinta a ricostruire un mondo ormai distrutto e scomparso ricorrendo alla narrazione letteraria?

Polaroid kauboj non è nato in reazione ai processi da lei descritti, però può essere considerato un tentativo di preservare la memoria di una comunità che non c’è più. Non mi riferisco tanto ai bosgnacchi e ai croati, la cui presenza a Prijedor è stata ridotta fino a toccare percentuali di cui parlava Radoslav Brđanin [alto funzionario dell’autoproclamata regione autonoma della Krajina durante la guerra in BiH, il quale invocava la necessità di ridurre il numero dei bosgnacchi residenti a Prijedor al 2-3%, ndt.] quanto ad un insieme di individui che erano legati da valori comuni, ad una classe operaia che viveva nelle periferie di città come Prijedor, alla magia e alla libertà dell’infanzia della mia generazione, alla luce della libertà conquistata dalle nostre madri nel periodo socialista e alle tenebre di quel patriarcato violento che, accompagnato dal nazionalismo e dall’onnipresente disumanizzazione di chi fino a ieri era nostro vicino di casa, finirà per divorarci tutti.

Nel romanzo lei descrive la sua infanzia e adolescenza nel periodo socialista, in un ambiente multietnico ed eterogeneo che di certo non era ideale né assolutamente armonico – un ambiente ideale probabilmente non esiste da nessuna parte del mondo. Leggendo il libro si ha però l’impressione che a quel tempo le differenze nazionali e religiose contassero ben poco. Da questa prospettiva, i fatti degli anni Novanta sembrano quasi inconcepibili, la follia del nazionalismo serbo che sfociò in guerre, persecuzioni, genocidio. Come si spiega una svolta così radicale e veloce, soprattutto considerando che intere generazioni furono educate nello spirito antifascista di fratellanza e unità? Oppure il vero problema stava in quella tendenza che lei individua in uno dei suoi racconti affermando: “L’intenzione di trasformarci in veri antifascisti era poco sincera, come anche la conocchia e il ferro da stiro a vapore erano poco adatti ad essere utilizzati come simboli di un’idea così seria”?

Come emerso successivamente, molti potenti del periodo abbracciato dal libro, e soprattutto del periodo successivo, negli ultimi anni dell’esperimento jugoslavo coltivavano valori diametralmente opposti a quelli con cui credevamo di essere cresciuti. In sostanza erano fascisti, quindi per loro non era difficile né innaturale impiegare tutte le leve del potere di cui disponevano nel processo di disumanizzazione del “nemico”. Un processo nel corso del quale i valori, legati dai concetti di fratellanza e unità, antifascismo e lotta comune per la libertà dei popoli jugoslavi, furono dichiarati falsi, mentre la paura e l’odio – racchiusi in quel detto deplorevole e agghiacciante, utilizzato da tutti i popoli della nostra regione, che recita: “Anche se uno lo metti dentro ad un sacco e con l’altro bevi allo stesso tavolo, tutti e due penseranno di te la stessa cosa – furono assurti a verità supreme, utilizzate poi per plasmare le relazioni sociali.

Individui e interi popoli furono ridotti a qualcosa di sporco, ad un problema che andava rimosso, a zanzare. Quando si crea tale atmosfera – e la creavano tutte le istituzioni governate da quel potere, incarnato nella figura di Slobodan Milošević – mi riferisco ai media, alla politica, alle istituzioni religiose, alla scuola, al mondo dello spettacolo, ai sindacati tenuti in ostaggio – allora è del tutto possibile che un uomo decida di giustiziare il proprio vicino di casa senza pensarci troppo sopra e senza alcuna pietà. Non è un fenomeno circoscritto alle nostre terre, è la matrice di gestione dei conflitti che si manifesta quotidianamente in diverse parti del mondo, dalla Siria e dalla Palestina all’Ucraina, oppure nell’atteggiamento nei confronti dei rifugiati e dei migranti, ma anche nei confronti degli afroamericani e dei musulmani in alcuni paesi europei. Da noi queste dinamiche si erano rivelate particolarmente atroci e brutali proprio là dove le relazioni interpersonali erano molto forti e gli ideali di fratellanza e unità profondamente radicati. Ci sono voluti molti morti e un immenso spargimento di sangue innocente affinché quegli ideali venissero completamente sradicati.

In molti dei racconti contenuti nel suo libro dedicati ai giorni spensierati dell’infanzia si avverte anche un’ombra, il preannuncio di un male che verrà. Penso ad esempio a quel racconto in cui si parla di uno scherzo telefonico, i cui autori sono Refik e il suo migliore amico Ado, mentre le vittime sono Adin did Ešref e il tassista Žigić. Solo alla fine del racconto scopriamo che Ešref era finito nel campo di concentramento di Omarska e Žigić all’Aja. Ci può raccontare il seguito de Lo scherzo?

Non vi è alcun seguito. Per noi tutto si era fermato lì. La vita della nostra piccola comunità era stata interrotta e da allora fa parte di tutta un’altra storia, come si legge anche alla fine de Lo scherzo.

Leggendo il suo romanzo mi sono tornati in mente i versi con cui Anna Achmatova apre la sua terza Elegia del Nord, tradotta da Marko Vešović: “Fui sviata, come un fiume / da un’epoca cruenta. / La mia vita fu travolta. E ora scorre / lungo un altro percorso, diverso dal suo”. Secondo lei, le due vite di cui parla Achmatova, ossia la vita prima della guerra e quella dopo la guerra, possono in qualche modo essere ricollegate tra loro? Ritiene che la nostalgia, intesa come il desiderio di rivivere un mondo che non c’è più, sia un sentimento inevitabile?

Quelle due vite difficilmente possono essere ricollegate poiché continuano a scorrere lungo due percorsi separati, proprio come nella poesia di Anna Achmatova. Non conosco nessuno della mia generazione che non viva due “vite parallele”: una “reale”, di cui si è più o meno consapevoli a livello dell’esperienza sensoriale del vivere e in cui si cerca, con più o meno successo, di scalare la piramide di Maslow, quindi una vita in cui siamo più o meno presenti e all’apparenza funzioniamo in modo del tutto normale; e l’altra, altrettanto reale, in cui continuamente riviviamo una versione del nostro passato prebellico che tendiamo a idealizzare. Per me non è una nostalgia, di certo non è la cosiddetta “jugonostalgia”, intesa, soprattutto dalle giovani generazioni, come il desiderio di un mondo migliore di quello in cui viviamo oggi. Si tratta piuttosto di una “losstalgia”, ossia del desiderio di recuperare il proprio mondo perduto, un desiderio che forse si manifesta con maggiore insistenza proprio nella ricerca di quella illusione, irrimediabilmente perduta, di poter disporre della propria vita.

Alcune delle storie più toccanti contenute nel suo libro parlano delle tragedie e delle sofferenze in tempo di pace, come la storia della maestra Jovana, ex partigiana, che crolla in classe, oppure quella di Simo di Zaječar che fu lasciato dai genitori in un centro per bambini e adolescenti con disabilità. Per quanto possa sembrare una considerazione ingenua, dopo la lettura di questi racconti, e soprattutto osservandoli nel contesto degli orrori della guerra, la domanda sorge spontanea: non c’è abbastanza male sulla terra anche senza nazionalismo, odio sciovinista, guerre, crimini, campi di concentramento?

C’è già abbastanza male, è vero. Il male vive in ognuno di noi, ne sono profondamente convinto. Carl Jung diceva che lo scopo primario dell’esistenza umana è quello di “accendere una luce nell’oscurità del mero essere”. Le nostre candele però sono tremolanti e basta un soffio un po’ più forte della cattiva sorte per spegnerle, permettendo così all’oscurità di addensarsi, come suggeriscono le storie da lei citate. Per questo le persone che fanno del bene senza aspettarsi nulla in cambio sono così preziose, e nell’oscurità che ci avvolge brillano non come candele, ma come fiaccole.

Nella conversazione con sua madre che segue al racconto Totoba, lei rievoca una storia d’amore tra due donne, Zdrava ed Esma. Il narratore non riconosce una donna, sulla soglia dei novant’anni, che vede per strada, allora sua madre gli spiega con grande naturalezza: “Ma quella è Zdrava, la moglie della suonatrice Esma. Come fai a non ricordartela?”. Nel racconto poi, anziché essere ulteriormente tematizzata, la relazione tra le due donne viene semplicemente percepita come un fenomeno tutt’altro che insolito. Secondo lei, negli anni ‘80 una piccola comunità, come quella di Prijedor, era più tollerante nei confronti dell’amore omosessuale rispetto alla società di oggi? Oppure la storia di Zdrava ed Esma fu un’eccezione in una società patriarcale?

Credo che possiamo definirla un’eccezione, una vita di periferia insolita e, paradossalmente, del tutto ordinaria allo stesso tempo. Una vita che la suonatrice Esma e la sua Zdrava avevano conquistato con la loro tenacia nel sopportare tutto il fango che l’ambiente circostante era capace di gettare loro addosso. Esma era una donna robusta e schietta che si guadagnava da vivere suonando la fisarmonica nelle kafane frequentate dagli operai, e solo pochi uomini, figurarsi le donne, osavano intralciarla e rivolgerle parole velenose sulla sua relazione con Zdrava o su qualsiasi altra questione. D’altra parte, non ricordo che qualcuno abbia mai anche solo menzionato la loro unione sentimentale in un contesto negativo, magari spettegolando davanti ad una tazza di caffè (per intenderci, la propensione a spettegolare era parte integrante della struttura mentale del nostro quartiere) oppure nel corso di una di quelle conversazioni in cui mio padre e i suoi amici si addentravano bevendo.

Mi sembra che col tempo quella “stranezza” della vita e della relazione tra Esma e Zdrava sia diventata parte integrante della narrazione della nostra piccola comunità, insieme a tante altre stranezze: uno dei nostri vicini di casa scriveva testi con cui presumibilmente poteva curare qualsiasi malattia nel giardino di Dio, un altro era un alcolizzato a cui piaceva introdursi in casa altrui e rubare, un altro ancora, pur vivendo nella casa accanto a quella di suo fratello, non parlava con quest’ultimo per anni, fino alla morte, e così via all’infinito. Ho l’impressione che Božana e Stanko, che ogni mattina facevano ginnastica nel cortile di casa, ci sembrassero “più strani” di Esma e Zdrava. Questa immagine che ovviamente non ci dice nulla sulla posizione delle coppie omosessuali nella società di allora, una posizione che, come ben sappiamo, era estremamente difficile.

È curioso però che solo di recente io abbia sentito per la prima volta una sorta di negazione della natura della relazione tra Esma e Zdrava. L’ho sentita da un vicino di casa, più giovane di me, il quale, dopo aver letto quel mio breve racconto dedicato a Esma e Zdrava, mi ha inviato un messaggio molto duro, cercando di convincermi che loro due erano solo amiche, dicendo che dovrei vergognarmi per aver lasciato intendere che fossero qualcosa di più. Secondo me, questa reazione la dice lunga sulla concezione del mondo che oggi prevale nella nostra società e su quel revisionismo onnipresente che tende a ignorare ogni verità che non corrisponde a quella concezione del mondo, a prescindere che si tratti di importanti eventi e processi risalenti ad un passato più o meno lontano o di vite di piccole persone comuni.

All’inizio del romanzo, durante una festa organizzata per celebrare la nascita del narratore, compare un misterioso sconosciuto che indossa un cappotto nero con cappuccio e un paio di stivali luccicanti con punta d’argento. Nel corso di un’intervista lei ha spiegato che quella presenza misteriosa è un’incarnazione del patriarcato, quel “destino malvagio a cui nessuno è riuscito a sfuggire, nemmeno quelli che credevano di aver vinto ripulendo Prijedor dalla popolazione non-serba”. Quello sconosciuto è il simbolo di quello stesso destino malvagio di cui lei parla nel racconto Škola [La scuola], di quella “angoscia, gravità, tormento di cui non ci libereremo finché non ci ucciderà”, quella cattiva sorte “a cui nessuno di noi – né figli né genitori, né padroni né schiavi, né partigiani né cetnici, né buoni né cattivi – è riuscito a sottrarsi? Oppure il patriarcato è solo una delle manifestazioni del destino malvagio del genere umano?

Un mio caro amico, credente, mi ha chiesto: “Ho letto il libro, è ottimo, ma perché avevi bisogno di quel satana all’inizio?”. È una presenza di cui non possiamo fare a meno. Narrare la storia della nostra infanzia senza cercare di illuminare anche quegli angoli bui in cui quel personaggio del primo racconto trascorre i suoi giorni, lustrando le punte dei suoi stivali, sarebbe ipocrita e falso, e io non voglio avventurarmi in una simile impresa. Il patriarcato di certo non era stato l’unico male a proliferare in quegli angoli bui da cui poi era traboccata quella terribile oscurità in cui eravamo sprofondati negli anni ’90. Tuttavia, è proprio la brutalità del patriarcato a dettare il processo di normalizzazione della crudeltà e della sete di sangue come principali valori sociali non solo degli anni ’90, ma anche della nostra epoca. Sono quei "succhi e fondamenti" di cui Dobrica Ćosić parla a Radovan Karadžić in quella famosa conversazione telefonica .

Anche oggi la stragrande maggioranza dei politici e dei loro seguaci impegnati in diversi ambiti tende a romanticizzare quella oscurità e a presentarla come una fonte di valori esistenziali di cui i giovani dovrebbero nutrirsi, cercando in essa le risposte alle grandi domande che ci pone l’epoca in cui viviamo: i cambiamenti climatici, una fusione sempre più veloce tra uomo e macchina, l’insostenibilità della crescita demografica nel nostro fragile pianeta, etc. In realtà però, quei succhi altro non sono che il veleno che scorre nelle vene di quell’oscuro sconosciuto che compare all’inizio del mio libro.

Analizzando il suo libro, la critica letteraria Vanja Kulaš ha scritto che “nonostante gli occasionali toni cupi, crudeltà e tristezza […] Polaroid kauboj è un concentrato di nobiltà e gioia di vivere”. Questa valutazione mi ha fatto tornare in mente le parole dello scrittore Bora Stanković di cui sono recentemente venuto a conoscenza grazie ad un altro scrittore, Dragoljub Stanković. “Anche la mia concezione dell’arte è semplice: un’arte che non è capace di suscitare in noi sentimenti nobili non è arte. Secondo, deve spingerci ad amare il prossimo”, diceva Bora. Qual è la sua concezione dell’arte e della letteratura?

Anch’io ricorrerò alle parole degli scrittori che considero i miei modelli irraggiungibili, James Baldwin e Branko Ćopić. Per parafrasare Baldwin, il ruolo dell’artista è quello di diradare quella giungla che invade l’animo di ognuno di noi, di illuminare quella oscurità, così da aiutarci a non perdere mai di vista il nostro compito principale – rendere il mondo almeno un po’ più umano, così da diventare un posto più bello in cui vivere. Branko Ćopić invece, nella prefazione alla sua Pionirska trilogija [Trilogia del pioniere], afferma: “Il compito di ogni vera letteratura è quello di rendere l’uomo più nobile e la sua vita più bella e più ricca di significati. Essa è chiamata a ispirare l’uomo e a spingerlo a compiere grandi azioni e imprese eroiche”. Non so se la mia scrittura possa ispirare qualcuno nello spirito invocato da Ćopić, so però che, scrivendo, sono guidato da tali idee.

La prima edizione di Polaroid kauboj è andata rapidamente esaurita, ed è già uscita una ristampa. Sembra quindi che il libro sia stato ben accolto dal pubblico. Come hanno reagito i lettori? Cosa li ha colpiti ed entusiasmati di più? In quali racconti si sono maggiormente riconosciuti?

Le reazioni sono meravigliose, non so cos’altro dire. Ho scritto questo libro spinto da un desiderio interiore e potrei sopportare anche le critiche più negative e feroci perché ho fatto il mio lavoro, riuscendo, fino ad un certo punto, a soddisfare quell’impulso. Mentirei però se sostenessi di non essere felicissimo perché il libro ha superato il test prima tra i miei vicini e altri cittadini di Prijedor, alle cui opinioni tengo di più, e poi anche tra un pubblico più ampio. Mi sembra di essere riuscito ad affrontare la sfida che Baldwin e Ćopić hanno posto davanti agli scrittori, e ne sono felice. Per illustrare quanto detto, condivido uno dei tanti messaggi che ho ricevuto dai lettori e dalle lettrici che non ho mai conosciuto prima. “Non so se iniziare questo messaggio con ‘Buongiorno’, ‘Gentile’ o ‘Caro Refik’ perché, dopo aver letto Polaroid kauboj ieri, tutto mi risulta confuso. Ho riso e pianto, al contempo cercando di liberarmi da quel pesante fardello che mi toglieva il respiro. Ho rivissuto la caduta in un ruscello in pieno inverno, rievocando l’immagine di un’insegnante partigiana coi baffi, il tentativo di rubare frutta ancora acerba, l’arrivo del telefono… Con mia suocera ho nuovamente fatto la pasta al formaggio, proteggendola dai passeri e dalle mosche, e nel suo cortile ancora una volta ho servito caffè a Dosta, Faiza, Džehva, Ruža. Purtroppo, sapevo che sia lei che io utilizzavamo quei ricordi per difenderci dagli orrori che erano arrivati successivamente e le cui conseguenze portiamo ancora nelle nostre anime ferite. Sin dall’infanzia avevo paura della guerra, non tanto della morte intesa come una fine inevitabile quanto della crudeltà umana che la guerra risveglia in molti. Ho pregato affinché non dovessi mai vivere tale esperienza, ma le mie preghiere sono state vane. Se oggi sua madre fosse viva, le manderei un forte abbraccio. Per com’era, ma anche per lei che l’ha descritta così bene. Saluti da Dušanka, attualmente residente a Čačak”.