Gli amici di Izet lo ricordano al teatro Kamerni (foto M. Boccia)

Gli amici di Izet lo ricordano al teatro Kamerni (foto M. Boccia)

Dal 1993 durante l’assedio di Sarajevo al 2002 anno della morte dell’amico e poeta Izet Sarajlić. Mario Boccia ripercorre le tappe di un’amicizia particolare, dei rapporti tra Izet e l’Italia, degli amici in comune e delle riflessioni sulla Bosnia martoriata dalla guerra e dal nazionalismo

30/09/2011 -  Mario Boccia

1993 - Il fratello di Razija                                      

La prima volta che incontrai Izet Sarajlić fu a Sarajevo alla fine del 1993. Erano gli anni della magrezza diffusa. Non per anoressia, ma per costrizione. Mangiare poco e male era un’abitudine quasi collettiva. La magrezza contribuiva a identificare le persone oneste. L’obesità era sospetta. Anni passati a fingere di essere sani, a non sentire la fame per non dargliela vinta. Anni di resistenza. 

Per un motivo del tutto personale, di quel primo incontro ricordo soprattutto sua sorella Razija. Sapevo che era stata lei, la sorella del grande poeta, a tradurre in serbocroato (allora si diceva così) le opere di Elsa Morante e di altri autori italiani. Tra tutti, quello che mi avvicinava di più a lei era Gianni Rodari, perché con le sue storie per ragazzi avevo imparato a leggere. Quella donna magra, a letto, assomigliava alla luce dell’unica candela accesa nella sua stanza. Mandava luce viva, anche se tremolante, mentre si consumava.

Guardandola pensavo che, grazie alle storie tradotte da lei, potevo avere avuto sogni in comune con i ragazzi di Sarajevo, Belgrado o Zagabria. E ora che sognavano quegli ex- ragazzi alla fine del 1993? In altre parole, che avrei fatto io al loro posto?

Non conoscevo ancora le poesie di Izet Sarajlić. Lui per me allora era il fratello di Raza. Così iniziai a leggerlo per curiosità e poi divenne imprescindibile. 

I suoi versi, anche quelli scritti prima della guerra, mi aiutavano a capire le persone che incontravo, i loro sentimenti, l’estraneità alla guerra della bellezza. E poi c’era la cultura di un secolo alla fine, in ogni emozione, in ogni nome citato. C’era l’idea di un mondo diverso che non era riuscita a realizzarsi, ma che ha lasciato il gusto amaro del riconoscersi a chi ci ha creduto, si è messo in gioco e ha perso.

Il ‘900 era il suo secolo ancora più che il mio. Firmando una dedica sul libro “Qualcuno ha suonato” scrisse la data in un modo particolare: “1999+2”, invece che 2001. Mi sembrò buffo, invece era un segno profondo. Scoprii dopo che lo faceva sempre. Era una scelta di appartenenza a un’epoca storica. L’identità come libera scelta, anche contro il tempo. Figuriamoci contro le identità nazionaliste imposte dagli uomini che per dividere le persone uccidono e adorano Dei di morte.

La semplicità della sua scrittura mi sembrava preziosa, quanto la bibliografia delle sue citazioni. La Leggerezza e la profondità possono convivere. Il paradosso dell’allegria rimane vivo anche nel dolore. Izet voleva farsi capire da tutti (persino da un fotografo).

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