Minareto, tramonto, Bosnia Erzegovina

Bosnia Erzegovina, foto di L.Tibaldi

L'esperienza di un viaggio di studio in Bosnia Erzegovina svoltosi un anno fa e raccontata in un momento in cui l'emergenza Covid ci obbliga a fermarci e ciò che si riteneva scontato si allontana e trasforma. Riceviamo e volentieri pubblichiamo

10/11/2020 -  Lisa Tibaldi

Un anno è già passato ma non sembrerebbe così lontano se nel mezzo non ci fosse stata l'emergenza sanitaria degli ultimi mesi. Innegabile che questa abbia dilatato la percezione del tempo creando un solco tra la realtà che conoscevamo prima e quella attuale. Un anno è già passato, ma sembrano almeno due o tre: per questo penso sia importante richiamare alla mente quei giorni di viaggio.  

L'esperienza dei nostri ultimi mesi, nel suo piccolo, ha molto a che fare con la Bosnia. 

Mentre la scrittrice Azra Nuhefendić ci accompagnava per le strade di Sarajevo raccontandoci la sua storia e quella della sua città, era proprio in questi termini che raccontava la guerra. Da un momento all'altro, diceva, la realtà che conoscevi e in qualche modo consideravi scontata, si allontanava, si trasformava e ti ritrovavi portato via da una corrente, della quale non potevi più invertire il flusso.

Azra aveva quarantadue anni allo scoppio della guerra, la mia stessa età ora, e immaginava che la sua esistenza avrebbe seguito un moto rettilineo uniforme, quello impresso dalla volontà negli anni della giovinezza. A quarant'anni, di solito, si è già costruito tanto e questa consapevolezza si accompagna ad una sensazione di sicurezza. Ebbene, tutto per lei fu spazzato via nel giro di pochi mesi. 

Azra aveva il cuore spezzato ed era ancora incredula mentre tentava di raccontarci come, da una società multiculturale che viveva quieta la sua molteplice identità, una società dove l'appartenenza etnica e la religione non avevano alcun peso e che trovava i suoi valori nell'educazione, nella cultura e nei libri, si fosse passati ad una guerra feroce, in cui il vicino di casa che conoscevi da trent'anni poteva diventare il tuo peggiore nemico. Una situazione senza ritorno, costruita ad arte negli anni precedenti attraverso lo spettro della paura, insinuato, gonfiato, messo in bella mostra e fomentato dai media. 

Ogni volta che ho sentito parlare della guerra di Bosnia ho avvertito fisicamente una vertigine, una specie di buco nero capace di inghiottire ogni cosa. 

Il ponte di Mostar

Il ponte di Mostar, foto di L. Tibaldi

La Bosnia è un luogo di una bellezza incredibile, ma ogni singola bellezza che ho percepito, a guardarci bene, svelava sotto la pelle qualcosa di orribile: questo paradosso sensoriale continuo ha scatenato in me un'impressione profonda e un dolore che in alcuni momenti è stato davvero intenso.

Nel centro storico di Mostar, illuminato dalle ultime luci del tramonto, ho sentito il richiamo alla preghiera del muezzin diffondersi tra le strade, un canto sublime capace di rendere quel cielo rosa e blu ancora più vivido, quello è stato un momento di forte commozione per me, anche se con il divino ho davvero poca confidenza, ero sola e mi trovavo a pochi passi dallo Stari Most che potevo scorgere illuminato in lontananza.  

Eppure sappiamo tutti molto bene che cosa ha significato essere un musulmano di Bosnia in quegli anni, nemmeno sforzandoci di immaginare tutte le azioni più efferate messe insieme è possibile avvicinarsi alla realtà, tanto è sconvolgente. Ancora oggi Mostar, così ci ha spiegato lo storico Eric Gobetti  che ha accompagnato ogni nostro passo, è una città separata da un muro, che in realtà è una strada chiamata il boulevard "di tutti". Tra il '92 e il '95 era la terra di nessuno, la linea di frontiera tra la popolazione musulmana e quella croata della città. Anche ora, a sinistra stanno gli uni e a destra gli altri e le due città non si mescolano mai davvero, fuorché in due punti: un piccolo cimitero ricavato in un parco dove le vittime della guerra sono state sepolte insieme (perché di spazio disponibile non ce n'era più) e il liceo, dove però i piani sono diversi, diversi i libri di testo, diversa la storia che si racconta.

A Sarajevo alloggiavamo in un hotel sulla prima collina, poco al di sopra del fiume Miljacka, in ogni stanza c'erano delle splendide vetrate che permettevano una vista magnifica su tutta la città e sui suoi numerosi ponti (ben 22!), ma è stata proprio quella vista spettacolare a permettere un assedio continuo, durato per quattro anni e che ha causato 12.000 morti e 50.000 feriti. Una posizione strategica, dall'alto, finalizzata a tenere in scacco la popolazione e colpirla in ogni momento del giorno e della notte tra le strade del centro, lungo il tristemente famoso viale dei cecchini, fin dentro al mercato.

 

Le Rose di Sarajevo, presidi della memoria, foto di L. Tibaldi

Cupe vampe livide stanzeocchio cecchino etnico assassino
alto il sole: sete e sudore
piena la luna: nessuna fortuna
[...]
Bella la vita dentro un catino
bersaglio mobile di ogni cecchino
Bella la vita a Sarajevo città
questa è la favola della viltà.
"Cupe vampe" C.S.I. 1996 

 

E poi le rose di Sarajevo: piccoli buchi, circondati da altri fori più piccoli che si aprono come petali, tutti riempiti di resina rossa. Le rose di Sarajevo sembrano fiori che colorano l'asfalto, ma sono l'importante memoria delle granate cadute sulla città, 3777 nel solo giorno del 22 luglio 1993, impossibile tenerne il conto totale.  

Nella Baščaršija, la città vecchia, una moltitudine di profumi, di cibi, di antichi bazar, ma nei quali è quasi impossibile trovare artigianato locale, spazzato via da enormi quantità di oggettistica dozzinale proveniente dalla Turchia.

Oggi a Sarajevo, la grande maggioranza degli abitanti è di religione musulmana (dopo la guerra sono confluiti nella capitale tantissimi profughi da tutta la Bosnia) ma se non sei iscritto al partito nazionalista non puoi fare nulla, nemmeno aprire un bar e questa logica è implacabile: il miglior alleato di un partito etnico è proprio il suo “contro-partito” etnico. Ecco la trappola in cui sono attualmente stretti i bosniaci di ogni etnia.

La Viječnica, la maestosa biblioteca, si erge ancora nella sua sfolgorante eleganza un po' moresca e un po' austro-ungarica, negli anni è stata accuratamente ristrutturata ma è stata privata della sua identità. I preziosi documenti che conteneva sono andati perduti ma c'è di più: la famosa biblioteca di Sarajevo ha perso del tutto la sua funzione.

Oggi sopravvive nei cittadini soltanto il ricordo del luogo di studio, di cultura e d'incontro che è stata in passato, quando era al centro della vita intellettuale, un cuore pulsante accessibile quotidianamente a chiunque. Questo, ci racconta Azra, è ciò che più manca, perché attualmente viene utilizzata per lo più come salone cerimoniale della politica e, solo in qualche occasione, come sede di mostre. Per un abitante di Sarajevo, aggiunge, è inconcepibile dover pagare un biglietto di ingresso per entrare in un posto che prima considerava casa.  Sarajevo: città ottomana, austroungarica e jugoslava. Esempio di cosmopolitismo prima, di resistenza civile poi, oggi è un guscio svuotato della sua anima, una città "etnicamente ripulita" assediata da corruzione e shopping center.  

E infine Srebrenica, la città dell'argento, un polo industriale e termale, una delle zone più economicamente avanzate prima della guerra. Per arrivare a Srebrenica da Sarajevo il viaggio è lungo, se non ricordo male di circa tre ore, un viaggio che si snoda per lo più tra boschi e piccoli villaggi. Dal finestrino del pullman l'impressione è stata quella di un viaggio nel tempo: un paesaggio naturale quasi incontaminato, illuminato dal sole del mattino, i colori dolci di un autunno già inoltrato, i covoni di paglia sparsi qui e là (non li avevo mai visti fuorché nei dipinti di Monet e Van Gogh), gli animali al pascolo con i suoi piccoli ripari tra i grandi prati e un'umanità che sembra antica come le sue donne con i fazzoletti in testa.  Di nuovo quella sensazione di bellezza ma mescolata alla consapevolezza che i suoi abitanti sono stati gettati nell'orrore della pulizia etnica.

Ad un certo punto del viaggio qualcosa cambia, la lingua è sempre la stessa, ma i cartelli stradali e le insegne diventano illeggibili, l'alfabeto in uso non è più quello latino ma il cirillico. Il nostro storico Eric Gobetti ci spiega che siamo entrati nella Repubblica Srpska. 

La repubblica serba di Bosnia occupa quasi il 50 % del territorio nazionale ed è abitata da una grande maggioranza serba. Uno degli esiti più chiari del conflitto è stato proprio questo: la separazione delle popolazioni che prima vivevano l'una accanto all'altra, attraverso la creazione di zone precise che corrispondono a una maggioranza etnica: a grandi linee l'Erzegovina per i croati di Bosnia, la Repubblica Srpska per i serbi di Bosnia e una zona al centro per i bosniaci musulmani, che in realtà sarebbe meglio chiamare bosgnacchi per non identificarli con il loro culto, altra eredità del conflitto.

Il momento più difficile del viaggio è stato la visita al Memoriale di Srebrenica. Sono rimasta subito colpita dal nome assegnato al luogo: "Memoriale del genocidio di Srebrenica e del fallimento della comunità internazionale"

Non mi aspettavo di trovare una dichiarazione così chiara ancora prima di entrare in quello che sembra un magazzino industriale: la parte museale del memoriale è stata istituita proprio nella base utilizzata dalle forze olandesi.

Srebrenica nel 1993 fu dichiarata area protetta, safe area, insieme ad altre importanti città della Bosnia: la risoluzione annunciava aiuti umanitari e l'invio di forze militari delle Nazioni Unite allo scopo di difendere e proteggere la popolazione dagli attacchi dell'esercito serbo-bosniaco. A Srebrenica, per questo motivo, confluirono decine di migliaia di profughi in cerca di rifugio da tutte le zone limitrofe ormai occupate dall'esercito.

Eppure qui, dove le persone arrivavano per mettersi in salvo e continuare a sperare, alla presenza delle forze internazionali e sotto lo sguardo continuo dei media di tutto il mondo, si è consumato il terribile genocidio che ha causato la morte di più di 8000 musulmani bosniaci, tutti uomini dai 14 anni in su.

Il memoriale custodisce tutti i documenti e ricostruisce i passaggi che hanno portato ai tragici eventi del luglio '95, al suo interno sono disponibili anche i video delle esecuzioni, materiale girato dall'esercito serbo probabilmente allo scopo di essere inviato ai capi militari come testimonianza del "lavoro" svolto.

Ad accompagnarci quel giorno c'era Irvin Mujčić , un giovane uomo che sta cercando di trasformare la sua città in un luogo di speranza.

Irvin ci racconta che era un bambino di sette anni quando, insieme alla madre, alla sorella e al fratello minore riesce a lasciare Srebrenica, ma da quei giorni non rivedrà più il padre che lavorava come interprete per le Nazioni Unite. Commosso, aggiunge che suo padre è ancora tra i 1500 uomini dispersi che non hanno avuto sepoltura.

Irvin, dopo la fuga, è stato accolto in Italia e nel nostro paese è cresciuto, ha studiato e, una volta adulto, ha deciso di ritornare a casa. Ci spiega che il primo a rientrare, nel 1999, è stato un uomo di 84 anni insieme alla moglie. Da quel momento, timidamente, inizia un piccolo contro esodo: poche persone, ma in numero crescente, tornano alla loro terra, allo scopo di far rivivere un luogo che oggi conta solamente 6000 abitanti, in cui le terme non sono tornate in funzione, dove le industrie sono quasi tutte estere, ma i bambini vanno a scuola insieme ed esiste un'unica squadra di calcio. Irvin, quel giorno, ha preparato per noi un pranzo con i prodotti della sua azienda agricola, ci ha accolto in un'area verde circondata da alberi e non ci ha lasciato andare via dopo la toccante visita al cimitero di Potocari, ma ci ha mostrato la bellezza del luogo, la forza di un giovane che insieme alla sua squadra lavora quotidianamente per una convivenza civile e per il futuro di Srebrenica.

Voglio ringraziare di nuovo, a distanza di un anno, l'Istituto storico di Modena per avermi offerto questa grande opportunità di formazione e apprendimento e per averci affiancato e fatto conoscere Eric, Azra e Irvin.

Ringrazio i docenti, miei compagni di viaggio, con cui in quei giorni ho condiviso emozioni e informazioni.

Mi auguro che presto, come insegnanti, torneremo a poter proporre questo viaggio ai nostri studenti, anche se i miei sono forse ancora troppo piccoli, ma sufficientemente grandi per ascoltare i racconti della prof e avvicinarsi alle vicende storiche della Bosnia.

Le mie sono classi multiculturali: ci sono ragazzi cattolici, ortodossi, musulmani, induisti… e sono ragazzi che crescono e diventano grandi insieme, imparando a conoscersi e rispettarsi nelle loro differenze, anche per questo il viaggio in Bosnia è stato per me motivo di riflessione e ispirazione.