11.541 sedie rosse sulla via Maršala Tita. Di fronte alla platea vuota per 45 minuti si alternano letture e canti. Ballerini danzano sotto il palco, ragazze e ragazzi di elementari e medie intonano “Give peace a chance”. Lo stesso messaggio che 20 anni fa i cittadini di Sarajevo rivolsero al mondo. Un appello che il mondo lasciò cadere nel vuoto
“La linea rossa di Sarajevo” ha rappresentato il culmine delle commemorazioni ufficiali a celebrazione del 6 aprile, giorno della città di Sarajevo. Il 6 aprile è la data in cui nel 1945 i partigiani entrarono in città, liberandola dai nazifascisti. Il 5 aprile del 1992 un nuovo fascismo faceva le sue prime vittime nella capitale bosniaco-erzegovese, tra una folla di cittadini che chiedeva semplicemente pace. Da allora l’anniversario della liberazione si accavalla all’inizio dell’assedio più lungo della storia moderna. Sono passati vent’anni.
Ognuna delle sedie messe in fila dalla moschea di Ali-Pascià, fino alla Fiamma eterna, rappresenta una vittima dell’assedio. Donne, uomini, bambini, strappati alla vita dalla scheggia di una granata, dal proiettile di un cecchino, caduti a difesa della città o, più silenziosamente, fiaccati dall’usura fisica e mentale che gli assedianti hanno inflitto agli assediati. I nomi delle vittime sono proiettati su maxischermi ai lati del fiume rosso.
Le polemiche
Fin dal 27 marzo, momento della presentazione al pubblico della manifestazione coordinata da Haris Pašović, direttore del teatro nazionale, sono sorte alcune polemiche, in principio riguardanti lo spot promozionale, simile a quello di una serie televisiva “The Pacific”. Gli autori si sono giustificati parlando di estetica del “ridesign” che sta alla base anche di altre opere dello stesso collettivo quali, ad esempio, la scritta Enjoy Sarajevo 1993/94 che riprende i caratteri di una nota bibita americana. A distanza di poco tempo è emerso che la stessa simbologia delle sedie vuote allineate a rappresentare le vittime era stata già utilizzata a ground zero, per commemorare i morti delle torri gemelle di New York e nessuna spiegazione è stata data in merito. Quando è emerso che le sedie utilizzate per rappresentare le vittime dell’assedio erano “made in Serbia” è parso legittimo domandarsi se anche questa fosse una forma di simbolismo occulto o se davvero il particolare non sia stato preso in considerazione.
La mattina del sei poco importa se l’idea sia un plagio o meno, non importa chi abbia organizzato la manifestazione, quanto sia costata. L’impatto visivo è impressionante, il fiume di sedie rosse ha un potere evocativo fortissimo e, davvero, sembra non avere fine. La priorità per molti cittadini è vedere da vicino le sedie, posare un fiore, ricordare chi non c’è più. La manifestazione però ha una rigida scaletta e delle altrettanto rigide misure di sicurezza dovute alla grande folla certamente, ma anche e soprattutto alla presenza di ospiti VIP. Così, a più di un’ora dall’inizio del concerto, Ulica Maršala Tita viene chiusa con barriere e uomini della security all’altezza della fiamma eterna e a nessun “normale” cittadino è concesso di passare. Nemmeno i giornalisti, nemmeno le madri dei caduti, non gli invalidi di guerra. Solo i VIP con il lasciapassare rosso. Tra questi Carl Bildt, ex primo ministro svedese, ex negoziatore UE per la ex Jugoslavia, ex mediatore degli accordi di Dayton, ex primo alto rappresentante della comunità internazionale in BiH. Tra l’altro ex testimone della difesa al processo contro Biljana Plavšić che definì “coraggiosa nell’aver supportato il processo di implementazione della pace”. Florence Hartmann, ex reporter di guerra ed ex portavoce del Tribunale Penale Internazionale, lo incontra vicino alle sedie rosse e gli chiede “che cosa ci fa lei qua?” visto che vent’anni prima, quando aveva modo di accorciare i patimenti inflitti alla popolazione della Bosnia Erzegovina “non fece nulla” e addirittura definì Milošević “a nice guy”. (La scena ripresa dalla telecamera di Armin Colakovic)
Il ricordo
La performance artistica viene aperta con la lettura dei versi di Aleksa Šantić “Što te nema” (perchè non ci sei) il cielo, sempre più grigio, si apre in una pioggia sottile e i presenti si coprono sotto gli ombrelli. Segue il concerto, l’esibizione viene chiusa dal coro dei bambini, spunta un pallido sole. Al termine la folla non si scioglie. I presenti continuano a stare vicino alle sedie. A camminare su e giù per la Titova, fermandosi a posare fiori, a guardare, immobili, il fiume rosso.
Calato il sipario sulla celebrazione ufficiale inizia la commemorazione vera, il viavai dei sarajevesi che con la semplice presenza ricordano e rendono omaggio ai parenti, agli amici, ai figli scomparsi. A rappresentare i bambini uccisi 643 sedie più piccole, nel tratto di fronte alla piazza loro intitolata, di fronte al monumento, anch’esso chiacchierato, costruito in loro ricordo. Le sedie più piccole si trovano a metà della linea rossa e lo smarrimento dei passanti, già forte di fronte alla rappresentazione di così tante vittime, si fa in questo punto estremo. Sulle seggioline vengono appoggiati fiori, disegni, palloncini, giocattoli, nell’aria la stessa domanda, ancora più forte, “perché?”.
Sul marciapiede l’associazione dei “Giovani per i diritti umani” ha evidenziato una delle “rose” aperte dalle granate. Dopo la guerra molte furono riempite di cera rossa a ricordare i luoghi in cui l’esplosione di un proiettile di artiglieria mieté almeno tre vittime. Negli anni la cera si è sbiadita e molte rose sono state ricoperte da una nuova pavimentazione. Quella davanti al parco è ancora lì, a ricordare gli anni dell’assedio, questa mattina è stata nuovamente colorata e qualcuno vi ha posato sopra dei fiori.
A sera le sedie sono ancora in fila e il flusso di visite cessa solo quando vengono rimosse. Un ultimo fiore, un ultimo pensiero, uno sguardo ancora, prima di reincamminarsi. In Ferhadija fino a Baščaršija un mare di persone, è venerdì sera, ma questo venerdì sono tutti più silenziosi.