Più di tremila persone hanno circondato ieri il Parlamento della capitale bosniaca. Domandano la rapida soluzione della controversia riguardante il numero di identificazione personale, che ha lasciato senza documenti di identità i bambini nati da due mesi a questa parte
All’inizio, mercoledì, non erano in molti. Solo una trentina di persone, decise a manifestare di fronte al Parlamento della Bosnia Erzegovina per una situazione ormai divenuta intollerabile per molte famiglie.
A febbraio, la Corte Costituzionale ha sospeso la legge sui nuovi numeri d’identificazione personale per i cittadini di Bosnia Erzegovina. Il motivo? Secondo Milorad Dodik, il leader dell’SNSD e presidente della Republika Srpska, era inaccettabile che all’interno della normativa, per alcuni comuni appartenenti all’entità serba, venisse mantenuta la doppia denominazione, quella serba e quella bosgnacca, in vigore prima della guerra e poi ufficialmente abbandonata.
La massima autorità giudiziaria del Paese aveva dato ragione a Dodik, annullando di fatto la validità della legge. Ma senza dare ulteriori indicazioni. La politica, come spesso succede in Bosnia Erzegovina, ha preferito procedere per inerzia, senza approvare alcuna nuova legge e cercando di ignorare il problema. Il risultato è che, da metà febbraio, i nuovi nati nel Paese non hanno diritto a un codice di identificazione personale.
Quella che evidentemente agli occhi dei politici bosniaci è una semplice formalità burocratica, in realtà, è di vitale importanza per ogni comune cittadino. Senza codice, impossibile pensare di ottenere i propri documenti personali. Per una madre, significa non poter aver diritto all’indennità di maternità. La protesta è cominciata mercoledì, quando un gruppo di persone ha cercato di denunciare la situazione della piccola Belmina Ibrišević, bisognosa di cure all’estero ma di fatto impossibilitata, senza documenti, ad attraversare la frontiera.
Il Parlamento ha deciso di correre precipitosamente ai ripari e ha messo una toppa per cercare di risolvere il problema, approvando una legge provvisoria che regolasse la questione per 180 giorni. Ma apparentemente non è bastato. E così molti, tra quelli che manifestavano mercoledì, hanno deciso semplicemente di non andarsene, e di stabilirsi di fronte al palazzo del Parlamento proprio come avevano fatto, all’inizio del 2012, i veterani che cercavano di difendere il proprio diritto alla pensione.
Il contributo dei media
Nel pomeriggio di giovedì, i manifestanti erano passati da trecento a tremila. Senza dubbio, la motivazione della protesta (la difesa dei diritti di una delle categorie più deboli della popolazione, gli infanti) ha contribuito a creare “massa critica” attorno all’evento. Anche i giornali bosniaci, però, sono stati determinanti nell’alimentare la partecipazione popolare, dando fin dal primo momento un enorme risalto a quella che si è poi trasformata in una sorta di “Occupy Sarajevo”.
All’insoddisfazione popolare, legittima dopo vent’anni di malgoverno, si sono aggiunte le immagini che in questi giorni da Istanbul e Ankara vengono ritrasmesse in tutto il mondo. “Ciò che succede in Turchia ci ha sensibilizzato. È passato molto tempo dall’ultima volta che i cittadini bosniaci hanno manifestato in strada”, ha dichiarato uno dei primi manifestanti, Aldin Arnautović, padre di un bambino di otto anni, all’agenzia Anadolija: “Abbiamo preso questa decisione perché siamo stanchi di promesse non mantenute e perché crediamo che le cose possano cambiare. Non si può sempre attendere che 10.000 persone manifestino tutte insieme contro il governo. Bisogna pur cominciare da qualche parte, o le cose non cambieranno mai”.
Spinte dalla propria convinzione, spossate dall’inefficienza della classe politica, e un pizzico stuzzicate, probabilmente, dalla volontà di emulare le gesta delle piazze turche, migliaia di persone hanno così deciso di serrare un cordone umano attorno all’assemblea parlamentare. Al grido di “siamo cittadini, non parlamentari”, “per voi non siamo nemmeno un numero” e “vogliamo un’identità, non le entità” i cittadini di Sarajevo hanno lanciato un diktat tanto semplice quanto efficace: nessuno esce di qui finché non sarà approvata una legge definitiva sui codici di identificazione personale. Richiesta alla quale poi se n’è aggiunta un’altra: la creazione nel bilancio pubblico di un apposito fondo per la cura dei malati gravi, al quale i parlamentari dovrebbero devolvere il 30% dei loro stipendi.
Le scene che sono seguite all’annuncio entreranno a buon diritto nel novero dei momenti più surreali che la capitale bosniaca abbia vissuto nella sua storia recente: alle quattro del pomeriggio il sindaco di Sarajevo, Ivo Komsić si univa ai manifestanti dichiarando il proprio sostegno “ai millecinquecento neonati di Sarajevo”, e invitando a proseguire la lotta. Le persone prigioniere nell’edificio (politici, ma anche funzionari e trecentocinquanta stranieri che in quel momento stavano partecipando a un’Assemblea del Fondo Europeo per l’Europa Sudorientale) hanno prima chiesto cortesemente di uscire; poi, intuendo la vanità dei propri sforzi, hanno cercato – per lo più inutilmente – di darsi alla fuga, uscendo dalle finestre o da porte secondarie. Bloccati nel Parlamento, i deputati serbo bosniaci si lamentavano del fatto che la manifestazione rappresentasse una chiara dimostrazione di ostilità nei loro confronti, e invocavano l’intervento della polizia “amica” di Sarajevo ovest, la parte della città sotto l’amministrazione della Republika Srpska.
Lo stesso Presidente del Consiglio dei Ministri, Vjekoslav Bevanda, ha in effetti richiesto l’uso della forza e l’intervento della polizia. Ma alle sue parole hanno fatto eco in serata quelle, risolute, di Fahrudin Radončić, ministro della Sicurezza: “Nessuna violenza verrà usata contro i cittadini”, ha assicurato. Così, poco dopo la mezzanotte di giovedì, i manifestanti erano asserragliati attorno al Parlamento, impedendo ai loro ostaggi di uscire. La situazione si è sbloccata solo alle 4 del mattino, quando grazie ad un accordo raggiunto con l'Alto rappresentante Inzko i rappresentanti politici e gli stranieri sono riusciti ad uscire dal Parlamento.
Il richiamo al dialogo
Nella serata di ieri sono arrivate anche le reazioni della comunità internazionale, che attraverso i suoi principali rappresentanti ha cercato di invitare i cittadini alla ragionevolezza: “I cittadini di Bosnia Erzegovina hanno il diritto di esprimere le loro opinioni in modo pacifico e dignitoso, secondo la Costituzione” ha sottolineato l’Alto Rappresentante Internazionale, Valentin Inzko “nel parlamento e nel governo del paese vi sono ancora i meccanismi atti a risolvere questo problema, i politici ora hanno la possibilità di affrontarlo rapidamente”. L’UE, attraverso il suo portavoce Andy McGuffie, ha sottolineato “la responsabilità di ognuno” affinché “le tensioni non aumentino”.
Anche Banja Luka, il capoluogo dell’entità serba, è stato protagonista ieri di un’altra protesta, passata in secondo piano dopo gli avvenimenti del pomeriggio a Sarajevo. Centinaia di studenti dell’università locale hanno contestato la mancanza di alloggi universitari, manifestando nella mattinata contro Milorad Dodik e la sua promessa, mai mantenuta, di costruire un quarto padiglione all’interno del campus universitario. Nel paese sono sempre più i cittadini che cominciano a contestare la propria classe politica: se questo però significherà automaticamente l’inizio della tanto attesa “primavera bosniaca” resta tutto da vedere.
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