Le vicende del conflitto bosniaco, la lotta tra il Bene e il Male, tra le logiche della convivenza e della pulizia etnica. Il giornalista Piero Del Giudice ricorda, vent'anni dopo, l'inizio dell'assedio di Sarajevo
La città che può fermare la guerra non riesce a farlo. Fallisce la Sarajevo multiculturale. Si oppone tradizione e complessità della società civile (nei quartieri nuovi, Ćengić Vila, Dobrinja, i matrimoni misti superano il 40%) alla ferinità delle stragi e pulizie etniche lungo la Drina (da Bijeljina a Višegrad dove si sgozza la gente sulle spallette del ponte di Ivo Andrić).
Nella grande manifestazione del 4-5-6 aprile 1992 per la pace, convocata nella capitale bosniaca, affluiscono trecentomila persone. Il secondo e il terzo giorno tiratori scelti sparano dall’alto sulla folla, cadono i primi civili, comincia la battaglia per Sarajevo e la “blokada”. Sarà l’assedio più lungo.
Nazionalismi
È l’evoluzione e il ‘tradimento’ della sinistra - la Lega socialista nelle mani di Slobodan Milošević - a far precipitare la situazione. Dentro le tempeste di un Paese in crisi e di fronte alle resurrezioni dei nazionalismi sconfitti nella resistenza della Seconda guerra mondiale, Milošević decide di coricarsi sull’onda nera che monta e cavalca il nazionalismo serbo.
La sinistra non fa proposte di riforma, abbandona la mediazione politica tra repubbliche e aree di crisi della federazione, tra diversità culturali e comunitarie. Concorre con i nazionalismi e le loro bande per un futuro di ‘Grande Serbia’. “Là dove è un serbo lì è Serbia”. Il nazionalismo croato - leader l’ex-generale di Tito, Franjo Tudjman - guarda ad Ante Pavelić ‘Primo capo dello Stato croato’ e sogna la ‘Grande Croazia’. Le divise dei soldati sono ancora sommarie, ma il rosario alle spalline dove passa la cinghia del kalashnikov lo hanno tutti.
A fine febbraio 1993, nella Bosnia coperta di neve, si chiude l’accordo serbo-croato e si disegna la spartizione del Paese tra le due più forti repubbliche. L’idea è quella di confinare in alcuni quartieri di valle - da Marindvor a Vraca - la comunità musulmana tagliando la città e chiudendo la porta sud. «Dentro come topi nel quartiere turco, tutti dentro la Baščaršja» dice Radovan Karadžić che, nell’aprile 1992, è ancora seduto alla triplice presidenza insieme ad Alija Izetbegović e Stjepan Kljuić.
Morire per Sarajevo
Morire per Sarajevo è allora battersi per la città che muore sotto le granate e all’incrocio delle strade, sotto il tiro dei cecchini, per i tavuti – le assi funerarie del rito islamico - già pronti e accatastati nei cortili delle moschee, per una lingua, letteratura che scompare, un’arte tolta dai musei e nascosta nelle casse (e gli stećci, i monumenti funebri medievali bohumili esposti nei prati fuori dai musei, vengono presi di mira dai cecchini).
Morire per la disperata preghiera del muezzin dal minareto cannoneggiato dal tank (fare il tirassegno sui minareti!), per la biblioteca della città ridotta in cenere dal bombardamento di granate incendiarie dell’agosto 1992. Per una città aperta, che argomenta la vita in comune tra diversi, per una repubblica che in sé accentra la proposta originale di convivenza tra diversi, il modello possibile e anche futuribile.
Abdulah Sidran in uno scritto recente: «Che cosa ha significato - dunque - l’assedio di Sarajevo? Come ha modellato la Storia quella tragica vicenda di morti e privazioni? Che cosa volevano gli assedianti e che cosa difendevano gli assediati? La mia generazione, resistendo al nazionalismo serbo, lottando in nome di una società multiculturale, ha conservato un volto, una forma e un discorso. Quella dell’assedio fu una conoscenza dalle origini, esistenziale. Fu una prova e una maturità. Fu la ragione contro i mostri… La lotta tra il Bene e il Male è iniziata sulle mura di Sarajevo! 20 anni fa!
Da allora abbiamo visto crescere, moltiplicarsi, diffondersi, le nuove teorie per cui gli uomini non stanno insieme tenendo a base il diritto, ma l’arcano della omogeneità etnica. Le nuove tavole della convivenza si scrivono sulle recinzioni». Valori e ansia di valori. I giovani studenti e operai che vanno, traversando il tunnel, alla difesa del monte Igman porta sud della città, dicono: «Noi siamo la Spagna repubblicana, la nostra battaglia è per la democrazia e contro il fascismo». «Siamo la multiculturalità e la democrazia, l’Europa e il cosmopolitismo». I poeti e gli scrittori - gestori del duh, dell’anima della città - rivestono un ruolo strategico.
L’abbandono di Sarajevo da parte della comunità ebraica - orchestrato da Israele in chiave islamofobica, con la mediazione di Elie Wiesel - lascia stordita la città cui sono appartenuti per 500 anni. E il governo deve ufficialmente smentire che Abdulah Sidran abbia abbandonato la città, quando nel 1993 - come giurato al festival del cinema di Venezia - o nel 1995 - per la prima edizione italiana di un suo libro di poesia - lascia temporaneamente Sarajevo (passando per il tunnel).
Il tunnel. La Velepekara
La difesa di Sarajevo si proietta nel mito, come la battaglia della Sutjeska, come la rivolta del ghetto di Varsavia. Sono prove che esistiamo, che l’uomo non è distruttibile. Il tunnel, poco più che un cunicolo minerario, scavato sotto le piste dell’aeroporto - da una casa di Dobrinja a Hrasnica, ai piedi dell’Igman - ha contribuito molto a questo mito. Alto 1.70 e largo altrettanto, vi si snoda uno stretto binario su cui vengono spinte le kolice, i carrelli di ferro. Unico tubolare terroso e malfermo che dà ossigeno alla città, unica via per le armi e il cibo.
La fame è una costante nella città assediata. La mancanza d’acqua dentro le case una condizione ancora più grave. La città - ridotta a qualche sgangherato e semidistrutto quartiere coperto dalle barricate («siamo rimasti in pochi!» dicono dall’interno) - anche nelle giornate di luce ha un colore grigio, arrugginito.
Né alberi, né verde, i colori sono quelli dei container a protezione di qualche percorso e delle barricate alzate con cataste di automobili fuori uso, le carrozzerie tarmate dai colpi e dal tempo.
Il pane per la città viene cotto alla Velepekara il grande forno statale - se non è stato bombardato, se l’Unhcr ha portato le quote di farina. È ‘pane di guerra’ ma la sua fragranza si diffonde nell’aria e accentua la fame e il desiderio. Sulla facciata della Velepekara è dipinta una grande spiga dorata di grano. Il colore - tra lamiere storte e buchi neri dei colpi - è rimasto, come il manto di un santo bizantino in fondo a una latomia diventata stazione di preghiera. I sarajevesi - nei letti gelidi dei loro lunghi inverni sotto assedio, nella città trasformato in un ghetto - sognano la grande spiga di sole, l’aureo cibo proibito.