Il reportage del settimanale Dani nella Bosnia orientale, tra Bratunac e Srebrenica, dove serbi e bosgnacchi collaborano per la costruzione di un Centro di Aggregazione comune. La ricerca di un uomo che aveva cercato di salvare i propri vicini, la speranza nella nuova generazione
Di Vuk Bačanović, Dani, 12 dicembre 2008, (tit. orig. "Reportaža: Dani u Bratuncu i Srebrenici, Slamanje aparthejda")
Traduzione per Osservatorio Balcani: Maria Elena Franco
A Suha, vicino a Bratunac, grazie al lavoro comune di serbi e bosgnacchi, è stato da poco costituito un Centro di aggregazione. Un reporter di Dani è stato a Bratunac e Srebrenica, ha parlato con i giovani e ha constatato che nel buio generale che viene sempre messo in evidenza dai mezzi di comunicazione, emerge un chiaro filo di speranza
All'alba, prima di partire per Suha, nei pressi di Bratunac, interessato dalla breve notizia che lì i serbi e i bosgnacchi che han fatto ritorno costruiranno insieme un Centro di aggregazione, ho digitato il nome di questo paese in internet. In verità volevo vedere dove si trova esattamente. Risultato: "Riesumazione completata l'11.05.2005. Nella fossa trovati 38 corpi. Di questi, 30 donne e 8 bambini. Il più piccolo aveva 2 anni".
Non avevo tenuto conto che questa fossa si trovava a Suha. Tuttavia, ciò che mi è rimasto impresso delle tragedie avvenute a Bratunac nel 1992, è quel che ho letto sul massacro dei civili bosgnacchi nella scuola elementare "Vuk Karadžić". Secondo i testimoni sopravvissuti, in questa scuola è stato ucciso anche un cittadino serbo, un imbianchino di Bratunac, che aveva aiutato i bosgnacchi a sopravvivere al terrore e alla pulizia etnica. Gli hanno sparato un proiettile in testa dicendo: "Questa è la fine che fa un serbo che aiuta i musulmani".
Ritorno
"Quando sono tornato, per tutti era interessante vedere una faccia nuova in città", ci racconta Ado, uno di quelli che hanno fatto ritorno. Classe '88, lavora per il Consiglio dei giovani di Srebrenica e canta in una band della città. Insieme a lui e al suo coetaneo Almir, che vive a Suha, ci siamo dati appuntamento sulla via principale, alla cucina popolare "Corso", gestita da un bosgnacco che ha fatto ritorno qui, di fronte all'edificio dell'Organizzazione dei veterani serbi dell'ultima guerra. Non lontano c'è la moschea della Čaršija, rimessa a nuovo. Ci sediamo in uno dei caffè lì vicino. "Prima mi poteva capitare spesso di entrare in un caffè e sentirmi dire dal cameriere: "Non può stare qui". Anche in questo locale. Ma adesso è diverso. I miei amici serbi hanno iniziato ad uscire con me e così non possono non servirmi da bere. Oppure succedeva che ai karaoke, quando cantavo io, tutti restavano in silenzio. Nessuno applaudiva. Anche oggi capita che in qualche posto ti dicono 'ti sei perso', che ti minaccino e insultino, ma io non mollo. Non me ne andrò mai".
- E con le ragazze?, il nostro fotoreporter si fa curioso.
- Se solo sapeste quante relazioni segrete ci sono a Bratunac... sorride Ado.
- Io non avrei nulla in contrario a queste relazioni, dice Almir con un risolino.
"Un serbo ha salvato mio padre... Tu sai chi è... Ha impedito che uccidessero me e mia madre. Ma suo fratello no, voleva ucciderci, ci ha minacciati. Ma quando ho fatto ritorno a Bratunac e ho saputo dell'organizzazione "Odissea" e dei manifesti affissi per la città sui crimini contro i bosgnacchi, non ci potevo credere. Di recente sono stato per la prima volta in vita mia a Belgrado e a Požarevac, da un amico, e mi sono sorpreso della brava gente lì e di come la pensano. Beh, ecco, i miei due fratelli di 11 e 12 anni sono stati uccisi nel '92. Conosco un tipo che al tempo aveva 13 anni e che è stato costretto a spostare i corpi fatti a pezzi. Tuttora è tormentato da incubi", racconta Almir.
Chiedo loro se sanno qualcosa dell'imbianchino serbo, anch'egli vittima dell'esercito di Mladić. Nessuno dei due ha sentito parlare di lui.
C'è speranza
Fino a Suha viaggiamo su qualcosa che, con un po' di fantasia, possiamo chiamare strada. Ci portano Ado e Almir. Parcheggiamo davanti al Centro di aggregazione, non ancora ultimato. Sulla porta un manifesto dell'Associazione delle donne "Natura", che ha donato il materiale edile. Figure grassottelle e sorridenti si tengono per mano. Sotto sta scritto: "Un vicinato ricco costruisce ricche comunità sociali". Pioggerella ghiacciata. Dall'alto si vede la Drina, da cui soffia un vento freddo. Almir spiega che la maggior parte della gente - bosgnacchi e serbi - che ha partecipato alla costruzione, in questo momento sta lavorando da qualche parte all'installazione delle tubature dell'acqua.
Tuttavia siamo fortunati, perché dopo poco arriva Refik Begić, uno dei principali promotori dell'impresa comune: "Finora sono tornate circa 160 persone in circa 70 case", spiega. "Qui c'è stata una pulizia etnica totale. La maggior parte delle persone è stata portata al lager nella scuola elementare "Vuk Karadžić". Tre persone sono scomparse. Io sono stato tra i primi a tornare, insieme alla mia famiglia. Qui, da quando la gente ha iniziato a far ritorno, non ci sono state tensioni interetniche. Mi fa piacere che anche i serbi abbiano partecipato a questa costruzione. Abbiamo dei rapporti molto buoni con i serbi di Sarajevo e dei cantoni del centro della Bosnia che hanno trovato rifugio a Bratunac - con loro non abbiamo avuto nessun problema. Negli ultimi 6 anni l'opinione pubblica è cambiata. C'è speranza, non solo per questa comunità locale. Vista la vicinanza a Srebrenica e Potočari, questa è una zona ancora molto sensibile. Se si stabilisce un dialogo aperto e trasparente su tutte le questioni, però, riusciremo a superare anche questo. C'è stato il supporto di tutti. Interessante è vedere che basta davvero poco perché le persone cambino. Non c'è stato uno che, almeno a parole, non abbia sostenuto questa decisione. I profughi rientranti che non hanno potuto contribuire finanziariamente hanno portato almeno un agnello, da mangiare in compagnia. La gente sta insieme, e questa è una grande cosa".
Saliamo in macchina e ci dirigiamo alla casa della famiglia Ristanović, una costruzione modesta, non ancora ultimata. Sredoje, il capofamiglia, era a letto - aveva fatto il turno di notte - ma si è alzato per parlare con noi. "Abbiamo partecipato alla costruzione del nostro Centro, abbiamo lavorato. Ci rispettiamo come famiglie, collaboriamo. E deve continuare così, per costruire insieme anche la strada. Non si può più passare nemmeno a piedi, figuriamoci in auto". "Se ti comporti bene con gli altri, anche loro lo faranno con te. Ma se porti odio, allora non va bene" aggiunge la padrona di casa accompagnandoci. I cittadini di nazionalità bosgnacca parlano bene di Sredoje, dicono che è un brav'uomo. A lui, personalmente, non hanno niente da rimproverare.
Speriamo non ci siano altre fosse comuni
"Noi facciamo tutto insieme", ci dice Refija Hasnić, segretaria della comunità locale di Suha. "Non ci sono problemi, però si vede come i partiti nazionali e i media possono istigare, produrre del male, è indescrivibile. Quelli che schiamazzano sono i più fastidiosi. Non sopporto quando dicono 'valacco' o 'turco'. Io non lo faccio, ma molti stanno spesso insieme e poi, dietro le spalle, parlano male gli uni degli altri. Ecco, questo mi infastidisce. Io voglio imparare da Nataša Kandić. Per me è la persona più importante, perché, sapete... Chissà se ci sono altre fosse o tombe. Di questo ho paura. Le persone sono piene di odio e invidia, sono rapaci. Non importa più se uno è serbo o musulmano, noi ci odiamo per i soldi, perché tutto gira intorno a denaro e interessi. Da quando sono tornata faccio volontariato, ho 54 anni. Se salvo un uomo dall'odio e dal nazionalismo, uno ne salverà dieci, dieci ne salveranno cento, cento un migliaio, e avanti così". Chiediamo a Refija dell'imbianchino serbo. Lei si ricorda di un ragazzo con una maglia da marinaio che ha distribuito loro coperte e biscotti e li ha salvati dalle sofferenze.
"Siamo qui, in questa casa, dal 1993", afferma sorridente Bosiljka Krsmanović. "Non l'abbiamo occupata, l'abbiamo comprata. Siamo in buoni rapporti con tutti. Chiedete in giro, siamo gli unici di diversa nazionalità nel vicinato. Noi ci troviamo molto bene. Non odio nessuno e nessuno mi odia. Viviamo come si può. Ora siamo gente del posto, siamo cittadini. Io sono di Visoko, per l'esattezza di Donji Moštri. Chiedete alla gente di Boško, mio marito, qui tutti gli vogliono bene. Anche lì eravamo in buoni rapporti con tutti. Certo, si conosce veramente qualcuno quando arrivano i problemi; durante la guerra sono rimasta a casa da sola un anno intero, mentre mio marito era in prigione, e nessuno mi ha fatto niente. Anche oggi mi sento con loro e chiacchieriamo, vado da loro. Ora, non so gli altri, io posso parlare per me. Che ognuno faccia i conti con la propria coscienza".
Sulla strada di ritorno per Sarajevo, ci fermiamo anche a Srebrenica. Qui Ado lavora con l'equipe del Consiglio dei giovani della cittadina insieme a Bojan Marković, Dijana Hren, Dejan Petrović e Alma Gabeljić. Dejan è responsabile della sezione giornalistica a cui collaborano anche bosgnacchi e serbi. Dicono di essere la prova vivente che si può lavorare insieme senza odi e pregiudizi. Mentre torniamo a Sarajevo scende la nebbia sulla Bosnia orientale, collinare e boscosa. Mi torna in mente un episodio divertente raccontato da Ado: "Quando sto con le mie amiche serbe, le battute più divertenti sono quelle sulla nazionalità. Il mio amico Milan dice: 'Sono gelosi di te, della serie: anch'io vorrei essere musulmano'".
Forse per questa generazione c'è speranza: ci vorrebbero nuovi "sessantottini", questa volta efficaci, che si ponessero come alternativa alla terribile segregazione nazional-sciovinista e all'apartheid che c'è in Bosnia Erzegovina. Una volta arrivato a Sarajevo, trovo in internet una parte del libro di Seja Omeragić "I figli di Satana" e leggo di Milutin Vukšić, imbianchino, "uomo tranquillo e riservato". Ha nascosto una famiglia bosgnacca e per questo, in quanto "serbo traditore", è stato portato nell'aula della scuola elementare "Vuk Karadžić", dove erano ammassati i bosgnacchi. "L'hanno portato davanti a tutti, volevano che riconoscesse qualcuno di loro. Più tardi sapremo che si trattava di Asim Sandžić, che stava nelle prime file, e di un altro prigioniero che non conosciamo. Milutin era stato portato lì per indicare Asim... Ma Milutin si è girato e, ha detto malinconico: "Non ci sono, non sono qui!" Dopo di che l'hanno colpito con delle spranghe di ferro e gli hanno sparato un colpo in testa. Forse una nuova e più felice generazione, fatta non di malfattori e sanguinari, lo ricorderà.