Un film documentario sugli anni dell'assedio girato da ragazzi allora diciottenni. Senza retorica descritta l'incredibile normalità dell'impossibile. Anche se "avremmo potuto vivere anche senza questa esperienza".
Di Valentina Pellizzer
Perché quello che accade in BiH non sempre ha il colore del sangue o della denuncia dell'ennesima truffa e dell'ennesima fallita cattura di Radovan Karadzic.
Con l'immagine dei due grattaceli della UNIS in fiamme sui biglietti (dissacranti e terribilmente seri a riecheggiare le più famose torri gemelle newyorkesi) e le locandine attaccate un po' dovunque, Sarajevo ha guardato se stessa attraverso le immagini girate durante il lungo assedio iniziato nell'aprile '92, quando i tre autori di questo film-documentario avevano poco più di 18 anni. Per 500 ore, durante la guerra, insieme ad altri amici, hanno instancabilmente raccolto voci ed immagini per farne un documentario lungo poco meno di un'ora, un documento di memoria storica e d'amore, sulla vita e la morte in quegli anni.
Chi fra il pubblico si aspettava la solita celebrazione della multietnicità con il ritualistico mostrare luoghi e simboli delle tre religioni e del loro tollerarsi, oppure temeva le scene dei massacri di massa è rimasto sicuramente sorpresa/o ma non delusa/o. Nessuna delle immagini più famose ma tutto lo spirito dissacrante e irriducibile della città assediata e la sfida a rischio della vita per muoversi, vivere ma anche registrare senza la protezione di tessere giornalistiche o dei blindati bianchi UNPROFOR.
Sarajevo guarda e ride. Le immagini scandite dalle voci di normali cittadine/i sorprese/i, ingenue/i davanti alla telecamera. Le esclamazioni di stupore rese vere dal colorato parlare bosniaco, continuamente intessuto di jebi ga (si fotta) e jebi se (fottiti), gli incendi. Una signora scuote la testa e dice: "Nelle guerre civili i bombardamenti si annunciano così la gente può trovare ricovero, anche in Mozambico, anche in Africa si annunciano, ma questa non è una guerra civile, questo non è un bombardamento civile".
E ancora immagini di incredibile quotidianità, un ragazzo che gioca a basket in un cortile chiuso fra le case, i bambini con lo slittino e un giovane sciatore che si lancia per le strade cittadine, per le ripide scale innevate in un fantomatico slalom. Alla fine ecco la parodia seria della premiazione, mentre l'inno italiano (libertà di Albano) viene intonato, gli atleti vittoriosi stringono il loro premio: primo Alberto Tomba che stringe mezzo chilo di latte in polvere, uno sconosciuto, secondo classificato, regge in mano invece mezzo chilo di formaggio. Manca il bronzo. Il terzo slalomista, è il commento sarcastico, nel frattempo (nazalost je ubijen) purtroppo è stato ucciso.
Finisce il documentario, con le immagini dei cimiteri di Sarajevo e mentre già vanno i titoli di coda, una voce dice: "avrei potuto vivere anche senza questa esperienza".
Un documentario che la città ha accolto bene, tanto da prolungarne le proiezioni. Un documento che merita di essere ospite di festival e di essere visto per mostrare come senza retorica ma con l'incredibile normalità dell'impossibile, le cittadine ed i cittadini hanno superato quegli e questi anni. Un altro pezzo di quella terra di nessuno che però tutte/i avrebbero voluto.