L'umorismo nero, caratteristica peculiare dell'anima bosniaca, pervade e disegna “Il funerale di zia Stana” di Slađana Nina Perković: un romanzo in cui si ride e sorride fin dall'inizio, ma scava nella psicologia collettiva di un popolo segnato da numerose tragedie
L’ironia, l’umorismo, compreso quello nero, è una caratteristica del popolo bosniaco che, avendone subite fin troppe, coltiva un gusto leggero per affrontare le difficoltà della vita.
Molto deriva dalla visione fatalista che li anima, dando valore più che a un futuro, dato nelle mani di Dio, al presente, magari liquidandolo con una battuta. O alleggerendolo con una risata.
Ricordo l’ultima volta che sono stato a Sarajevo: mi volevo gustare un piatto di ćevapčići, accompagnati da un buon calice di rosso, ed entro in un locale tra i migliori in questa specialità con queste intenzioni, ma il ristoratore allarga le braccia e mi dice che non vendono alcolici. Io digrigno bonariamente la bocca, e sto per andare via, ma lui, subito, per venirmi incontro mi fa: ti posso però dare una birra. Accetto, e poco dopo, in attesa dei ćevapi, sorridendo sotto i baffi mi porta la birra, con una parte dell’etichetta strappata. Lo guardo sospettoso e ride. “Hai strappato l’etichetta dov’era scritto che era analcolica” gli dico e mi metto a ridere con lui. Be’, poi siamo diventati amici.
Ho pensato a questo episodio leggendo il romanzo “Il funerale di zia Stana” della bosniaca Slađana Nina Perković, edito in Italia dalla Voland nella traduzione di Marijana Pulijć e a cura di Silvio Ferrari.
Diciamo subito: si ride e sorride sin dall’inizio, pur non essendo un romanzo comico, bensì attraversato da un umorismo, a tratti inevitabilmente nero, trattandosi di un funerale, in cui a far emergere l’ilarità è la nuda verità che giace nel sub-limine di certe cerimonie dove il dolore di qualcuno, quando è reale, si mescola ad atteggiamenti più che sentiti veramente, di circostanza, spesso per questo rimossi dalla coscienza per una sorta di decoro ai nostri stessi occhi.
Nel funerale di zia Stana è già ridicolo, nella sua tragicità, come la donna è morta, cioè per un osso di pollo andato per traverso. La circostanza della disgrazia viene ripetuta più volte, proprio a sottolinearne la stranezza e, insieme, l’improvvisazione che sollecita i preparativi dei parenti per i funerali. A raccontarli un io narrante, che è la nipote di zia Stana, una giovane trentenne, la cui unica passione sembrano essere le serie gialle televisive sulle quali programma le sue giornate.
E proprio per non mancare a una puntata di una di queste rinuncerebbe volentieri a partecipare al funerale, per altro in un paese fuori città, dove la zia viveva. Ma la madre, per convenienza sociale, la spinge ad andare, anche se i suoi rapporti con zia Stana si erano guastati nel tempo, obbligandola anche a vestirsi al meglio, indossando dei pantaloni neri che le stavano un po’ grandi, ma apparivano eleganti.
Invano la giovane protesta per andarci, chiede alla madre perché non ci va lei o il padre, che è il nipote diretto di zia Stana, ma entrambi accampano scuse di lavori da fare in casa. Tra l’altro la giovane ci dovrà andare in macchina con il cugino che ha una guida un po’ troppo disinvolta, di cui non si fida molto.
Sia i dialoghi con i genitori e le loro caratterizzazioni, così come i commenti in sottofondo che la protagonista esprime, così come poi il viaggio in macchina con il cugino lungo una strada non proprio sicura sono raccontati con una vivacità comica che proseguirà per il resto del romanzo e che si esalterà con l’arrivo dei diversi congiunti. Ben presto si scopre che tutti in realtà, più che addolorati, sono interessati al rischio che salti l’affare che si era presentato con la vendita della casa in cui abitava zia Stana e il terreno circostante.
In questa “verità” che spesso soggiace alla morte di qualcuno e che aleggia intorno al suo funerale se l’eredità fa gola a molti, si inserisce il tentato suicidio del vecchio vedovo e altre situazioni che, indirettamente, offrono uno spaccato e della psicologia umana e della società bosniaca uscita dalla guerra interetnica che, come ben scrive Marijana Puljić nella postfazione al romanzo “spaziano dalla corruzione dello stato alla falsa religiosità, dall’egoismo all’avidità, dalla famiglia disfunzionale all’inettitudine degli operatori sanitari, alla mancanza di empatia e solidarietà” in cui “è costante sullo sfondo il motivo della guerra, che ha segnato le vite dei protagonisti e diviso le esistenze in un prima e in un dopo”.