Fermo immagine di "Sniper Alley - To my brother"

Fermo immagine di "Sniper Alley - To my brother"

Al Sarajevo Film Festival 2024 è stato proiettato in anteprima “Sniper Alley – To My Brother”. Abbiamo intervistato i registi Cristiana Lucia Grilli e Francesco Toscani, il protagonista Džemil Hodžić, ideatore dell’omonimo progetto di memoria fotografica e il fotoreporter Mario Boccia, coinvolto nel documentario

08/11/2024 -  Anna Lodeserto

Cristiana Lucia Grilli e Francesco Toscani, come è nato il vostro legame con Sarajevo? Come è nata l’idea di realizzare “Snyper Alley - A mio fratello”?

Siamo stati a Sarajevo diverse volte prima di iniziare le riprese di “Sniper Alley – To My Brother”. Il primo contatto è avvenuto durante le riprese di un precedente documentario, “Adriatico. Il Mare che unisce” in cui esploravamo i legami storici tra il Regno di Napoli e i Balcani. Già in quella occasione stavamo raccogliendo materiali per un film su Sarajevo, che si basasse su una memoria tangibile come il grande progetto archivistico “Sniper Alley ” di Džemil Hodžić ambiva a fare sin dall’inizio, in collaborazione con i fotografi di tutto il mondo che avevano lavorato lì durante l’assedio. Per far questo, abbiamo poi deciso di mantenere il titolo evocativo da lui usato, cioè "Il viale dei cecchini", come veniva chiamato il viale che durante la guerra collegava l’area industriale e l’aeroporto alla parte antica della città, costantemente sotto il tiro di cecchini serbo-bosniaci.

L’idea è nata quasi per caso, dopo esserci appassionati alla storia di Amel Hodžić, un adolescente ucciso da un cecchino il 3 maggio 1995 mentre giocava in strada con suo fratello. Durante una delle nostre prime visite a Sarajevo, ci eravamo imbattuti nella foto di un bambino con un sorriso contagioso e disarmante, nonostante fosse circondato dall’orrore della guerra. Quella foto ci ha scossi in  maniera immediata e profonda ed è proprio a partire da queste emozioni che è nata l’esigenza di raccontare quella storia. Per dare voce non soltanto ad Amel, ma a tutti i fratelli, alle sorelle e ai bambini intrappolati in quel conflitto e di ricostruire in maniera nitida l’epoca dell’assedio nella quale più di un migliaio di bambini sono morti.

Come avete gestito il rapporto con la famiglia di Amel durante la realizzazione del film?

Il rapporto con la famiglia di Amel, instaurato attraverso suo fratello Džemil, è stato fondamentale, in particolare con la madre di Amel, Ulfeta Hodžić. Sin dall’inizio, abbiamo capito quanto fosse indispensabile includere nel film la sua testimonianza diretta, piena di forza e dignità. Quando abbiamo chiesto a Džemil il permesso di coinvolgerla, è stato molto toccato da questa nostra proposta, ma ha poi accettato di buon grado. Al primo incontro ci siamo abbracciati e abbiamo pianto insieme... è stato un momento di grande intensità emotiva e di profonda connessione.

Nel film emerge con risalto la figura di Amel. Come avete strutturato questa scelta narrativa?

Il nostro obiettivo era di ridargli vita attraverso il film, per cui abbiamo cercato di creare spazi visivi e sonori in cui la sua presenza fosse tangibile. La scena iniziale, ad esempio, da una panoramica di Sarajevo si sposta pian piano dentro l’appartamento, dove una registrazione audio di Amel da bambino fa riaffiorare la sua voce e i suoi ricordi. Volevamo che il suo ricordo non restasse solo un’immagine sbiadita, ma venisse associato a quello di una persona viva, con un passato spezzato ma non dimenticato.

Abbiamo dunque deciso di dedicare il film a “tutti i fratelli del mondo”. Così come Džemil aveva immaginato sin dall’inizio il progetto “Sniper Alley” per suo fratello, con il film abbiamo pensato di fare lo stesso, ma in un’ottica più ampia. Per noi, Amel è il simbolo di tutti quei fratelli e quelle sorelle che lottano per la giustizia, per la verità, per la pace, in ogni parte del mondo. È un messaggio universale che va oltre la tragedia personale, e che parla alle generazioni future.

Qual è stato il riscontro del pubblico all'anteprima a Sarajevo?

La proiezione nei giorni del Film Festival è stata molto significativa, grazie soprattutto alla presenza in sala di molte persone che hanno vissuto direttamente gli eventi che raccontiamo, compreso il presidente dell’Associazione delle famiglie dei bambini uccisi nella Sarajevo assediata, Fikret Grabovica. È stato un momento di grande emozione.

Il progetto fotografico che accompagna il film ha avuto un ruolo centrale nel vostro processo creativo. Come è stato affrontato il lavoro attraverso le immagini e il rapporto con i fotografi che hanno collaborato alla realizzazione del film?

Tutte le foto di quei bambini uccisi durante la guerra hanno una potenza incredibile, e come sono state valorizzate durante le attività di ricerca nel progetto originario “Sniper Alley” ci ha scossi e trasmesso un profondo rispetto. Volevamo che il film riflettesse l’importanza di quelle immagini, che sono diventate una sorta di memoria collettiva. Abbiamo dunque ritenuto fondamentale raccontare le difficoltà legate alla ricerca di ogni singola foto, le gioie dei ritrovamenti e dei riconoscimenti dei volti dei bambini, l’incontro con i fotografi, l’ascolto delle loro esperienze durante il conflitto e le memorie preziose che hanno portato successivamente altrove.

Il rapporto con un fotografo come Mario Boccia, per esempio, è stato fondamentale per il film e per la ricostruzione degli avvenimenti e delle emozioni. Džemil stesso ci ha raccontato come le foto raccolte nel corso degli anni lo aiutino a mantenere viva la memoria di suo fratello e attraverso la loro diffusione possa combattere contro il negazionismo che colpisce tutt'oggi il suo paese. Il nostro film è, in un certo senso, una prosecuzione di quella battaglia.

Dicembre 1992, postazione sul monte Trebević © Mario Boccia

Quale speranza vi accompagna dopo aver realizzato questo film?

Speriamo che “Sniper Alley – To My Brother” possa arrivare ovunque non solo come memoria di una tragedia, ma anche forte messaggio di speranza e riconciliazione. Ogni stella che abbiamo voluto ricreare anche artisticamente nel film rappresenta un bambino, una vita spezzata, ma allo stesso tempo un simbolo di resistenza e dignità. Con questo film speriamo di aver portato almeno un messaggio di pace e un doveroso tributo a tutte quelle famiglie che sono ancora in attesa di giustizia.

Mario Boccia, qual è secondo te il valore aggiunto di questo film, rispetto all'attuale filmografia?

L'ho visto per la prima volta a Sarajevo, assieme al pubblico, agli autori e a tante persone che l’assedio l’hanno vissuto direttamente. Credo non potesse esserci luogo migliore per la “prima”. Pur sentendomi dentro al film, per aver risposto alle domande degli autori in corso d’opera, vederlo finito è stato veramente emozionante.

Intorno a me ho visto tanti occhi lucidi, ma oltre l’emozione e il lungo, meritato, applauso, il film di Cristiana e Francesco stimola nuove riflessioni su quanto è accaduto. Forse uno dei valori aggiunti è questo. Il merito è degli autori, della storia e dei suoi protagonisti: Džemil Hodžić, sua madre Ulfeta e suo fratello Amel, vivo come un attimo prima di essere colpito dalla pallottola di un tiratore scelto serbo-bosniaco mentre giocava in strada.

La presenza di Amel si avverte anche prima di vederlo sorridere e strizzare l’occhio nella foto di Tomas James Hurst, scattata poco prima di essere ucciso. Amel è vivo nei racconti di sua madre, e in un oggetto particolarmente prezioso: un suo esercizio di calligrafia islamica rimasto incompiuto e conservato nel “Museo dell’Infanzia in guerra” di Sarajevo (War Childhood Museum ).

Avevi già collaborato con il progetto di Džemil Hodžić?

Ho conosciuto la storia del progetto “Sniper Alley” leggendo in rete l’appello di Džemil ai fotografi di tutto il mondo per ritrovare un’immagine di suo fratello ucciso. Non era la semplice ricerca di notizie di una persona scomparsa, attraverso una foto, ma qualcosa che riguardava il valore e l’importanza della Fotografia.

“Sniper Alley”, e questo film che racconta l’origine del progetto, danno un senso al lavoro del fotogiornalista. Qualcosa che troppi, e spesso inadeguati, autori vedono solo come un mezzo per fare soldi. Secondo me, correre dei rischi non giustifica la povertà d’animo e il cinismo e rischiare non è mai un valore in sé. E, se lo fosse, qualsiasi bambino di Sarajevo ha rischiato 1425 volte di più di qualsiasi “reporter di guerra”, con elmetto e giubbotto antiproiettile.

Le fotografie hanno una vita propria, anche a prescindere dalle intenzioni dell’autore. Smettono di essere “sue” una volta pubblicate e viste da altri.

Le migliaia di foto arrivate e raccolte da Džemil, il “fratello piccolo” della storia, oggi adulto e ammirevole collega, rappresentano un archivio di grande importanza storica. Ci sono le foto che di solito non sono prese in considerazione dalle agenzie e dai photo-editor, ma che sono state scattate lo stesso. Foto mai casuali, bensì testimonianza di una relazione consapevole che si evidenzia in un gesto o uno sguardo. Foto di bambini che resistono alla guerra vivendo, giocando e sorridendo, fino a quando non sono presi di mira da soldati in armi. Non “danni collaterali”, ma colpiti e uccisi con fucili di precisione.

Settembre 1993, la feritoia di un cecchino a Grbavica © Mario Boccia

Come è avvenuta la scelta delle tue foto da inserire nel film?

Cristiana e Francesco hanno avuto la pazienza di ascoltarmi per ore, osservando le foto che mostravo loro. Poi hanno scelto quello che hanno ritenuto giuste per il film che avevano in mente: le foto e le storie degli incontri ravvicinati con i cattivi, i soldati assedianti, compresi alcuni “tiratori scelti”. È qualcosa che non posso dimenticare. Oltre al ricordo ingombrante di aver stretto mani sporche di sangue, per arrivare a scattare, c’è la constatazione di quanta “banalità del male” ci sia nel loro sguardo. Non sono mostri ma persone normali che fanno cose mostruose. Alcuni cercano e trovano una giustificazione per farlo, un’auto-assoluzione dettata da motivi ideologici o religiosi, mentre altri non si pongono nemmeno il problema e diventano assassini per conformismo, adeguandosi al sistema, senza porsi domande. Ho sempre detto che provare empatia per le vittime è facile, ma riconoscere affinità con i colpevoli è più utile per cercare dentro di noi i necessari anticorpi.

Džemil Hodžić, cosa ti ha spinto a collaborare per realizzare questo film?

È stato un caso, se così possiamo usare il termine già introdotto da Cristiana e Francesco, anche se in realtà quando si fa riferimento al nostro progetto non posso dire che qualcosa sia avvenuto unicamente per caso. Ci siamo conosciuti online su Instagram, ci seguivamo e Cristiana condivideva i miei post e le mie storie. A ottobre 2022 mi ha proposto un incontro per parlare di un possibile documentario sul progetto. Non ero stupito, né credevo che sarebbe accaduto, ma per cortesia ho accettato. Capirete che dopo tante proposte e suggerimenti ricevuti nel corso degli anni, poi non realizzati, si finisce per non prendere più le cose troppo sul serio.

Con il nostro primo incontro su Zoom ho percepito onestà e dedizione. Oltre alle loro idee ottimistiche e ambiziose, sono stato attratto dalle loro proposte per il grande amore che riuscivano a dimostrare in ogni parola. Nel mondo del giornalismo è facile individuare la cultura degli avvoltoi e il falso interesse per il potere della storia. Molte persone ti dicono che tengono alla tua storia, ma in realtà vogliono fare un bel film solo per se stessi. Con Cristiana e Francesco ho sentito intenzioni pure e amore sincero per la mia storia personale e per quella della mia famiglia.

Džemil Hodžić, fermo immagine Sniper Alley - To my brother

È stato difficile convincere i fotografi e gli altri professionisti che hanno contribuito al progetto “Sniper Alley” a partecipare al film?

Per quanto riguarda i fotografi e i loro contributi, ho suggerito alcuni nomi, principalmente fotoreporter italiani e ho parlato con alcune persone per sondare se volevano partecipare. Ad essere onesto, è stato difficile convincermi. Una volta che inizi a parlare non si torna indietro e questo è un prezzo alto da pagare. Sono consapevole di dover parlare, ma far entrare le persone nella mia vita è stata per me una decisione molto difficile da prendere. Ci sono cose che non vuoi condividere, ma poi non ne sei consapevole. Te ne rendi conto quando è troppo tardi. È personale, fa male e per la maggior parte del tempo non mi sento a mio agio a parlarne. So bene, però, che si tratta di un’arma a doppio taglio, perché se non sono io a parlare in prima persona, sarà qualcun altro a farlo, spesso distorcendo i fatti, e non voglio neanche che continui ad accadere questo, dunque ancora una volta mi sono fatto forza.