Potrà diventare Srebrenica cuore della riconciliazione in Bosnia Erzegovina? E' solo un'illusione letteraria? Un reportage
(Pubblicato originariamente dalla rivista Dani e ripreso dal portale Lupiga l'11 luglio 2018)
Lo scrittore bosniaco Faruk Šehić ha scritto un reportage da Srebrenica per il settimanale di Sarajevo "Dani". Come ogni altro suo testo, anche questo reportage è speciale. Šehić parla di Srebrenica come un luogo di sofferenza, ma anche di perdono e di riconciliazione. Allora addentriamoci insieme a lui tra le vie di Srebrenica, sbirciamo nelle case e nei cortili, ascoltiamo il silenzio di Potočari – il Memoriale tinto di bianco del marmo e di verde dell’erba. Šehić si è recato a Srebrenica in qualità di membro di una delegazione di veterani di guerra provenienti dalla Serbia e dalla Bosnia Erzegovina. Le persone, che fino a ieri si guardavano attraverso il mirino del fucile, oggi hanno reso omaggio alle vittime innocenti della guerra. Sì, anche questo è possibile.
Era notte quando siamo arrivati a Srebrenica da Belgrado. Di notte la città appare come qualsiasi altra città bosniaca, avvolta dal buio, circondata da colline su cui sono cresciuti nuovi alberi, perché quelli più vicini al centro urbano erano stati tagliati, durante la guerra, per far legna da ardere. Le colline intorno a Srebrenica non sono molto alte, ma hanno versanti ripidi. Solo il secondo giorno dall’arrivo in città, quando il sole ha illuminato il paesaggio, le colline hanno mostrato la loro bellezza, una certa mitezza dovuta a quei colori soavi di cui si tingono le foglie all’inizio dell’inverno. La prima cosa che viene in mente quando si pensa a Srebrenica è il grigio dei palazzi, delle strade, della natura. Un grigiore paragonabile a quello delle nubi che celano il sole e restringono l’orizzonte. Questa era la sensazione che provavo nei confronti di questa città, accompagnata dal sapore amaro della sconfitta umana. Sono stato più volte a Srebrenica, ma questa volta sono rimasto più a lungo, sufficientemente a lungo per conoscere le sue strade, alle quali nel 2004 furono restituiti i nomi che portavano prima della guerra. Scendevo per via Učina bašča, poi proseguivo per via Reufa Selmanagića Crnog.
Comignoli spenti
Quando Ratko Mladić entrò nella città ordinò che la targa riportante questo nome venisse rimossa dal muro. Oggi i nomi delle strade sono scritti sia in alfabeto cirillico che in quello latino su targhe di metallo blu. Mi sono reso conto che Srebrenica è una città deserta. Percorrendo le vie fiancheggiate da case, da qualsiasi parte si guardi, si vedono i comignoli spenti, finestre dietro alle quali non abita alcuna luce né il calore umano. Srebrenica è deserta come una stazione ferroviaria di provincia. Le sue case sono metafora tangibile di solitudine. L’unico rumore che si sente passeggiando per le strade è il gorgoglio del ruscello attorno al quale si sono ammassate le case, aggrappate ai ripidi pendii delle colline.
Così il primo giorno osservavo le case; sono state loro a farmi compagnia durante le mie passeggiate. Su una scala in cemento senza ringhiera, che porta al sottotetto di una casa accanto alla strada, qualcuno aveva lasciato due mele cotogne con foglie rugose. Srebrenica è una stella cadente, mi passa per la testa il titolo di una poesia di Melika Salihbeg Bosnawi [nota scrittrice e poetessa sarajevese, recentemente scomparsa, ndr]. Qua e là si scorgono luci dietro alle finestre, la biancheria stesa ad asciugare, un gatto che si scalda sul cofano della macchina nella posizione della sfinge… tutte quelle piccole cose che allietano, dimostrando che anche qui c’è vita, seppur nascosta in una casa su dieci. Prima della guerra, Srebrenica era uno dei comuni più ricchi della Bosnia Erzegovina e, stando al censimento del 1991, contava 36.666 abitanti. Oggi ne conta poco più di 5000, un numero molto inferiore a quello delle persone sepolte a Potočari.
Il giorno successivo abbiamo visitato il Memoriale di Potočari . A nome di una delegazione dei veterani di guerra della Serbia e della Bosnia Erzegovina, al monumento dedicato alle vittime è stata deposta una corona di fiori da Ljuban Volaš (veterano dell’Esercito della Republika Srpska), Novica Petković (veterano dell’Esercito popolare jugoslavo, proveniente dalla Serbia) e Narcis Mišanović (veterano dell’Esercito della Bosnia Erzegovina, originario di Sarajevo). È stato un momento davvero speciale, pensato per rendere omaggio e restituire dignità alle vittime del genocidio di Srebrenica. Erano presenti anche le madri di Srebrenica che raccontavano ai veterani le loro tragiche storie di vita. La nostra guida Amra Begić ci ha spiegato in modo dettagliato, dalla prospettiva di chi ha vissuto i fatti come testimone diretto, la cronologia dell’orrore di Srebrenica. Ancora una volta si è dimostrato che chi ha vissuto l’orrore sulla propria pelle ne parla nel modo più veritiero.
Potočari
Ai visitatori del memoriale è lasciata la possibilità di scegliere se percorrere da soli, o accompagnati da una guida, l’enorme spazio del cimitero scandito da lapidi bianche. Su una stradina, che passa tra le lapidi, mi sono imbattuto in una signora anziana che ha cominciato a raccontarmi dei suoi figli uccisi nella guerra. Ricordo solo una frase: “I figli non sono funghi”.
A Potočari dominano due colori: il verde dell’erba e il bianco del marmo. Qua e là compare il colore della terra fresca nella quale vengono fissate nuove lapidi. I lavoratori devono forare le piastre di cemento collocate lungo il perimetro delle tombe per fissarci le lapidi, in modo da prevenire la loro inclinazione e lo sprofondamento. L’unico contrasto cromatico è dato dal rosso delle foglie di un piccolo albero, un rosso dalle sfumature del sole calante. A Potočari mi nascondevo dietro la macchina fotografica, che consente di essere invisibili e di creare una barriera emotiva. L’obiettivo della mia macchina catturava i volti dei veterani mentre parlavano con le madri di Srebrenica e ascoltavano Amra Begić. Quelli più gravemente feriti erano seduti sulle sedie e i loro volti riflettevano il dolore e la compassione per le persone uccise. Un’espressione che non si può fingere. Qui lo spazio ha superato il tempo misurabile, che è svanito tra le migliaia di lapidi marmoree. In questo luogo esiste solo il tempo dei morti, iniziato l’11 luglio 1995.
Biglie di vetro
All’hangar, dove era la base del battaglione olandese, abbiamo visitato una mostra fotografica pensata come ricostruzione cronologica del massacro di Srebrenica. Gli oggetti ritrovati nelle fosse comuni sono stati esposti in una serie di nicchie buie. Ho visto un portasigarette d’argento, un paio di occhiali da vista e due biglie di vetro. Sotto la fotografia stava scritto: “Due biglie che appartenevano a Ismet Hasanović, rinvenute nel 1996 insieme al suo corpo nella fossa comune a Kamenica, Bratunac”.
C’è bisogno di descrivere la fragilità di quel giocattolo, la luce intrappolata in una figura geometrica, un microcosmo esotico – dove non si è riusciti a scappare prima della fucilazione – che pulsa di vita?
Credo che la prossima volta che verrò in questa città non avrò più la sensazione di essere un estraneo. Forse è proprio Srebrenica quel luogo da dove prenderà avvio il processo della vera riconciliazione tra i cittadini della Bosnia Erzegovina. Ma forse è solo una mia illusione letteraria. L’unica cosa che so è che questa città è diventata parte integrante del mio essere. Ha trovato posto lì dove le granate e il fuoco non potranno mai raggiungerla.