(Foto Pynomoscato, Flickr)

Lo sconcerto di un funzionario europeo in missione tra Sarajevo e Skopje. Il litigioso condominio bosniaco, il dilemma macedone. Riceviamo e volentieri pubblichiamo

12/04/2010 -  Paolo Bergamaschi

 

Marzo 2010 - Valentin Inzko è forse l’unica persona in Bosnia Erzegovina, in questi tempi di crisi nera, cui non dispiacerebbe perdere il posto di lavoro. E’ dal 1995, quando furono firmati gli accordi di Dayton, che l’ex repubblica jugoslava è retta da un plenipotenziario internazionale che affianca e sorveglia le autorità locali. Da allora, però, molte cose sono cambiate. Bosniaci, croati e serbi continuano a litigare su tutto ma, anche se i toni degli scontri verbali sono quelli di sempre, sembrano rassegnati a convivere nello stesso condominio. In appartamenti separati, ovviamente, ma sotto lo stesso tetto. Dal marzo del 2009 Inzko ricopre l’incarico di Alto Rappresentante per la Bosnia Erzegovina. A lui, dunque, spetta il compito di amministrare questo sgangherato condominio lasciando la gestione ordinaria delle cose nelle mani dei rissosi inquilini, ma riservandosi di intervenire in caso di emergenza. Lo ha fatto lo scorso dicembre, prolungando d’ufficio il mandato dei giudici internazionali che indagano sui crimini di guerra nei tribunali statali e, due mesi prima, per dare modo alla compagnia elettrica locale di operare su tutto il territorio bosniaco. Molto probabilmente sarà chiamato a farlo anche nei prossimi mesi per sbloccare l’ennesimo veto o rimuovere un nuovo ostacolo, ma è chiaro a tutti che fino a quando Inzko sarà obbligato a supplire alla litigiosità endemica delle autorità di Sarajevo, alla Bosnia sarà precluso il cammino verso l’Unione Europea. Bruxelles lo ha fatto capire: non c’è posto per un Paese che non sia in grado di governarsi. La chiusura dell’ufficio dell’Alto Rappresentante è così divenuta la condizione preliminare per l’avvio del processo di adesione all’Unione. La comunità internazionale nel 2007 ha addirittura indicato al governo bosniaco sette requisiti da rispettare (fra i quali la suddivisione delle proprietà tra lo Stato e gli altri livelli amministrativi e la sostenibilità fiscale) per giungere alla soppressione del posto, ma non si è registrato alcun progresso.

Dal 19 dicembre dello scorso anno i cittadini degli stati limitrofi, Serbia, Montenegro e Macedonia, possono spostarsi liberamente nei paesi dell’Unione Europea senza bisogno del visto. Non è così, però, per chi risiede in Bosnia Erzegovina cui questa possibilità è ancora preclusa. Un’altra occasione mancata e non sarà di certo l’ultima. A Bruxelles la sirena d’allarme per la Bosnia suona con una certa frequenza. La percezione è quella di un paese sull’orlo del tracollo, in procinto di frantumarsi e risucchiare in un nuovo folle vortice di violenza interetnica l’intera regione. Poi quando si va a Sarajevo ci si rende conto che il pericolo è sovrastimato. Si ha quasi l’impressione che sia enfatizzato ad arte per mantenere viva l’attenzione internazionale e garantirsi così il cospicuo pacchetto di aiuti che non cessa di arrivare dai drammatici giorni della guerra. Nikola Spirić, il Primo ministro, è categorico nel rispedire al mittente le critiche. “Non sono d’accordo con chi dice che non si è fatto niente, anche se è vero che ciò che abbiamo fatto avremmo potuto farlo meglio ed in tempi più rapidi – afferma. L’adesione all’Unione Europea e alla NATO rimangono le nostre priorità”. “Quello di cui abbiamo bisogno ora – continua – è di una tabella di marcia per la liberalizzazione dei visti e di un piano di azione che ci prepari all’ingresso nell’Alleanza Atlantica ma, soprattutto, di una ventata di ottimismo che ci faccia guardare al futuro con fiducia”.

Le ultime missioni degli esperti inviati da Bruxelles confermano che in pochi mesi Sarajevo ha compiuto passi significativi per ottemperare ai criteri di sicurezza necessari per l’abolizione del visto. Il semaforo verde potrebbe scattare in estate ma, conoscendo l’imprevedibilità del Paese, le autorità europee preferiscono non sbilanciarsi. In una mano il bastone e nell’altra la carota. La comunità internazionale, prima, e l’Unione Europea, poi, cercano ormai da quindici anni di addomesticare il lupo bosniaco. Gabbia alternata a guinzaglio, pressioni seguite da incentivi. La strategia sembra dare qualche risultato a patto che non si fissino scadenze che finirebbero col venire sistematicamente sforate. L’accordo di associazione con l’Unione fu siglato nel giugno del 2008 dopo un lungo braccio di ferro che obbligò il parlamento di Sarajevo a trovare l’intesa per la riforma della polizia. Il Fondo Monetario Internazionale ha subordinato il prestito di 1,2 miliardi di dollari all’adozione di una riforma strutturale del sistema fiscale. La liberalizzazione dei visti arriverà solo dopo il soddisfacimento di una lunga serie di misure legali e adempimenti tecnici imposti da Bruxelles. Ogni cosa ha i suoi tempi, l’importante è mantenere i nervi saldi e non perdere la pazienza.

Le stradine della città vecchia rimbombano dei passi dei pochi ed infreddoliti passanti nella gelida notte tra le minuscole botteghe sprangate. Cumuli di rifiuti attendono il passaggio della nettezza urbana. Bisogna stare attenti a non scivolare sulle insidiose lastre di ghiaccio che si confondono tra la patina di neve e la pavimentazione chiara. Anche il cammino della Bosnia verso l’Europa è pieno di insidie. Uno Stato normale le avrebbe superate in breve tempo. Non così Sarajevo, immobile e paralizzata nel suo candore. Gli stessi funzionari della Commissione Europea, pur esperti e navigati, confessano di perdersi, a volte, negli intricati processi decisionali del Paese, strozzato da un ingorgo di livelli amministrativi che ne pregiudicano la funzionalità.

Dieci cantoni nella Federazione croato-bosniaca, ciascuno con un proprio governo, a cui vanno aggiunti il governo della Federazione stessa, il governo della Republika Srpska a Banja Luka ed il governo centrale di Sarajevo. Anche la decisione più banale ha spesso bisogno dell’approvazione di tutte e tredici le autorità competenti, con tempi che si dilatano a dismisura ed i progetti che languono nei cassetti. E’ il lascito degli accordi di Dayton, utili a porre fine alla mattanza ma inutili o quasi in tempo di pace. E’ giunto il momento di voltare pagina e riformare in profondità le obsolete strutture statali ma bosniaci, croati e serbi recalcitrano lanciandosi reciproche accuse in uno snervante e scontato gioco delle parti. La Bosnia Erzegovina è in ginocchio dal punto di vista economico. L’unica industria che tira è quella della politica che sforna centinaia di amministratori (solo i parlamentari nelle varie assemblee sono 640 per un popolazione di neanche quattro milioni di abitanti) che occupano i labirinti istituzionali di uno Stato che brilla per inefficienza e corruzione.

Più che mattutino, il risveglio in hotel è antelucano. L’orazione cantilenante del muezzin precede di poco l’”Ave Maria” del campanile vicino. La multireligiosità nella capitale, almeno in apparenza, è stata preservata.

Un grande edificio moderno, su quello che era ai tempi della guerra il “Viale dei cecchini”, ospita il Parlamento. A nome dell’attuale presidenza dell’Unione, l’ambasciatore spagnolo dà il benvenuto, ma si lamenta della troppa animosità in circolazione e dell’assenza di una vera riconciliazione, un problema che va di pari passo con un sistema educativo ancora segregato in alcune parti del Paese. Ci pensano, poi, i membri del Parlamento bosniaco ad esibirsi in uno show di sospetti reciproci e scambi di accuse che confermano una profonda mancanza di fiducia e un’assenza di prospettiva comune. Da una parte i musulmani rinfacciano ai serbi la legge sul referendum appena adottata dalla Repubblica Srpska come un nuovo tentativo di secessione, dall’altra i serbi denunciano le iniziative dei musulmani miranti allo smantellamento degli accordi di Dayton che lascerebbe, a loro dire, la comunità serba in balia del fondamentalismo islamico. In mezzo i croati, che non fanno mistero di volere una propria entità autonoma separata da quella musulmana. I parlamentari europei assistono impotenti. Le élite nazionaliste la fanno ancora da padrone, ma è più probabile che, per un riflesso di auto-conservazione, stiano solo cercando di alzare il livello di scontro in vista delle elezioni generali del prossimo ottobre. Manca, però, un tassello in questo quadro nebuloso.

Se il Parlamento non trova l’accordo su alcune modifiche costituzionali, le elezioni rischiano di essere invalidate. Ci ha pensato ancora una volta un attore esterno ad imporre il cambiamento. Sono ormai cinque anni che i maggiori partiti bosniaci cercano, senza alcun successo, di riformare la costituzione. Nonostante la pressione di Unione Europea e Stati Uniti, anche gli ultimi tentativi dello scorso anno sono falliti. E’ bastato, però, il ricorso presso la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo da parte di Jakob Finci, leader della comunità ebraica, e Dervo Sejdić , leader di quella rom, a scuotere dalle fondamenta la complicata architettura istituzionale del Paese. Il 20 dicembre del 2009, infatti, la Corte di Strasburgo ha stabilito che l’attuale costituzione discrimina i cittadini che non appartengono ai tre gruppi costituenti, bosniaci musulmani, serbi bosniaci e croati bosniaci, impedendo loro di candidarsi alla presidenza collegiale tripartita e alla Camera dei Popoli. Ora il Parlamento di Sarajevo è chiamato ad agire e deve farlo in fretta se non vuole perdere un altro treno per l’Europa.

I programmi europei di pre-adesione sono tagliati sulla misura del Paese beneficiario. Per essere messi in atto hanno bisogno di dati certi, fra i quali è indispensabile conoscere il numero dei cittadini e la distribuzione di questi sul territorio statale. In Bosnia è dal 1991 che non si effettua un censimento. Il 22 gennaio scorso il Parlamento ha respinto il progetto di legge in materia obbligando le parti ad un nuovo tour de force per cercare di rispettare l’obiettivo di giungere ad un preciso rilevamento della popolazione nel 2011. Oggetto del contendere, in questo caso, è un’eventuale domanda sull’appartenenza comunitaria nel questionario da distribuire ai nuclei famigliari che sancirebbe, secondo i musulmani, la definitiva pulizia etnica in alcune parti del Paese, in particolare nella Republika Srpska.

Nella piccola aula bianca del Parlamento le accuse si inseguono in una sarabanda rituale di luoghi comuni, ma i toni rimangono contenuti e l’atmosfera civile, a dimostrazione di una routine logora che denota da una parte una reiterata assenza di fiducia e dall’altra una rassegnazione fatalista alla convivenza. Si abbaia tanto, ma non ci si morde più. La lingua è di fatto la stessa ma bosniaco, croato e serbo figurano come idiomi ufficiali della Bosnia Erzegovina con il rischio più che concreto che il giorno in cui il Paese entrerà nell’Unione Europea i parlamentari che a Sarajevo si parlano senza alcun bisogno di interpretazione a Bruxelles e Strasburgo comunicheranno attraverso tre cabine distinte. Invece di europeizzare i Balcani sarà così l’Europa ad essere balcanizzata.

La carovana del circo europeo si sposta in continuazione, ma gli spostamenti nello spazio post-jugoslavo rimangono sempre un problema. Poco meno di settecento chilometri separano Sarajevo da Skopje, ma per ragioni di tempo mi arrendo ad un breve volo via Zagabria, con il paradosso di muovermi prima ad ovest per poi tornare ad est, rinunciando, peraltro con piacere, a 23 ore di autobus o, in alternativa, a 18 di autobus per percorrere la stessa distanza. L’isolamento seguito alla frantumazione della Jugoslavia è stato un elemento decisivo per la sopravvivenza al potere dei leader nazionalisti. Da questo punto di vista si spera che in Macedonia le cose cambino dopo che è entrato in vigore l’accordo con Bruxelles per la liberalizzazione del visto di ingresso. Un ostacolo è stato superato sulla strada accidentata verso l’Unione, ma rimane ancora un macigno da rimuovere senza il quale non possono partire i negoziati di adesione, bloccati anche nel dicembre scorso malgrado la raccomandazione positiva della Commissione Europea. E bisogna scendere a sud, ad Atene, per riprendere il cammino verso nord. Se la questione del nome non si risolve, la Grecia continuerà a tarpare le ali al volo europeo della Macedonia, condannata ancora a presentarsi sulla scena internazionale sotto l’acronimo di FYROM (Former Yugoslav Republic of Macedonia/Ex Repubblica Jugoslava di Macedonia).

Nonostante gli sforzi delle Nazioni Unite il dialogo fra Atene e Skopje non fa progressi. Alcuni osservatori sostengono che senza integrazione europea il paese rischia il collasso, e questa opinione mi viene confermata da Teuta Arifi, vecchia amica oggi alla presidenza della Commissione Esteri del parlamento di Skopje. “A noi della comunità albanese il problema del nome non interessa”, mi spiega. “L’importante è riprendere la strada per Bruxelles”. Difficile, per Teuta, rimanere al governo con i nazionalisti macedoni che hanno puntato tutto sull’identità nazionale per catalizzare il consenso, stornando l’attenzione dalla crisi economica e sociale che attanaglia il Paese. Il primo ministro Grueski ribadisce i successi del governo nella riforma della pubblica amministrazione, dell’amministrazione giudiziaria e nella lotta alla corruzione, ma messo di fronte alla questione del nome sbotta “vorrei dire a Papandreu di non fare alla Macedonia quello che non vorrebbe fosse fatto alla Grecia, e di smetterla di negare la nostra identità”. La Macedonia è oggi l’unico paese della ex Jugoslavia ad avere risolto tutte le dispute territoriali con i Paesi vicini, ma paradossalmente allo stesso tempo mantiene vivi con quasi tutti contenziosi di carattere culturale (Bulgaria), religioso (Serbia) o identitario (Grecia). L’integrazione europea diventa così un fattore esterno di stabilità necessario per la coesione e l’integrazione interna della società macedone in tutte le sue componenti etniche.

Un deputato greco che fa parte della delegazione è arrivato in auto da Salonicco per evitare di atterrare con un volo da Atene nell’aeroporto di Skopje, dedicato ad Alessandro Magno. Per lui si tratta di un inammissibile furto di identità, una contraffazione della storia. A Bruxelles sostengono di aver trovato un sentiero nel ginepraio balcanico. Ritengono di dovere completare un lavoro non finito. A volte, però, penso che per i Balcani il lavoro sia infinito.

Paolo Bergamaschi è Consigliere per gli Affari Esteri del Parlamento europeo