La decisione di Zagabria di costruire un ponte sulla penisola di Pelješac, tagliando così il passaggio obbligato attraverso la Bosnia Erzegovina, mette a nudo l'atteggiamento del membro croato della presidenza tripartita bosniaca Dragan Čović
La Croazia ha annunciato l’inizio della costruzione del ponte sulla penisola di Pelješac che collegherà la città di Dubrovnik (Ragusa) alla rete autostradale nazionale, evitando di passare attraverso Neum, l’unica città costiera bosniaca.
La decisione ha implicazioni internazionali per due ragioni: perché il confine tra la Croazia e la Bosnia Erzegovina, in quel punto, non è mai stato definito dalle parti come ratificato e perché, con il ponte, la Croazia taglierebbe - per le grandi navi - la Bosnia Erzegovina dall'accesso alle acque internazionali violando la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto al mare.
Un presidente contro
In questo contenzioso tra i due paesi, Dragan Čović, membro croato della presidenza tripartita bosniaca, si è affrettato a dare pieno sostegno alla decisione della Croazia ed è andato di corsa a Zagabria per congratularsi di persona con i politici croati che l'hanno adottata.
Non capita spesso che il presidente di un paese agisca contro gli interessi del proprio stato. Il suo comportamento è stato definito in Bosnia Erzegovina da alcuni come “alto tradimento”. Alcuni politici bosgnacchi del Partito d’azione democratica (SDA) e quelli di orientamento civico e democratico hanno citato un caso a loro avviso simile, quando, settant’anni fa, Ante Pavelić, presidente dell’autoproclamato Stato indipendente di Croazia (NDH) e fondatore del movimento nazionalista degli Ustascia, regalò ai suoi amici fascisti italiani la costa dalmata.
Portando il paragone a livello del nostro continente, per molti europei un gesto del genere potrebbe evocare il politico nazionalista norvegese Quisling che, all’inizio della Seconda guerra mondiale, quando i nazisti occuparono la Norvegia, si mise al servizio di Hitler. Il termine “quisling” si adopera ancora oggi nei confronti di governi che si mettono al servizio degli occupanti stranieri.
L’atteggiamento di Dragan Čović non è un incidente, non è una gaffe diplomatica, ma l’ultima espressione delle sue continue e costanti azioni contro gli interessi della Bosnia Erzegovina a favore della Croazia.
Per anni aveva mantenuto un atteggiamento discreto, ma ultimamente esprime in modo sempre più diretto il suo sentimento anti-bosniaco e pro-croato, le sue azioni e le sue dichiarazioni sono precisamente coincidenti con le decisioni di Zagabria.
Dragan Čović è uscito allo scoperto e si sta comportando allo stesso modo del suo collega Milorad Dodik, il presidente della Republika Srpska di Bosnia Erzegovina rispetto alla Serbia.
Impedire che la Bosnia Erzegovina funzioni
Čović e Dodik stanno svolgendo lo stesso compito: impedire alla Bosnia Erzegovina di essere uno stato funzionale. I due collaborano, hanno un’ottima intesa, si coalizzano di volta in volta a favore della Croazia o della Serbia a scapito della Bosnia, si scambiano favori politici.
Sia Čović che Dodik possono comportarsi in questo modo perché sono sostenuti e incoraggiati dai politici nazionalisti dei due rispettivi paesi, Croazia e Serbia.
"Quel patto dovrebbe essere chiamato con il suo vero nome, è un’alleanza anti-musulmana", dice lo scrittore serbo Filip David. "Il futuro della BiH dipende da due progetti nazionalisti - croato e serbo. I politici nazionalisti serbi non hanno mai abbandonato l’idea di unire la Republika Srpska alla Serbia. Quell’idea è sempre esistita. I suoi sostenitori ritengono che dopo la disintegrazione della Jugoslavia non possa esistere la Bosnia Erzegovina, che è in qualche modo una Jugoslavia in miniatura. Essi ritengono che abbiamo bisogno di creare stati etnici… Non si rendono conto che un tale progetto è stato storicamente sconfitto, che ha prodotto un raccapricciante costo di vite umane, sofferenze, crimini e che per realizzarlo ci vorrebbe una nuova guerra, con spargimento di sangue, crimini, atrocità".
Milorad Dodik si sente forte grazie anche all’influenza sempre più massiccia della Russia nei Balcani che, secondo la rivista americana “Foreign Policy”, mira a incoraggiare il separatismo dell’entità della Republika Srpska.
Dodik ripete in continuazione di non riconosce la Bosnia Erzegovina, di non andare a Sarajevo perché là si sente come a Teheran, di non vedere l’ora di unire la Republika Srpska alla Serbia, e definisce già questa entità come stato, sostenuto dal presidente della Serbia Aleksandar Vučić. Sui bosniaci espulsi durante la guerra degli anni Novanta che tornano alle loro case nella Bosnia orientale dice che sono degli “occupanti”, insulta i religiosi musulmani perché, secondo lui, urlano e non pregano, il suo partito Alleanza dei socialdemocratici indipendenti (SNSD) non permette ai bosniaci che vivono nell’entità della Republika Srpska di chiamare la propria lingua “bosniaco”, nelle scuole si insegna secondo il programma scolastico della Serbia, non reagisce quando il principale membro del suo partito promette ai bosniaci un altro genocidio.
Dodik stesso ultimamente va oltre il negazionismo, glorifica e promette la revisione della sentenza del tribunale dell’Aia sul genocidio di Srebrenica. E appoggia il suo collega croato bosniaco Dragan Čović in qualsiasi azione che vada contro il governo centrale della Bosnia Erzegovina.
Čović e Dodik parlano con disprezzo “della Sarajevo politica” e sottintendono che il governo centrale della Repubblica di Bosnia Erzegovina sarebbe “musulmano”.
Non è che questi due si amino tantissimo, l’intesa si basa su interessi comuni per raggiungere lo stesso obiettivo: impedire la stabilizzazione della Bosnia creando una crisi permanente, adottare una politica concepita come la continuazione della guerra con mezzi diversi.
Herceg Bosna
Dragan Čović da anni, insieme ai politici nazionalisti di Zagabria, presso le cancellerie mondiali, si batte per cambiare il carattere legale e politico della Federazione (una delle due entità che costituiscono la Bosnia Erzegovina, ndr), perché ritiene che i croati della Bosnia Erzegovina non possono restare senza una propria entità.
È un pretesto per creare la terza entità, per restaurare la cosiddetta “Herceg Bosna”, l’entità politico-territoriale formata durante la guerra dai croati bosniaci con il sostegno politico-militare della Croazia (come stabilito dal Tribunale dell’Aja), e ripulita etnicamente dei non croati.
In breve, quello che i serbi avevano fatto nella Bosnia settentrionale e orientale, i croati bosniaci avevano tentato di farlo nel sud del paese, in Erzegovina. Quell’esperimento è stato definito dal Tribunale dell’Aja un’impresa criminale congiunta, i principali colpevoli croati sono stati processati e condannati a lunghi anni di carcere per crimini di guerra e contro l’umanità.
Dragan Čović con il suo partito Unione democratica croata (HDZ) è inoltre il principale promotore del concetto di “due scuole sotto un tetto”, cioè la segregazione della popolazione scolastica basata sulla religione, e delle politiche che ostacolano e impediscono ai bosgnacchi espulsi di rientrare nelle loro zone d'origine ora abitate quasi esclusivamente da croati.
Quando i bosniaci, le vittime dei campi di concentramento allestiti dai croati durante la guerra, chiedevano a pieno diritto alla Croazia il risarcimento, basandosi sulla sentenza del Tribunale dell’Aja, Dragan Čović, da membro della presidenza bosniaca, affermava che il risarcimento andava chiesto alla stessa Bosnia Erzegovina!
Dragan Čović è poi quello che dà il benvenuto e si fa fotografare con il criminale di guerra Dario Kordić (condannato per il massacro di Ahmići) e lo ingaggia per la campagna elettorale del suo partito HDZ subito dopo essere uscito dal carcere.
Dall’altra parte i politici bosgnacchi, specialmente il presidente del partito SDA, Bakir Izetbegović, con i suoi legami con la Turchia e il presidente Erdoğan, gli offrono il pretesto di questo comportamento e vanno di pari passo con i piani di Belgrado e Zagabria sulla divisione della Bosnia Erzegovina.
Ma la “non–politica” di Izetbegović difficilmente può essere misurata o parificata con il costante comportamento anti-bosniaco dei nazionalisti croato-bosniaci e serbo-bosniaci.
I due nazionalismi approfittano della globale islamofobia per la disumanizzazione dei bosgnacchi. Parlano della “dorsale verde”, ovvero la via immaginaria con la quale i musulmani bosniaci dovrebbero collegarsi con i fratelli musulmani degli altri continenti.
Il termine “traversale verde” fu utilizzato per la prima volta, in senso politico, dal capo del Partito radicale serbo, Vojislav Šešelj, condannato per crimini di guerra.
Šešelj è di Sarajevo dove esiste la “traversale verde”, la strada ideata prima delle Olimpiadi del 1984 da alcuni professori dell’Istituto di architettura di Sarajevo (il capo progettista era un professore serbo), per spostare il traffico dei camion fuori dalla città, per rendere l’aria meno inquinata. Šešelj sa benissimo che di "traversale verde" esiste solo quella, ma la logica e la verità non accompagnano sempre e ovunque la politica.
Difensori
I nazionalisti dei paesi vicini e quelli “domaći bosniaci” puntano il dito contro il pericolo dell’islam e si auto candidano per proteggere l’Europa cristiana dai non cristiani.
Così la presidente croata Kolinda Grabar Kitarović spara che “in BiH ci sono almeno diecimila terroristi islamici”. La bugia è stata prontamente smentita sia dalla polizia bosniaca che da quella europea. Ma la sua dichiarazione gira e va a favore di determinati obiettivi politici in Bosnia Erzegovina.
Un grande assente in Bosnia Erzegovina è l’Unione Europea che, secondo Lars-Gunnar Wigemark, capo della delegazione dell’UE in Bosnia Erzegovina, non ha un piano di riserva per affrontare un’eventuale crisi nell’area.
L’ex ambasciatore tedesco in BiH e Kosovo, Michael Schmunk, ritiene che “l’Unione Europea e l’Alto rappresentante della comunità internazionale in BiH, abbiano la capacità di intervenire (politicamente) ma sembra che in Europa la solidarietà con i serbi e la Republika Srpska sia aumentata, e che anche la guerra sia stata dimenticata. Per l’Europa sarebbe catastrofico dal punto di vista storico-politico se si lasciasse che i musulmani bosniaci perdessero la guerra per la seconda volta”.