Vittime contro vittime, dolore contro dolore. Una prassi consolidata nelle guerre di dissoluzione della Jugoslavia, riproposta di recente con la commemorazione a Prijedor delle vittime serbe dell’operazione Oluja. Commento
Era il gennaio del 1998. A quel tempo i villaggi bosgnacchi attorno a Prijedor, la cittadina della Republika Srpska dove lavoravo per l’OSCE, erano dei luoghi fantasma. Cumuli e cumuli di macerie che spesso occupavano anche le poche strade ancora agibili, dove non era infrequente trovare dei resti umani appena si iniziava a rimuove le macerie.
Eppure, in quei posti sostanzialmente abbandonati, la mia collega ed io avevamo notato che alcune case, parzialmente distrutte, erano state riparate alla bell’e meglio. Porte e finestre erano state inserite al posto degli infissi originali che erano stati rubati. Lo spazio in eccesso tra finestra e muro era stato chiuso con pile di mattoni probabilmente recuperati dalle macerie.
Nella zona di Prijedor il ritorno dei quasi 50.000 bosgnacchi cacciati durante il conflitto non era ancora iniziato. Era chiaro quindi che gli abitanti di queste case non erano i proprietari originali, ma persone che in qualche modo vi avevano trovato rifugio. Quello che ci colpì a suo tempo era che non si trattava di casi isolati, ma decine e decine di case, erano state riparate in questo modo approssimativo. Non sembravano degli sforzi isolati, ma piuttosto un improvvisato tentativo di ricostruire case distrutte. Il loro numero colpì la mia attenzione. Queste case si trovavano soprattutto nella zona di Kozarac e Trnopolje, lungo la strada che da Prijedor porta a Banja Luka.
Chiesi informazioni in giro, cercando di capire chi avesse ricostruito le case e chi ci abitava.
La risposta era concorde: “Ah, è la gente di Martić!”. Milan Martić era uno degli ideatori dell’insurrezione dei serbi in Croazia e la longa manus di Milošević in Krajina. Al momento dell’operazione “Tempesta” (“Oluja”), l’operazione militare con cui la Croazia smantellò la repubblica secessionista serba e di fatto mise in fuga i serbi di Krajina, Martić ne era il presidente. Successivamente indiziato per crimini di guerra, fu condannato nel 2007 a 35 anni di carcere per aver organizzato la pulizia etnica dei croati e di altre popolazioni non serbe dalla Krajina. Al momento sta scontando la pena in Estonia.
I “curdi d’Europa”
Alla fine riuscimmo ad avvicinare gli abitanti di quelle case. Ci fecero entrare e potemmo vedere dall’interno le misere condizioni delle abitazioni. La casa era riscaldata a malapena da una stufa recuperata chissà dove, le finestre e gli infissi riuscivano a stento a tener fuori il freddo. Chiacchierammo un po’ con i nostri ospiti, capimmo che erano scappati dalla Krajina nel 1995 ed allora si erano sparpagliati in vari gruppi. Il gruppo che era arrivato a Prijedor era stato evidentemente sistemato nelle case parzialmente distrutte dei bosgnacchi di Kozarac e Trnopolje, per occuparle e far sì che questi non vi facessero ritorno, secondo la prassi tipica delle guerre di dissoluzione della Jugoslavia di usare le vittime di un gruppo etnico contro le vittime di un altro gruppo etnico.
Chiedemmo loro chi era stato a fornire il materiale di costruzione, ci imbattemmo in un muro di omertà. “Qualcuno” fu la risposta e i nostri interlocutori non vollero dare ulteriori spiegazioni. Erano però preoccupati per il loro futuro, capivano che i legittimi proprietari delle case vi avrebbero fatto ritorno prima o poi, ma non sapevano che cosa sarebbe accaduto a loro e dove sarebbero andati. Non sapevano di quale stato fossero cittadini, i serbi di Krajina si sentivano “i curdi d’Europa” per riprendere un’espressione usata a suo tempo. I loro capi, Martić in primis, si erano dati alla latitanza e non si sapeva dove fossero.
Pochi mesi dopo, iniziò la ricostruzione dei villaggi attorno a Prijedor in attesa del ritorno dei legittimi proprietari. A poco a poco, osservammo che i serbi della Krajina se ne stavano andando e in breve scomparvero senza lasciare traccia.
Il gruppo di rifugiati serbi a Prijedor probabilmente non fu il più sfortunato. Molti dei rifugiati serbi dalla Krajina, una volta arrivati a Belgrado furono immediatamente mobilitati dal governo serbo e sottoposti ad addestramento forzato nel campo gestito dal famigerato leader paramilitare Arkan nell’attuale Erdut per poi esser rispediti al fronte a combattere in Slavonia orientale. Arkan e le sue truppe paramilitari accusavano i serbi di Krajina di esser ubriaconi e traditori per esser fuggiti dalle proprie terre. Altri serbi di Krajina invece furono spediti in Kosovo, a ripopolare la regione meridionale della Serbia dove da alcuni anni Milošević stava esercitando il pugno di ferro nei confronti della popolazione albanese kosovara. I rifugiati dalla Krajina rappresentavano una presenza imbarazzante per il governo di Slobodan Milošević.
Lo scenario si ripete
Un quarto di secolo dopo, pochi giorni fa, lo stesso scenario si è ripetuto a Prijedor. Da alcuni anni in Serbia, la ricorrenza di Oluja, assieme a quella dei bombardamenti NATO sul Kosovo, è divenuta uno dei momenti salienti del nazionalismo serbo, quando si svolgono importanti manifestazioni per commemorare le vittime serbe in un modo del tutto avulso dal contesto che ha causato queste vittime. Quest’anno, a sorpresa di molti, la scelta su dove tenere la commemorazione è caduta su Prijedor. Ancora una volta a tutti è parsa chiara l’intenzione di schierare le vittime degli uni contro le vittime degli altri. Dolore contro dolore.
La decisione è stata presa dal presidente serbo Aleksandar Vucić, dal presidente della Republika Srpska Milorad Dodik e dal Patriarca della Chiesa serba ortodossa Porfirije. Una delle ragioni, o dei pretesti, è stata probabilmente la vicinanza di Prijedor al luogo in cui la colonna di rifugiati serbi in fuga dalla Krajina è stata bombardata dall’aviazione croata, caso per il quale c’è un procedimento per crimini di guerra in corso a Belgrado.
La scelta di Prijedor ha suscitato sarcasmo e critiche : Edin Ramulić, dell’iniziativa “Jer me se tiće”, che a Prijedor organizza ogni anno la commemorazione delle vittime bosgnacche, ha detto che non vi sarebbero stati problemi se la manifestazione fosse stata organizzata dai rappresentati delle vittime serbe di Krajina, ma il fatto che ad organizzarla fossero le autorità della Serbia e della Republika Srpska, assieme alla Chiesa ortodossa, rappresentava certamente una provocazione dato che si commemorava la cacciata dei serbi dalla Krajina nella città da cui furono cacciati bosgnacchi e croati.
La propaganda fa autogol
Il caso ha voluto che le parole di Ramulić trovassero conferma in un imbarazzante incidente mediatico avvenuto durante la commemorazione. La foto simbolo dell’evento, che campeggiava dietro il podio da cui parlavano gli oratori, ritraeva una madre con in braccio una neonata di pochi mesi mentre fuggiva da quella che doveva esser la Krajina attaccata dall’esercito croato.
Poche ore dopo però si è scoperta la verità. La foto non ritraeva degli sfollati serbi, ma bensì degli sfollati bosgnacchi in fuga dall’esercito serbo nell’enclave di Žepa, vicino a Srebrenica. Anziché essere una testimonianza dei crimini contro le vittime serbe, la foto era una testimonianza dei crimini commessi dall’esercito della Republika Srpska contro i bosgnacchi. Un clamoroso autogol mediatico dell’apparato del governo della Republika Srpska che si era affidato ad un’agenzia di Belgrado per l’organizzazione dell’evento. A poco sono servite le scuse dell’agenzia di Belgrado quando l’episodio è diventato virale sui social media.